Siamo soli di Giorgio Quaggiotto* dalla Gilda di Padova, 17.12.2009. 1. Fare l’Insegnante oggi Insegnare e imparare sono, ce lo siamo detti tante volte, atti umani, naturali. Proprio perché insegniamo e impariamo abbiamo immagazzinato lungo i secoli quella che chiamiamo cultura. È in definitiva un insieme di conoscenze, interpretazioni del mondo, abilità che, chi è venuto prima, tra-manda a chi arriva. Diceva, molto meglio di come provo a dirlo io, Anna Harent, che chi insegna ha il mandato o se lo arroga di dire: “è così, si fa così, il mondo in cui sei arrivato è questo, qui ci si comporta, si vive, si entra in relazione così: fidati!” e se ne deve fare coerente testimone. -Ecco io imparo da chi mi dà l’impressione, oppure istituzionalmente è garantito essere affidabile. Nella famiglia, quella della quale parliamo come luogo delle premesse, la garanzia è l’affetto. C’è un se …allora…. che passa dal poter facilmente misurare la capacità di risolvere, la capacità di sostituire, la capacità di placare il mondo che ti si avventa addosso, al naturalmente accettare l’insegnamento, la verità indiscussa delle proposte. Poi tutto provvidenzialmente sarà messo in discussione, ma intanto i parametri, i valori, i grandi “perché” sono stati messi al sicuro…si può discutere dei “come” e si parte per il mondo. Questo sembra semplice e vero, ma forse lo è per la capacità narrativa di ognuno di noi, nella immagine ideale del nostro mondo, che proviamo a raccontarci all’inizio,oppure che prefiguriamo nel nostro giudizio sugli altri. Forse non è mai stato veramente così e la famiglia era sì un luogo dei valori, ma anche un luogo di imposizioni, di comportamenti imposti, di sentimenti grezzi. Ma, in ogni caso quello che passava, o doveva passare era il rispetto di gerarchie e di valori se non condivisi, almeno riconoscibili. Ora tutto questo fa parte del rimpianto, più o meno variegato e soprattutto credo del “problema” Scuola. Il problema Scuola è di tutti gli Stati moderni e le sue declinazioni sono moltissime, ma a me, che non ho alcuna velleità di esaurire o fondare, sembra si possa iniziare un’analisi per provare a capire da due snodi, arrivati quasi contemporaneamente e in parte magari dipendenti l’una dall’altra, in tante parti del mondo Occidentale che ci somiglia. Sono avvenuti ben dopo Adamo ed Eva quindi ve la caverete con poco. Il mitico ’68, cioè la rivolta giovanile e la fine della civiltà contadina, sostituita da quella industriale. E tutto questo accompagnato da fortissima accelerazione della efficienza e dell’influenza delle tecnologie e del conseguente benessere generalizzato. È stata, a guardarla ora una miscela ad alta detonazione, un crogiuolo da cui sono usciti nuovi paradigmi, ma anche nuovi parametri, che non abbiamo ancora metabolizzato.
