SCUOLA

L’emergenza educativa
nella “guerra civile” italiana

Giovanni Cominelli, il Sussidiario 21.12.2009

Quando, nel novembre del 2005, fu lanciato in Italia un Appello sull’emergenza educativa, parve che opinion leader, opinion maker, decision maker avessero finalmente trovato una piattaforma comune. La “tragédie incomprese” – questo il sottotitolo del recente libro di Laurent Lafforgue e Liliane Luçat dal titolo La débacle de l’école – sembrava finalmente essere stata compresa.

A quell’Appello seguirono milioni di parole sotto forma di articoli, dichiarazioni, pensamenti. In questi cinque anni il tema dell’”emergenza educativa” è entrato nel lessico di chiunque parli di scuola, mentre non ci sono segnali di miglioramento. Analoghi effetti si erano avuti qualche decennio prima negli Usa, quando fu pubblicato nel 1983 il Rapporto della Commissione nazionale sull’eccellenza nell’educazione, presieduta da David Pierpont Gardner, dal titolo A Nation at Risk, The Imperative for Educational Reform. A quell’allarme americano seguì una mobilitazione dell’opinione pubblica e della politica, che mise in moto la dinamica della Rolling Reform. Giacché un fatto era evidente: decidere di educazione era decidere del destino della nazione! In Italia si sono succeduti in un quindicennio cinque ministri dell’istruzione. Grandi e piccole leggi, Decreti, Regolamenti, circolari, qualcosa si è smosso, poi si è riacquietato, poi si è smosso di nuovo, magari in una direzione diversa. Insomma, qui il metodo è quello della Revolving Reform, la riforma girevole. Pare il treno dei pendolari. I nodi fondamentali non vengono sciolti, si va per aggiustamenti successivi, spesso a loro volta riaggiustati.

La politica si autoconsola chiamando “riforme” questo pendolarismo di piccoli e marginali cambiamenti. Quali, allora, le cause? È la resistenza catafratta di ideologie e di interessi di un blocco conservatore, che si è costituito nella scuola lungo i decenni? È la bassa qualità della società civile italiana? È la povertà della coscienza pubblica? È la potenza del centralismo statale? È l’incultura educativa dei partiti e dei loro leader? È il gattopardismo eterno della società e della politica? È colpa di una sinistra colta, ma conservatrice o di una destra innovatrice, ma incolta e perciò inesperta? A me pare che la causa di fondo, quella che blocca le riforme della scuola così come di altri settori, sia la guerra civile in corso. Nulla di sanguinoso, per fortuna e per ora. Ma feroce e dichiarata, questo sì.

E quando un Paese è in guerra civile, non fa riforme. L’imperativo non è la “Educational Reform”, ma la distruzione dell’avversario: «niente prigionieri». Perciò porvi fine diventa la precondizione di ogni riforma. Come sia incominciata, è noto. La caduta rovinosa del sistema dei partiti della Prima repubblica tra il 1989 e il 1994 ha prodotto uno scenario bipolare: da una parte i resti consistenti dei vecchi partiti costituenti (DC-PCI-PSI-PRI-PSDI-PLI), rinominati con nuove sigle, dall’altra nuovi partiti e nuovi nomi: FI, (MSI) - AN, LEGA. I resti dei vecchi hanno subito preso a considerare “i nuovi” quali inquilini abusivi della repubblica, votati, ma non legittimati. Giacché l’eucarestia della legittimazione stava solo nei vecchi tabernacoli. Come gli aristocratici della Rivoluzione francese essi hanno continuato a giudicare i nuovi arrivati come dei volgari sanculottes, incapaci di rispettare le regole del vecchio galateo repubblicano. Perciò hanno dichiarato guerra totale. Essa ha preso il posto del Bene comune: prima togliamo di torno l’anomalia di Berlusconi, poi affrontiamo i problemi del Paese. La società e la politica sono stati spaccati come una mela tra amici e nemici. La Bicamerale di D’Alema è stata solo un breve sussulto di saggezza dei “vecchi”, minata dalla sinistra massimalista e, alla fine, travolta anche da Berlusconi e Bossi, “statisti” dell’undicesima ora, convinti di poter costruire la Seconda repubblica da soli. Sono passati gli anni, ormai quindici, si sono alternate le maggioranze, ma la guerra continua. I mass media mantengono decine di inviati sul campo di battaglia, gli articoli e i servizi sono bollettini di guerra. Che questa guerra distruttiva si combatta sul terreno della scuola con particolare ferocia è, a questo punto, inevitabile, giacché “il terreno” è alta densità ideologica. L’educazione, infatti, è il fondamento della res pubblica. Sono in campo idee, ipotesi, progetti riformistici, esperienze d’avanguardia, disponibilità di una minoranza attiva dei docenti. Ma è la res publica che manca, il Bene comune. Ora, si deve sapere che nessun Mosè porterà dalla cima del Monte Sinai le Tavole della Seconda repubblica. Devono essere scolpite in pianura e poi portate sulla cima, perché valgano per tutti. Per farlo è necessario che si abbandoni l’assedio reciproco e che ciascuno dei contendenti vada a Canossa dall’altro. Siamo condannati, come il barone di Munchausen, a sollevarci afferrandoci ai nostri capelli. Finché questo non accade, l’emergenza educativa non sarà sciolta, verrà solo recitata come un mantra della New Age.