SCUOLA

Vista da una prof: più che darci i voti,
dovrebbero ri-valutare il nostro lavoro

Antonella Paolillo, il Sussidiario 1.12.2009

Per affrontare con qualche realismo la questione della valutazione degli insegnanti, credo non sia inopportuno far cenno alla s-valutazione a cui i medesimi sono sottoposti da molto tempo, con una certa dose di corresponsabilità da parte loro, a dire il vero. È noto che gli insegnanti sono pagati poco, nonostante le reiterate promesse di governi di opposto orientamento politico. Non è vero che gli si chiede poco: negli ultimi dieci anni la quantità di lavoro e soprattutto le condizioni di lavoro sono diventate molto più pesanti; è verissimo invece che nessuno chiede mai conto di nulla. Il dirigente scolastico di solito non entra nel merito del lavoro dei suoi docenti, se non quando le lamentele degli “utenti” superano il livello di guardia. Le famiglie, invece, entrano eccome nel merito e stabiliscono se il docente pretende troppo, somministra compiti troppo difficili, chiede un impegno eccessivo. Talvolta danno anche consigli (non richiesti) sulla didattica. Potrei continuare a lungo, ma sta di fatto che anche l’insegnante più appassionato e motivato, finisce presto o tardi per sentirsi “sprecato”, o meglio “s-valutato”, come si diceva prima, e rimpiange di non aver fatto a suo tempo scelte lavorative diverse. Non si ha certo la percezione di lavorare in un contesto che premia e fa crescere i talenti di ciascuno. Ecco perché trovo che sarebbe positivo valutare gli insegnanti: finalmente qualcuno si occuperebbe di quello che facciamo e di come lo facciamo.

Il problema grosso è cosa valutare. L’identikit del buon insegnante si può fare: non è semplice, ma si può fare. Ma è un profilo che tocca talmente tanti aspetti e discipline che l’impresa di valutare l’efficacia di un insegnante è di quelle che fanno tremare le vene ai polsi.

Valutare i risultati degli studenti? Intanto sarebbe opportuno valutare i loro progressi, dato che vivono un’età di forte evoluzione, e sono così diverse le condizioni di partenza per contesti culturali, sociali, economici. Inoltre somministrare prove nazionali direbbe qualcosa su come lavora l’istituto scolastico nel suo insieme più che sul singolo insegnante che non è onnipotente, anche perché non lavora da solo, e non è alle prese con un materiale informe e malleabile.

Valutare la cultura dell’insegnante? Nemmeno questo dato è sufficiente, a meno di non pensare agli alunni come contenitori da riempire.

Il lavoro dell’insegnante è soprattutto un lavoro di relazione tra il sapere di cui poco o tanto egli è portatore, e lo studente, che a sua volta è il terminale di una fitta rete di relazioni con la sua famiglia, con il mondo fuori dalla scuola, con i compagni di classe, con gli altri insegnanti. E non sono meno importanti le relazioni con i colleghi del Consiglio di classe, con quelli del dipartimento… Ma come si valuta la capacità di relazione di un docente? Quanto tempo occorrerebbe ad un fantomatico ispettore per giudicare su attitudini così complesse?

E siamo al cuore del problema. Utilizzo la parola attitudini perché temo che questo resti, a dispetto di tutte le teorie e gli auspici, un mestiere insegnabile solo in parte e poco misurabile: Il mestiere del “professore”, un termine in qualche misura di per sé opaco, abbraccia ogni sfumatura possibile tra gli estremi di una vita di routine, disincantata, e un esaltato senso di vocazione (G. Steiner, La lezione dei maestri, Garzanti, pag. 9). (…) Diversamente si è sostenuto che l’unica licenza onesta e verificabile per l’insegnamento, per l’autorità didattica, si ottiene grazie all’esempio. (…) Rispetto alla moralità solo la vita effettiva del maestro ha forza dimostrativa; Socrate e i santi insegnano mediante la loro esistenza (ibidem, pag. 11-12). Non c’è niente da fare: chi insegna porta in aula se stesso, si insegna mediante la propria esistenza, ma la qualità di questo materiale non è misurabile né esigibile per contratto, eppure tutti sappiamo che è la parte essenziale.

In conclusione, mi pare che la valutazione della funzione docente si riveli una faccenda lunga e complessa, che necessiterebbe di una pluralità di punti di vista e - non ultimo - di osservatori competenti, quasi dei supervisori. Mi sembra una prospettiva lontana dalla realtà. Proviamo a ribaltare il punto di vista: spesso, quando si parla di questi temi, si assume un tono vagamente minaccioso, del tipo «ragazzi, la ricreazione è finita». Non si potrebbe invece, per una volta, assumere un’ottica positiva, puntare intanto a ri-valutare il lavoro dei docenti?

Prevedere un sistema più flessibile che consenta di offrire a turno, istituendo dei concorsi per titoli, periodi “sabbatici” fuori dall’aula (verificati per esempio attraverso il modello dei crediti universitari) per studiare, aggiornarsi, formarsi e poi formare i colleghi che cominciano; un sistema che consenta di valorizzare i talenti di ciascuno, le competenze acquisite spesso a proprie spese e nel tempo libero. Certo, sarebbe necessario introdurre figure professionali con competenze nel campo delle risorse umane. Bisognerebbe che le istituzioni scolastiche giocassero la loro autonomia (ma un’autonomia reale) in termini di creatività e di responsabilità, per non far crescere all’infinito la spesa dello stato. In buona sostanza bisognerebbe credere che investire sulla ri-valutazione della funzione docente, sia un buon servizio per il futuro delle giovani generazioni.