Il mitico ’68 ha esordito dicendo che ubbidire non era più virtuoso, che Dio, Patria e Famiglia era una triade peggiore di quella di Shangai e che la vecchia cultura e i suoi vecchi cultori non avrebbero passato l’inverno. Ha detto anche tante altre cose. Ma adesso mi soffermo su questo. Intendiamoci, io, ormai abbastanza vecchio, ho conosciuto anche il prima: nessun rimpianto, anzi! Era in ogni caso un vento nuovo! Cominciava un tempo dei diritti per i giovani, e la fine dei doveri vuoti e umilianti. La parola “libertà” era la più declinata. Bene! E libertà si diceva insieme a “tutti a scuola”, “tutti all’università”, “tutti in cattedra”. “Tutti a scuola” era una idea già condivisa, aveva già portato alla Media unica, e con questo sforzo lo Stato stava cercando di garantire i Diritti di tutti sanciti dalla Costituzione. Ma “tutti all’università” ha portato togliere i blocchi in entrata alle varie Facoltà in base al percorso di studio fino ad allora fatto, e “tutti” ha cominciato a voler dire proprio tutti, non solo gli esclusi per censo. Lentamente e non tutti ancora ci siamo dovuti arrendere all’evidenza che i Diritti non si meritano, e che purtroppo o per fortuna questi ci vengono come cittadini di uno Stato (ovviamente tutti e solo quelli che quello Stato per i suoi cittadini garantisce). Quindi la Scuola è uno dei Diritti che la Comunità ha deciso di garantire ed è di tutta evidenza che il Titolo di Studio non fa parte di questi diritti. E credo che questo fraintendimento, che mescola ancora una volta l’essere al dover essere, che confonde ciò che uno deve metterci di suo, da ciò che gli è garantito, ha avuto dal ’68 molto molta, troppa carne al fuoco. E in questo siamo ancora, soprattutto per la Scuola dell’obbligo, a metà dal guado: essere messi nella condizione di poter avere un titolo di studio tutti è un diritto, avere un titolo di studio non è un diritto! La sinistra ne ha fatto un cavallo di battaglia, fino al punto di teorizzare una specie di didattica etica, una legge universale e necessaria per cui tutto si può far imparare a tutti e se questo non succede, appunto eticamente è colpa di …qualcuno. È una delle grandi forche cui la scuola sia primaria sia secondaria deve inchinarsi, prostrarsi. Questo è diventato un principio indiscutibile, fermo fino al punto da fondare l’educazione di generazioni di maestri e di professori sempre più esclusivamente sul “come s’insegna”, perché si era trovato il colpevole del fatto che non tutti riuscivano ad imparare: il cattivo Insegnante, colui che non sa insegnare! Se l’imparare a insegnare è imparare un metodo che va bene per tutti, infallibile, lo è più che per i meriti acquisiti sul campo, perché i fallimenti costano troppo ai principi della comunità. Diventa naturale che nessuno degli attori principali (politici, genitori, alunni) voglia farsi carico della colpa di togliere, di negare il diritto di qualcuno al sapere. Neanche gli Insegnanti se ne vorrebbero far carico…ma non resta nessun altro! Beh sì! ci sono “i colleghi che non fanno il loro dovere”! Nessun Provveditore, nessun Preside, nessun Insegnante per bene, e a mano a mano che passavano gli anni anche nessun Genitore ha iniziato a ritenere privo di colpa chi boccia, chi dichiara inadatto a una qualsiasi Scuola superiore o facoltà universitaria qualcuno. E allora vai con gli psicopedagogisti, con gli psicologi! La Scuola come Ospedale da campo! E poi al momento della resa dei conti, alla fine dell’anno scolastico la domanda delle domande, quella che non ti fa dormire di notte: “ma siamo sicuri di aver fatto tutto ciò che era nostro dovere, tutto ciò che potevamo per questo ragazzo?” Certo che non siamo sicuri! E un posto per la Meritocrazia in questo contesto? E un posto per chi crede che valutare preveda la certificazione di un merito o un demerito? Penso che più di qualcuno a questo punto si senta nascere dentro un: lo sapevo che quelli della Gilda erano di destra! Intanto mi sembra di aver dato un po’ abbrivo al Dottor Lodolo Doria. Ma ritorniamo all’altra premessa: la fine della civiltà contadina. Partiamo da qua: le mucche facevano i vitellini anche di notte. E noi bambini lo capivamo quando i vicini