Intercultura: italiano L2 o interlingua? di Giancarlo Cerini, Educazione & Scuola 29.4.2009 Dall’emergenza alla progettualità E’ importante collocare la riflessione linguistica o glottodidattica relativa alle questioni dell’apprendimento della lingua italiana come seconda lingua (italiano L2) all’interno di uno scenario culturale e linguistico in movimento, come è quello che caratterizza il panorama scolastico (ma soprattutto sociale) del nostro paese. Questo intreccio di prospettive (culturali e linguistiche) sta alla base del progetto “lingue e culture” avviato in questi mesi nella regione Emilia-Romagna[1] e ha trovato un importante momento di presentazione nel convegno “Progetto regionale lingue e culture” svoltosi a Bologna il 22 aprile 2009, alla presenza di oltre 600 operatori scolastici, dedicato alla ricerca su italiano lingua 2[2]. Il grande successo di partecipazione, che si è manifestato anche nelle iscrizioni ai corsi su “interlingua” che si svolgeranno in regione nei prossimi mesi, testimonia un bisogno diffuso tra gli insegnanti di informazione, di documentazione e di formazione, di fronte ad un fenomeno ormai imponente. Ci riferiamo alla presenza degli oltre 650.000 ragazzi di cittadinanza non italiana che frequentano le nostre scuole (65.000 in Emilia-Romagna). Continuiamo a chiamarli “stranieri”, ma in effetti il 40% di loro è nato in Italia (oltre la metà di quelli che frequentano le elementari e ormai l’80% di quelli che frequentano la scuola dell’infanzia). In Francia sarebbero “cittadini” a tutti gli effetti. Ma non è solo l’emergenza stranieri a spiegare la domanda di formazione. E’ piuttosto la consapevolezza che stiamo ormai vivendo in una società plurale, caratterizzata dal plurilinguismo, che si riverbera direttamente nelle nostre classi, nei nostri alunni (il plurilinguismo storico: le minoranze alloglotte, le lingue minori, i dialetti, le lingue “tagliate” e il nuovo plurilinguismo dell’immigrazione e della società globalizzata). L’Italia è un paese “mediterraneo”, penisola che si protende tra le sponde “nord e sud” di due mondi che faticano ad incontrarsi e a ritrovare le ragioni del convivere pacificamente. Questo ci condanna a trovare una nostra peculiare “via italiana all’integrazione culturale”, come si legge nello stimolante documento del settembre 2007 elaborato dalla commissione del Ministero dell’istruzione per le politiche interculturali. La scelta italiana è diversa da quella operata in Gran Bretagna, definibile come “multiculturalismo” (rispetto delle specifiche identità etniche e linguistiche, valorizzando l’apporto delle comunità di appartenenza, con qualche rischio di chiusura e di opacità) o da quella francese, definibile come assimilazione (conferimento dello status di cittadinanza, in cambio della rinuncia a segni “visibili” della propria appartenenza, con il rischio della omologazione che lascia intatte le marginalità sociali).
La via italiana all’integrazione multiculturale Il modello italiano[3], definibile dell’integrazione interculturale, sembra vivere proprio a partire dalle nostre classi colorate, nelle conversazioni a più voci davanti ai cancelli delle scuole, nelle serate conviviali, negli scambi relazionali della vita quotidiana delle classi, in una pratica didattica che cerca il dialogo piuttosto che il monologo. Il prefisso “inter”, inter-cultura, inter-lingua, ci ricorda che le culture e le lingue sono oggetti aperti (non saturi) che vivono e crescono con l’apporto di molte biografie e storie[4]. Una scelta didattica (glottodidattica) non può prescindere da una scelta di campo valoriale, sui temi della società interculturale, ma lo deve fare con sobrietà, con professionalità. Questo è il ruolo riflessivo della scuola, lontano dagli schieramenti “emotivi” che hanno acceso gli animi del nostro parlamento all’atto di discutere ed approvare diverse mozioni sul tema della “classi ponte”. Troppe le emozioni in gioco; serve invece una maggiore riflessività; questo è il compito proprio della scuola. Anche nell’affrontare la questione dell’alfabetizzazione linguistica. Spesso si dice: la lingua è un problema per gli immigrati, poichè la padronanza dell’italiano è un prerequisito decisivo per una buona integrazione. Tutto ciò è certamente vero, ma un’affermazione così scontata va trattata con più delicatezza. L’alfabetizzazione in lingua italiana non va vista solo come una sorta di pronto soccorso linguistico da parte di chi conosce la lingua, verso chi non la conosce. Ecco perché l’errore (in chi sta imparando una nuova lingua) non può essere trattato come una carenza da sanzionare negativamente, ma va visto come un indicatore prezioso di un processo non facile, ma ricco sul piano cognitivo ed emotivo, che apre la strada alla padronanza di un nuovo codice. Quando si parla di lingua non è in gioco solo una questione tecnica, perché si rimanda all’identità delle persone, alla cultura di appartenenza, ai rapporti tra le diverse culture. Sono implicati diversi modi di atteggiarsi nei confronti di valori, diritti, cittadinanza, coesione sociale, mobilità e opportunità di lavoro, competenze.
