3 dicembre, più lotta che festa

di Franco Bomprezzi da Vita.blog del 3.12.2009

La domanda che mi sorge spontanea è: ma prima della crisi le persone con disabilità in Italia vivevano nel migliore dei mondi possibili? Avevano cioè pieno accesso al lavoro, all’istruzione, ai servizi domiciliari, a progetti di vita indipendente, agli ausili tecnologicamente avanzati, al tempo libero in strutture accessibili a tutti, e così via?

La risposta, ovvia, è no. Prima della Crisi si stava faticosamente costruendo una serie di piccole certezze normative, a livello nazionale ma anche a livello regionale, partendo dall’esplosione dei principi contenuti nella gloriosa legge quadro n. 104 del 1992. Per numerosi anni, attraversando i cambi di governo nazionale e regionale, le associazioni delle persone con disabilità e gli esperti dei singoli temi hanno svolto un assiduo lavoro sui contenuti di riforma e di ammodernamento del Paese. Piccoli passi, uno alla volta, spesso poco noti al grande pubblico, tranne quando si trattava di usufruire dei vantaggi faticosamente conquistati.

Penso ad esempio alle poche agevolazioni fiscali che tuttora esistono e che consentono qualche margine di manovra, fra l’altro, nell’acquisto e nell’adattamento di un’autovettura, nella ristrutturazione delle abitazioni, nella scelta di alcuni ausili ancora non contemplati dal Nomenclatore Tariffario. Oppure al consolidamento dell’integrazione scolastica, strappando anno dopo anno qualche piccola miglioria al meccanismo dell’assegnazione degli insegnanti di sostegno, e dei servizi correlati. Oppure anche agli investimenti, modesti ma significativi, nel settore dei trasporti pubblici urbani e ferroviari.

Cito questi piccoli traguardi perché oggi, 3 dicembre 2009, la sensazione diffusa e condivisa è che la battaglia è tutta sulla difensiva. La Crisi ha scardinato i bilanci pubblici, i piani di rientro delle Regioni, che ormai hanno in mano per il crescente federalismo il vero potere nel campo dei servizi alle persone e alle famiglie, stanno determinando un oggettivo e diffuso peggioramento della qualità e della quantità delle misure sin qui garantite, sia pure a fatica.

La risposta che mi sembra emergere è quella di una nuova sanitarizzazione della disabilità. Accertamenti restrittivi delle certificazioni di invalidità, finanziamenti prevalenti a centri come le Rsa e le Rsd, ossia residenze protette e inevitabilmente emarginanti, utilizzando perfino la leggina sulla vita indipendente, che diceva tutt’altro. Sembra essersi arenata la spinta verso una più equilibrata suddivisione della spesa pubblica e privata fra sociale e sanitario. Anzi, i servizi sociali, non essendo considerati essenziali, come quelli strettamente legati alla salute (che però non sono sicuramente specifici delle persone con disabilità, ma riguardano tutti i cittadini in quanto pazienti) stanno subendo contrazioni e contrattazioni (partecipazione alla spesa sempre più onerosa) che spesso mettono in difficoltà le famiglie.

Tutti dicono che la famiglia è al centro dell’attenzione politica. Ma quello che arriva dalle famiglie delle persone con disabilità è di segno opposto. C’è rabbia, paura, delusione, inquietudine. Specialmente quando ci si riferisce alle situazioni di grave handicap, che richiedono interventi mirati e competenti, non soluzioni precarie e con il contagocce. Un’ora di assistenza domiciliare non serve a nulla, tanto per capirsi. Specie se scopriamo che in un anno sono stati spesi 8 miliardi per le badanti destinate ad accudire anziani non autosufficienti.

L’impoverimento delle famiglie è dunque il vero tema di questo 3 dicembre. Un impoverimento anche morale, perché senza speranza di miglioramento si vive male, ci si sente abbandonati. E la mia sensazione è che manchi, davvero in modo troppo evidente, un impegno coordinato, una visione, una presa in carico politica, del tema Disabilità. Non solo perché non c’è un ministro competente per davvero (non me ne voglia Sacconi, ma è così). Ma anche perché mi sembra del tutto scomparso un coordinamento delle politiche strutturali.