di casa venivano verso sera e parlottavano fitto fitto col papà. Poi si lasciavano dicendo: -se capita chiama! Ecco con tutta la sua rozzezza, la sua grettezza, la sua chiusura al nuovo, i suoi momenti di violenza, la civiltà contadina era per buona parte una civiltà orizzontale, una civiltà del “se capita, chiama”. Non “se hai bisogno, chiama”. Era implicito che c’era il bisogno e nessuno si preoccupava di ammetterlo. Sono anch’io convinto, come dice Olmi, che quella contadina sia l’ultima civiltà che è apparsa sulla terra. E d’altra parte come si può chiamare civiltà un modo di vivere insieme che non preveda l’obbligatorietà del bisogno dell’altro. Però poi gli uomini continuano a vivere negli stessi spazi, a camminare per le stesse strade e quindi continuano a pensare e a giustificare il loro vivere e anche questo è cultura. L’hanno fatto anche quando sono andati a lavorare in fabbrica, e la vita comunitaria finiva, a differenza di quella contadina che non finiva mai, alla fine del turno di lavoro. E quindi il nuovo modo di convivere marcava sempre di più le due caratteristiche contrapposte. Il privato, prima vissuto anche per la strada, nel sagrato della chiesa, perché tutti sapevano tutto di tutti, era adesso diventato l’intimo completamente nascosto, secretato nel chiuso delle case. Il pubblico si recitava nel confronto, nella misura delle variazioni di stato sociale. Del privato perciò cominciarono a far parte le condizioni economiche, ma anche, essendo venuto meno un insieme di valori condivisi, fece parte sempre più appunto quel che rimaneva dei valori. Della perdita di ruolo della Chiesa e del trascendente come luogo deputato a gestire la debolezza, la miseria, il bisogno, sarebbe stata facile la previsione. Del privato facevano parte in modo particolare i figli, che diventavano sempre più importanti, anche perché sempre meno. Fin da dentro le case i figli, molto più di prima, cominciarono a essere visti come una proiezione della realizzazione sociale dei genitori e per questo, quando uscivano nel mondo, non potevano fallire. La scuola ha cominciato a essere presa in mezzo, sempre di più. E lentamente poi, credo sia esperienza di molti di noi, quando ha cominciato a mostrare di essere l’unico strumento che poteva socialmente certificare il fallimento la Scuola è diventata il nemico. Non era appunto in grado di svolgere il suo ruolo: insegnare tutto a tutti. (vedi sopra) E allora i fallimenti dei figli, che erano di conseguenza i fallimenti dei genitori non poterono più essere tollerati, da nessuno, anche e soprattutto perché chi paga la Scuola è la comunità e chi governa la comunità è eletto e deve poi essere rieletto.
2. La “mission” della scuola La scuola, dalla sua nascita, si era sempre “barcamenata”, facilmente fra due finalità pubbliche. La prima era trasmettere alla generazione successiva delle conoscenze che fossero tali da formare la futura classe dirigente e in questo, la parte “liberale” la destra insomma, (questo come il successivo “sinistra” è un termine che serve ad una semplificazione) della società Italiana non aveva molto da eccepire: i loro figli e, quasi sempre solo loro, avevano questo strumento per essere garantiti di succedere ai loro padri. La riforma Gentile cominciò fin da subito a trovare degli ostacoli, proprio perché la sua alta richiesta di merito e di conoscenza non riusciva a garantire tranquillamente questo passaggio del testimone. Ma si sa, l’abbiamo detto tante volte, l’Italia è il paese della famiglia e tutto si aggiusta. La seconda finalità era di garantire la parità dei diritti, la promozione sociale e in questo la parte che, appunto possiamo chiamare “sinistra”, ha visto la Scuola come suo terreno di lavoro e di idealità, magari, come già detto, spesso, semplificando troppo, si è convinta e ha convinto che fosse il titolo di studio a garantire il ruolo sociale e non le conoscenze…chiarisco…e non accettando che fosse la sola famiglia a garantire il ruolo sociale. O meglio non accettando che fossero soltanto le famiglie degli altri. Le due “mission” della Scuola non hanno trovato difficoltà a convivere. Economicamente ovvio, come da sempre, dall’inizio dello stato