Le buone pratiche di un’educazione plurilingue In Italia, da vent’anni, si cerca di sperimentare buone strategie di integrazione centrate sull’accoglienza e la relazione in classe. C’è un apparato organizzativo, con figure di mediatori “esterni” e qualche docente ad hoc su progetto, anche se oggi il modello organizzativo è in forte discussione (es. le classi ponte o di accoglienza, l’equa distribuzione degli allievi tra le scuole, i tempi dell’alfabetizzazione, ecc.), l’apparato glottodidattico è in via di ripensamento per verificare l’efficacia di scelte metodologiche in diverse configurazioni quali: full immersion, moduli intensivi, laboratori, ecc. La ricerca più recente si rivolge al fenomeno dell’interlingua (cioè di quella particolare situazione in cui si trovano gli apprendenti di una nuova lingua), come approccio più rispettoso del plurilinguismo che caratterizza le classi odierne, specchio del plurilinguismo individuale. La nuova linea di ricerca appare coerente con l’impostazione comunicativa, funzionale, situata... dell’educazione linguistica[5]. Sapere una lingua significa saperla parlare, saperla usare. Non si apprendono sistemi astratti di regole, ma lingue vive in contesti d’uso (via via più consapevoli e meno marginali). Non vale l’equazione: chi è padrone di una lingua l’insegna a chi non sa. Chi non parla va rispettato anche nei suoi silenzi o nei suoi primi tentativi di comunicazione. Ha comunque un diritto di parola, preziosa ancorchè approssimata. Un invito anche per i “padroni” della lingua ad essere consapevoli che una lingua non la si conosce mai fino in fondo, che dunque è opportuno fare un cammino insieme all’allievo. Il primo dovere di un insegnante è continuare ad apprendere, in questo caso: reimparare la lingua assieme agli stranieri a cui la stiamo insegnando, facendo “ricerca” sulla lingua che evolve. Balzano in primo piano gli usi concreti della lingua nei diversi contesti, massimamente nella classe. Si riscopre dunque il valore del contesto della classe, ambiente di apprendimento per eccellenza, come tornano a ridefinirla le Indicazioni/2007. La classe è/può essere una comunità di relazioni e di apprendimento, dove i membri diventano progressivamente partecipi di un ambiente culturale organizzato, anche linguisticamente organizzato (si pensi alle tonalità, ai sottintesi, ai veri e propri “giochi linguistici” costruiti da una comunità di parlanti). La classe interculturale diventa così uno spazio di costruzione identitaria per tutti gli allievi, un ambiente positivo e partecipato, orientato alla produzione culturale (linguistica), alla conquista di competenze “visibili” che motivano. Incontrare la lingua in classi plurilingue significa costruire un clima comunicativo partecipato, ma anche intercettare la dimensione culturale dei saperi, coniugare i contenuti con i modi di pensare, educare ad un pensiero “decentrato”. Le lingue sono la dimensione trasversale per eccellenza del curricolo, ma c’è bisogno di innovare radicalmente le didattiche.
