Concorso di colpa di Marina Boscaino e Marco Guastavigna, Pavone Risorse 22.2.2009 La circolare n. 16/2009 sull'adozione dei libri di testo ha inaugurato anche quest'anno il pellegrinaggio nelle sale professori delle scuole italiane da parte dei rappresentanti delle case editrici: un rituale che scandisce la fase post primo quadrimestre dell'anno scolastico. La circolare questa volta ha rappresentato per noi l'occasione di riflettere su quella che ne costituisce la principale novità: l'ipotetica adozione dei libri di testo in versione digitale. Una novità ventilata già da diversi anni, esplicitamente prevista da una serie di annunci estivi di Tremonti e sostanziata, in maniera a dire il vero ambigua, nella circolare in questione. Che dice molto – e da molti punti di vista - sul modo approssimativo con cui l'amministrazione tenta di proporre agli insegnanti strategie, modalità, operazioni che potrebbero rappresentare prospettive percorribili nel campo della ricerca e della sperimentazione se non banalizzate. Già: ricerca e sperimentazione. Due degli elementi su cui avrebbe dovuto basarsi l'autonomia scolastica, ai quali il mondo della scuola ha derogato prima di subito, preferendo - nella maggior parte dei casi - proteggersi in un limbo intoccabile di immobilismo o di reiterazione di pratiche conosciute e sicure, forte della possibilità di farlo garantita dagli stipendi irrisori e dalla sempre maggiore delegittimazione sociale di questa professione. Se nasca prima l'uovo o la gallina è presto detto: il tacito patto fate poco, paghiamo poco è stato sottoscritto di buon grado quasi unanimemente da ambo le parti. Ma questa accettazione ha portato ben presto anche ad una disattenzione progressiva nella comunicazione tra amministrazione e mondo della scuola. Una disattenzione accolta per lo più con disinteresse dal mondo della scuola, incapace di contrapporsi alla farragine burocratica, alla frequente improvvisazione dilettantesca, allo scialo di promesse, premesse, formule, intenzionalità alle quali continuamente si allude – quasi il solo nominarle le rendesse reali – ma alle quali quasi mai è seguita una realizzazione. Si chiama rassegnazione. Ed è umiliante. Torniamo alla circolare: la caratterizzano tre equivoci. Il primo: che la scelta del libro di testo configuri ancora e sempre un'operazione significativa dal punto di vista culturale, pedagogico, didattico. Il più delle volte non è così. Il combinato tra un mercato ipertrofico e l'indolenza di molti insegnanti ha allentato la vigilanza rispetto alla significatività culturale del prodotto. Da una parte si sono susseguite edizioni ed opere (e quindi scelte) quasi casuali, puntate sulla minima modifica o su innovazioni non necessariamente significative; dall’altra sono stati mantenuti per inerzia testi per lustri, senza impegnarsi a sondare possibilità alternative ed aperture di nuovi orizzonti. Il problema a monte è - come ci sembra evidente - la formazione degli insegnanti, iniziale ed in itinere. E, prima ancora, la consapevolezza dell'esercizio di una responsabilità educante - che significa non solo trasmissione di contenuti, ma anche modalità di trasmissione, selezione, approccio ai contenuti stessi - che molti non hanno più voglia di esercitare. Ecco poi il motivo del secondo equivoco: la questione della spesa. Ogni settembre torna a tenere banco sui giornali il caro libri. Quando le famiglie, elenchi alla mano, si trovano a fare i conti con cifre più o meno astronomiche che vanno ad incidere significativamente sui badget mensili. Sul banco degli imputati gli insegnanti, come si diceva. Ma le case editrici – tranne alcune significative eccezioni – non hanno fatto nulla in questi anni per arginare la deriva di sprechi che nel campo dell’editoria scolastica si è consolidata. La logica mercantile ha portato ad una spesa sempre più consistente per arginare la quale – invece di proporre una politica di maggior rigore e serietà nella produzione ed edizione di nuove opere – si sono giocate da parte dell’amministrazione le carte apparentemente buone per tutte le stagioni: quella del rigore e quella della “modernità”. La prima arriva sotto forma di vincolo a non cambiare testo per cinque anni: quasi a dire che le materie sono quelle e i contenuti non possono, poi, di molto variare. In barba a qualunque sviluppo della ricerca, sia nel campo della didattica che dell’evoluzione delle conoscenze. La seconda configura il terzo equivoco: la previsione di un inserimento del formato digitale tra le possibili scelte del docente (con tutte le ambiguità e le leggerezze che abbiamo segnalato altrove) viene illustrata e caldeggiata sostanzialmente come deterrente rispetto al caro libri. Questo significa prima di tutto privare l’ingresso del digitale di qualsiasi valenza di innovazione autenticamente culturale, incentivando, invece, la produzione spregiudicata da parte di alcuni di materiale di qualità discutibile, non concedendo spazio e tempo per sviluppare una riflessione che coinvolga seriamente mondo della scuola e mondo dell’editoria.
La circolare potrebbe rappresentare
uno dei tanti pretesti che l’amministrazione ha fornito al mondo
della scuola per scardinare una logica di corresponsabilità rispetto
all’affaccendamento inoperoso, al quale assistiamo da troppi anni,
che immobilizza la scuola stessa e autolegittima l’amministrazione.
E un serio dibattito, invece, restituirebbe dignità alla pratica
delle adozioni, potrebbe chiarire gli equivoci, riproporrebbe agli
insegnanti l’idea di assumere un atteggiamento attivo anche rispetto
a questioni che sono entrate per inerzia a far parte di rituali
stanchi e consumati, esigendo, in questi come in molti altri campi,
un protagonismo consapevole al quale sembrano stancamente aver
rinunciato. |