liberale, la scuola era un costo e quindi, soldi sempre pochi. Però la Scuola Pubblica in Italia è stata di fatto lasciata in mano alla “sinistra”, che sapeva parlarne come del luogo delle buone intenzioni della comunità (inserimento handicap, e alunni stranieri ect.). La sinistra poi al pari della destra, per opposti motivi (l’una perché sembrava essere lo strumento per includere i propri figli, l’altra perché non fosse l’elemento per escluderli) aveva orrore del merito e della selezione e questo sembra persino un tacito patto. Se lo è stato, guardarlo dai suoi effetti, è stato un patto assassino che toglieva alla Scuola qualsiasi ruolo di ascensore sociale e quindi tradiva il suo statuto originario. Ecco anche perché della Scuola privata, in Italia, il ruolo è sempre stato marginale. Un po’ di frizione nacque dal fatto che la classe sociale che doveva accontentarsi di avere dalla Scuola promozione sociale, dal ’68 in poi ha cominciato a chiedere alla Scuola di garantire anche il ruolo sociale, ma l’alleanza di queste due forme di familismo e la conseguente eliminazione quasi totale del concetto di merito hanno messo la Scuola in un limbo di inefficacia, oltre ad aver prodotto alcuni fenomeni che solo ora possono essere analizzati compiutamente. Ad esempio il tanto elogiato e ora in crisi modello nord-est ad esempio, cioè una classe imprenditoriale molto attiva, ma priva di titolo di studio, con scarsi avvalli sociali e con soli strumenti entusiasmo e voglia di fare, ha creato un contesto che adesso sta crollando perché privo appunto di ciò che sembra essere fondamentale ora, di preparazione universitaria e imprenditoriale. Cioè i “bravi”nella vita non avevano trovato la loro strada attraverso la scuola, ma per altre vie. E adesso che la competizione si fa ad alto tasso di tecnologia e valore aggiunto, la guerra a chi lavora di più, a minor costo, ha altri competitori e altri livelli: il modello non regge. Ma a leggere meglio i dati un’altra cosa sembra essere diventata di tutta evidenza: Lo statuto di figlio in quest’ultimo mezzo secolo è venuto radicalmente a cambiare. I figli sono sempre venuti al mondo, solo nell’ultimo periodo sono stati programmati. Non è una notizia particolarmente nuova, ma di certo, ai fini del nostro ragionamento fa una grande differenza. Per programmare un figlio bisogna avere una maglietta, anzi più magliette da mettergli e una culla dove depositarlo, non viceversa e cioè trovare, perché sta per nascere un altro figlio, una maglietta per vestirlo e un posto nuovo per dormire. E quindi non ci possono essere vuoti a perdere, fallimenti. Nel medioevo i bambini entravano nella comunità verso i quindici anni perché prima se ne salvavano pochi. Conveniva affezionarsi il meno possibile. Con un figlio che arriva perché voluto, cercato, desiderato, niente si può improvvisare. Ed è conseguente che a un figlio così non si può lasciare sia il destino a parcellizzare gioie e dolori, fallimenti e realizzazioni. Poi c’è la ricchezza e la possibilità di intervenire, di sostituire e il ruolo genitoriale diventa non solo quello dell’accettazione assoluta, che è bene, ma subito dopo diventa anche e soprattutto quello di “mettersi in mezzo”. I risultati di tutto questo mi sembrano prevalentemente due e nessuno dei due pregevole. Il primo, terribile, che funziona così: per la paura che il bambino soffra gli si programma tutto perché niente possa ferirlo, possa metterlo in difficoltà, possa obbligarlo a fare ciò che non vuole o non gli piace fare: il risultato è che tutto è programmato per non permettergli di apprendere alcuna capacità di adattamento. Per gli esseri umani è lo strumento fondamentale di sopravvivenza. Il secondo altrettanto terribile è che: trovando sempre qualcuno che giustifica, che risolve, il figlio non può, mai, essere e sentirsi responsabile di nulla, cioè viene espropriato della propria vita. Ecco, l’amore della famiglia nel nostro tempo, per una forma perversa di eterogenesi dei fini, è diventato un luogo che sembra prevalentemente educare, guidare all’inadeguatezza, alla mancanza di autonomia, privare i figli della loro possibilità di metterci le mani, la testa nella loro esistenza. Se