Occorre, a mio giudizio, ripensare e rileggere la legge quadro, trarre nuovo slancio riformatore dalle tante incompiute che stanno rendendo difficile la vita di milioni di persone. Il mondo delle persone con disabilità ha fatto ben poco ricorso alla magistratura per vedere tutelati i propri diritti, nonostante esista una legge precisa contro la discriminazione. La magistratura, da parte sua, molto raramente ha dimostrato competenza e spirito di iniziativa, pur in presenza di evidenti inadempienze, se non di palesi decisioni che danneggiano di fatto le famiglie e le persone disabili. Il mondo dei media ha esplorato poco e male questo malessere, diffuso in tutto il territorio nazionale, anche nelle Regioni.

 

Allego volentieri in questo spazio le emozionanti riflessioni di Elena Duccillo, inviate via mail. Io faccio solo il postino, e le inserisco qui, a beneficio dei miei affezionati navigatori:

Caro Cavaliere a rotelle,

non dovevi offrire questo tuo spazio ai tuoi affezionati lettori, primo perché mi hai provocato su un campo che ci accomuna, la facilità di penna e poi su quello che non ci manca: il coraggio di ricominciare ogni volta che gli eventi ci travolgono. Non parlo, Franco, del ricominciare da zero, ma di farlo guardando quanto di buono si è costruito, senza nascondere di contro pericolosi arretramenti che appaiono obiettivi.

Getto un sasso nello stagno in questo 3 dicembre 2009, cerco di usare parole semplici per chi non vive come me da sempre nel mondo della scuola.

Voglio raccontare ai tuoi affezionati lettori come ho trascorso questo 3 dicembre essendo impedita non da una frattura ma da un dovere di stato a partecipare alle iniziative delle varie organizzazioni.

Come ogni mattina da due anni in alternanza con un’altra mamma ho accompagnato mio figlio Paolo a scuola prima di recarmi a lavorare.

Paolo è il mio figlio primogenito mandante del 90% delle mie battaglie, la mia scommessa quotidiana contro tutto e contro tutte le ottusità, gli stigmi, le reticenze e le discriminazioni.

Ha scelto un indirizzo di scuola superiore a 23 chilometri da casa, è felice della sua scelta, studia con profitto e sogna un futuro da chef.

Latitante e responsabile della mancata erogazione di un servizio obbligatorio e previsto per legge la Provincia di Roma che insensibile alle mie reiterate richieste e proteste mi costringe ad accumulare permessi lavorativi e a rischiare di schiantarmi contro un albero della via dei Laghi ogni volta che sono in ritardo sul lavoro, quando fior fior di sentenze la inchiodano alla sua responsabilità: al trasporto scolastico degli scolari con disabilità che frequentano le scuole superiori.

Dopo la prima necessaria dissertazione ritorno al mio 3 dicembre in mezzo a quelli che per sono la vera speranza nelle mie mani: gli alunni di una scuola statale primaria della provincia di Roma.

E’ con loro che il giovedì condivido le mie sette ore di lavoro interrotte da una pausa pranzo di un’ora.

Ho imparato a conoscerli da poco e loro a conoscere me, perché è dal primo di settembre che dopo quindici anni di insegnamento in un istituto del mio paese di residenza mi muovo in un ambiente lavorativo nuovo e mi destreggio cercando di ricostruirmi una reputazione una vita lavorativa e materiali per una tesi di laurea che arriva tardino ma realizza il mio sogno nel cassetto.

Tra una dinamica da smontare che vede Nina affermare “nun ce so bona” prima ancora di mettersi in gioco in una performance da voto sul registro e una cartella da svuotare per fare tana a Lino che vaga tra i compagni alla ricerca di una merenda ambita e socialmente accettabile ( nascondendo accuratamente la sua perché non fa tendenza un semplice pacchetto di crackers il cui destino è fare nel pacchettino il pangrattato sotto il mortaio dei libri di testo per qualche settimana), cerco di crearmi uno spazio.

