UNIVERSITà

Quali regole servono agli atenei?

Tommaso Agasisti, il Sussidiario 6.4.2009

Si profila, in tempi relativamente brevi, una proposta dal Ministero dell’Istruzione per una riforma del sistema universitario, che terrà anche conto di alcune proposte emerse dai lavori parlamentari. In sostanza, i punti chiave di tale riforma sarebbero l’istituzione di un concorso nazionale per i docenti universitari, e la modifica delle procedure di governance interna degli atenei, che affidi al rettore più poteri manageriali e snellisca le procedure burocratiche oggi legate alla rappresentatività ed al bicameralismo degli organi decisionali (consigli di amministrazione e senati accademici). A tale riforma si accompagnerebbe un aumento di risorse finanziarie per gli atenei.

Lo scopo di questa breve nota non è l’approfondimento nel merito di queste specifiche ipotesi di riforma, ma una riflessione su quale tipologia di riforma sia necessaria per le nostre università. 

Il presupposto della riflessione è che il giudizio oramai maggioritario sul settore universitario (giusto o sbagliato che sia) è che esista uno “scollamento” tra gli obiettivi delle università e quelli dei finanziatori, cioè la collettività attraverso lo Stato. Le università avrebbero interesse al mantenimento dello status quo, ossia di un dato livello di finanziamento pubblico; inoltre le componenti più arretrate della docenza e del personale difendono la possibilità di attestarsi su performance mediocri (numero di laureati insufficiente, scarsa produttività scientifica, reclutamento dei docenti poco meritocratico, ecc.). La collettività, d’altra parte, avrebbe invece interesse a migliorare le prestazioni delle università, contenendo al contempo la spesa pubblica. Per indurre le università a fare propri gli obiettivi di servizio alla collettività, è dunque necessario avviare una regolamentazione del settore.

In linea molto generale, gli interventi di regolamentazione del sistema universitario possono essere di due tipi: (1) regolamentazione giuridica, e (2) incentivazione di tipo finanziario. 

Per regolamentazione giuridica si intende la definizione di norme, procedure e vincoli per le attività degli atenei. Si può ritenere che gli interventi oggetto della futura proposta ministeriale (vedi sopra) possano essere classificati in questa categoria. Appartengono a questa categoria le norme che impongono limiti alla spesa per il personale (oggi fissati al 90% dei trasferimenti pubblici), i limiti alla contribuzione studentesca (20% dei trasferimenti pubblici), le procedure di concorso per il reclutamento del personale docente, ecc. La logica sottesa a questo approccio, che limita l’autonomia degli atenei, è che tale autonomia sia stata tendenzialmente utilizzata per risultati “lontani” da quelli desiderati dal finanziatore (lo Stato). In particolare, gli ultimi scandali emersi sul nepotismo nelle università e sul dissesto finanziario di talune di esse sembrerebbe giustificare il comportamento dello Stato nell’imporre regole per “vincolare” i comportamenti degli atenei a quelli desiderati.

In realtà, dovrebbe essere certificato il fallimento di questo approccio. Nonostante, infatti, molte regole siano già in essere da decenni, molti atenei hanno “evitato” le regole e realizzato i comportamenti viziosi descritti in precedenza. Certamente, una possibile alternativa è l’introduzione di meccanismi di controllo e di sanzione più efficaci, ma questi sono rischiosi (per le resistenze corporative) e costosi (per la necessità di assumere e/o formare personale specializzato nella complessa attività di controllo). 

Un approccio alternativo è quello della regolamentazione tramite sistemi di finanziamento incentivanti. Ad oggi, il finanziamento pubblico alle università avviene quasi esclusivamente sulla base della “spesa storica”, cioè ogni ateneo riceve circa l’ammontare di risorse che ha ricevuto l’anno precedente. Le Linee Guida del Governo sull’università prevedono di avviare la ripartizione di una quota parte delle risorse sulla base delle prestazioni delle università (tale quota dovrebbe essere pari al 7% il primo anno, e arrivare al 30% entro la fine della legislatura). Ritengo che questa dovrebbe essere l’iniziativa da perseguire con tenacia e rapidità, definendo gli indicatori di prestazione ed il criterio che le risorse debbano seguire anche le scelte degli studenti (le università capaci di attrarre più studenti dovrebbero essere valorizzate finanziariamente). Se le università capiscono che una parte significativa del loro finanziamento è funzione dei loro risultati, è probabile che si avviino dei “meccanismi interni” per cui i responsabili delle attività (rettore, direttore amministrativo, direttori di dipartimenti, presidi, ecc.) incentivino i docenti ed il personale amministrativo verso il perseguimento di performance migliori. Il sistema, in questa visione, dovrebbe evolvere “naturalmente”, senza particolari vincoli imposti dall’alto, verso un miglioramento dei risultati. È chiaro che questa modalità richiede che le università siano libere di cercare di migliorare le proprie prestazioni in modo autonomo, ossia gestendo liberamente le proprie risorse (umane e finanziarie) ed assumendo autonomamente le proprie decisioni. In questa prospettiva, nuove leggi e regolamenti non farebbero che peggiorare la situazione.

Se si ritiene che la regolazione attraverso meccanismi di finanziamento incentivanti sia la strada più corretta, meglio sarebbe avviare un deciso processo di liberalizzazione del settore universitario (su questo, si veda una mia precedente riflessione su IlSussidiario.net), eliminando gli attuali vincoli ancora posti in capo alle università. Tali vincoli, anziché ottenere i risultati sperati, nei fatti le deresponsabilizzano.