poi aggiungiamo il fatto che, dal mitico ’68 in poi, dopo aver giustamente sparato contro Dio, Patria e Famiglia, ci siamo tutti, o quasi, arresi all’unico generatore di valori che è il Denaro, come non perde occasione di dire Galimberti, possiamo capire in che orizzonte di senso e di attese si aggirino i nostri figli. Se da loro gli adulti non si aspettiamo niente, perché l’amore parentale è diventato fondamentalmente giustificazione e sostituzione, se i loro fallimenti diventano di conseguenza i fallimenti degli adulti di riferimento e questi ultimi non li possiamo accettare, allora un luogo certo di rivendicazioni, è la Scuola. I genitori sindacalisti dei figli e gli adulti devono farsi carico delle istanze individuali dei bambini, anche se sono palesemente “capricci”, come diceva mia nonna, perché non si sa mai… Freud, Freud! le nuove verità eccole:
Come possono crescere questi figli? L’essere figlio una volta aveva come statuto anche l’attesa. L’attesa di diventare maggiorenne, di poter decidere, di poter saperne abbastanza per parlare. Adesso il papà pieno di orgoglio, con l’occhio liquido, spesso viene a dirti che suo figlio di dieci anni sa far cose al computer che lui nemmeno si sogna. La tecnologia è il “nuovo”, “il giovane” ed è quindi dei giovani. Ed è chiaro che questa enfasi su ciò che non ha bisogno di apprendistato mette in minorità ciò che non è di moda, ciò che s’insegna a scuola, la cultura. Il figlio è già autonomo, non ha bisogno di attendere di essere formato. Il suo nuovo statuto è la completezza iniziale. È tutto ciò che non serve, quello che ci obbligano a imparare a scuola, dicono più del sessanta % degli alunni della scuola superiore Eh sì, la cultura è una roba per vecchi. Meglio passare gli anni della propria formazione a studiare cose che fra mesi, non tre anni, non serviranno più? Ma questo lo dicono i vecchi ovviamente ed è troppo facile sbarazzarsi così del problema del cosa insegnare ai ragazzi di adesso. Certo che è difficile identificare nell’agire della politica la ricerca di ciò che vale la pena di insegnare, in questo momento in cui sembra valga solo la pena di tagliare.
Concludendo Sì io penso che noi Insegnanti siamo soli. Soli perché non si può cercare di passare il testimone a chi, fin dalla culla, non deve allungare la mano per prenderlo. Soli perché siamo convinti che questo testimone, anche se ogni volta che lo guardiamo ci sembra meno trasmissibile, lo dobbiamo passare, pena la fine della nostra civiltà, della nostra cultura. Soli perché abbiamo la percezione che anche gli ideali, se tenuti troppo stretti, diventano cianotici e corrono il pericolo di asfissia e noi, penso, molti noi, ormai abbiamo solo quelli da tener stretti. Soli perché abbiamo capito che l’autorevolezza, quella che doveva sostituire l’autorità, presuppone avvallo sociale, valori condivisi, chiarezza di ruolo e noi non abbiamo niente di tutto questo e meno che mai abbiamo autorità. Soli perché ci sembra di essere mandati allo sbaraglio, disarmati, a gestire rapporti generazionali necessari, ma compromessi, con le pezze al sedere, mandati a cercare di trasmettere valori che hanno fatto la nostra storia, ma che adesso sembrano incapaci di fare la storia dei nostri figli, dei nostri alunni, fanno spesso solo tenerezza o ridere Soli perché la politica ci falcidia come inutili e ci punisce se ci ammaliamo (e noi ci ammaliamo come tutti, forse più di altri, ma davvero!) perché i nostri dirigenti, se si devono schierare, non lo fanno quasi mai schierandosi dalla nostra parte e se lo fanno, ci sembra di leggere il sospetto . Certo piangersi addosso mette a rischio soprattutto la propria dignità, ma questo è un grido di dolore. Sentiamo, sempre più urgente, un nuovo patto con la società civile, con la comunità che anche con il nostro contributo deve continuare a progredire.
* Prof. Giorgio Quaggiotto, Coordinatore Provinciale della Gilda degli Insegnanti di Padova. Relazione al Convegno regionale Veneto «SIAMO SOLI. NESSUN RUOLO, RELAZIONI DIFFICILI, NORME INCERTE. GLI INSEGNANTI ITALIANI ALLE PRESE CON L’ “INSICUREZZA” NELLA SCUOLA. Padova, 17 dicembre 2009
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