Mi serve lo spazio di una lezione che vada dal brain storming al mio quiz senza premi finale, in cui non lascio andare a casa nessun bambino prima che mi abbia risposto alla domanda fatidica: “ Che cosa ho imparato oggi?”. Avete presente quello spot pubblicitario in cui il bambino delle tre B cioè bello, bravo, buono risponde alla domanda di rito: - Che cosa hai fatto oggi a scuola?

– Nieeenteee!!!

Ecco, dovrei creare un gruppo su face book di quelli che dicono: “Ad una domanda di rito distratta di mamma o papà rispondo con un avverbio che tronca ogni interrogatorio e corro invece a raccontare tutta la mia vita su un social network “.

Quelli che, poveretti loro, incontrano sulla loro strada una maestra del mio stampo, devono, almeno una volta al giorno compiere lo sforzo di dire a sé stessi, mentre lo comunicano al gruppo, una sola, semplicemente una sola cosa che hanno imparato alla fine della loro giornata scolastica e… se nessuno può ripetere la stessa risposta, miracolo! Avrete totalizzato venti, in media venti cose che si portano a casa da giornata di studio così da poter permettere ad una docente di rimirarsi nello specchio del bagno di casa tranquillo di aver guadagnato una delle paghe più basse d’europa impegnandosi come se fosse la più alta.

Da dove si inizia a parlare del 3 dicembre a bambini di nove -dieci anni

Naturalmente da chi ha deciso quella data e perché.

Dopo questo panegirico si torna alle loro di esperienze, ma soprattutto alle esperienze vissute da loro coetanei. Il libro di Alice, di Alice Sturiale, dal quale ormai non c’è testo scolastico che non abbia ripreso una pagina è il mezzo magico di questa fiaba. La fiaba è quella di far credere ai bambini quello che gli adulti disincantati non credono più. Gli elementi magici e fantastici sono quelli che sogniamo diventino reali come da un burattino sortisce un bambino in carne ed ossa. “Tutti uguali, tutti diversi” e in questo slogan la speranza di un domani in cui non si vorranno uniformare i bisogni speciali ai comuni bisogni in una sorta di delirante negazione dell’irripetibilità di ogni essere umano e delle sue peculiarità che ne fanno un omologato, globalizzato e sempre più isolato utente, ma una “persona” prima di uno sfigato sfidante per dirla alla Imprudente ( Claudio Imprudente, mio cugino virtuale acquisito in quel di fb n.d.r. )

Ecco perché non ho scelto la piazza, ecco perché non ho scelto il teatro.

L’ho preso molto più alla lontana lo spirito di questo giorno! “Se ascolto dimentico, se vedo imparo, se faccio capisco” diceva Confucio ed io dopo aver studiato le teorie più avanzate in fatto di meta cognizione sono ritornata ai principi di un filosofo cinese che si basava sul costume personale e politico, sulla correttezza delle relazioni sociali, sulla giustizia, sul rispetto dell’autorità familiare e gerarchica, sull’onestà e la sincerità. Ho affidato ad una lavagna interattiva multimediale i pensieri dei bambini su questa giornata, ho cercato di scoprire con loro il mio ideale di inclusione e se all’inizio qualcuno non ha voluto mettersi in gioco e cimentarsi in uno slogan che grazie alla sua penna elettronica veniva trasformato da graffito in testo alla fine nessuno ha voluto rinunciare a fare il suo Urban sign per ricordare la giornata internazionale delle persone con disabilità.

In tutto questo esperimento a metà fra la filosofia cinese e la didattica inclusiva con la Lim ci ha accompagnato Alice, morta in classe a dodici anni mentre sorrideva alla battuta di un suo compagno di classe.

Certo, li ha lasciati sgomenti pensare che la morte può arrivare a dodici anni durante una lezione scolastica per una bambina con disabilità… ma quanti alunni sono, anche se perfettamente sani, stati travolti dalle macerie insieme alle loro maestre o nella casa dello studente senza destare il giusto sdegno nella maggioranza di famiglie italiane che cenano davanti al telegiornale insieme ai loro bambini?
Buon 3 dicembre per questi 10 minuti che vi sono rimasti nel 2009 per riflettere su quello che ho voluto condividere con voi grazie a Franco.

Elena Duccillo