Cosa ci dice l’interlingua La prospettiva dell’interlingua è promettente, aiuta a superare la frattura epistemologica tra lingua madre e nuova lingua, tra apprendimento della lingua materna e acquisizione di una seconda lingua[6]. Lo stesso problema l’abbiamo nel rapporto tra insegnamento dell’italiano e quello di una lingua straniera. E’ in sintonia con un approccio “olistico” all’apprendimento delle lingue, con la valorizzazione dei repertori dell’apprendente, con l’esplorazione dei processi cognitivi sottesi ai cosiddetti errori. Ne scaturisce anche un’idea veramente formativa della valutazione. Gli errori saranno analizzati, piuttosto che conteggiati. Gli errori non sono tutti uguali, perché rivelano il tratto evolutivo delle competenze linguistiche. Occorre però avvicinarsi all’errore con raffinata capacità di analisi e ricerca. Anche grazie a questo approccio possiamo avvicinarci alle nostre classi plurilingue (un po’ europee, un po’ mediterranee) con serenità professionale. Potremo così: sperimentare la compresenza di più lingue (con qualche suggestione che ci viene dall’ambiente CLIL), affrontare percorsi di co-alfabetizzazione (con un’idea più interculturale dell’italiano L2), approfittare delle lingue veicolari per facilitare la comunicazione (c’è dunque bisogno dell’inglese per tutti…), valorizzare l’apporto identitario delle lingue patrimoniali (come apertura verso altre culture). L’obiettivo sarà quello di dotare ogni alunno di un capitale plurilingue originale, utile per la costruzione delle conoscenze oltre che per la formazione alla cittadinanza, chiave di volta per l’appropriazione dei saperi non linguistici. Una disciplina si può rafforzare concettualmente attraverso l’incontro con un’altra lingua. Le questioni glottodidattiche si trasformano così in questioni curricolari[7]. Si delineano diversi scenari curricolari (di cui occorre essere consapevoli) a seconda del diverso equilibrio che si intende costruire nelle nostra classi plurilingue (quale spazio all’inglese “potenziato”? quale ruolo di italiano L2?, le altre lingue straniere? Le lingue materne ormai così diverse?). Saranno necessarie scelte organizzative (gli orari di insegnamento), formative (quali profili di competenze aspettarsi in uscita), didattiche (garantendo un inventario aperto di scelte metodologiche possibili).
Alcune priorità dal progetto dell’Emilia-Romagna Il progetto “Lingue e culture” avviato in Emilia-Romagna cerca di rispondere in maniera integrata a queste diverse domande. Si articola in vari filoni di ricerca: - il curricolo verticale di lingua inglese e la didattica dell’errore; - ricerca di buone pratiche di italiano L2 e interlingua; - sistemi di valutazione e di certificazione delle competenze; - competenze trasversali nelle lingue; - approcci metodologici innovativi (CLIL) - promozione di scambi e stage all’estero. Il progetto regionale non vuole certo esaurire tutte le tematiche legate alla presenza delle lingue nella nostra scuola, ivi compreso l’italiano come lingua seconda. Siamo in una regione dove sono numerose le iniziative in atto, il progetto tiene presente questa mappa complessiva, e intende promuovere un indispensabile spazio di ricerca/formazione/documentazione. Nel campo di L2 (e interlingua) questo spazio significa esplorare: le connessione tra l’osservazione e l’analisi della produzione linguistica, la riflessione aperta sul cosiddetto “errore” come feed-back indispensabile per l’insegnante, la elaborazione di metodologie e percorsi innovativi. I punti di forza del progetto che si riferisce a L2 (estensibili anche alle altre aree di lavoro) sono: a) la presenza di una rete di docenti sensibili, che facciano affiorare le tante micro-innovazioni in atto nelle scuole, le buone pratiche validate, da cui far scaturire ulteriori occasioni di ricerca; b) la riscoperta dell’autonomia della scuola, intesa nel suo vero senso di autonomia di ricerca e sperimentazione, capace di offrire stimoli culturali ai docenti, di indurre una vera e propria comunità professionale; c) la presenza diffusa di supporti tecnici e scientifici, in modo che le innovazioni siano sostenute e “regolate” a vari livelli: regionale (con i gruppi di ricerca regionali ed i rapporti con i diversi organismi scientifici), provinciale (con appositi staff presso gli Uffici Scolastici), territoriale (attivando centri di risorse, centri di documentazione, centri interculturali, in una logica di “governance” particolarmente cara in Emilia-Romagna), a livello di scuola (con l’individuazione di referenti “portatori” di buone pratiche e l’indispensabile coinvolgimento del dirigente scolastico).
Inclusione e qualità: la sfida continua Abbiamo colto il messaggio che la lingua (e questo è particolarmente vero nel caso dell’interlingua) è un prezioso materiale didattico, a bassissimo costo. Ma per farlo diventare tale occorre una forte professionalità del docente (un docente-ricercatore), capace di captare segnali, codici in embrione, messaggi impliciti e sottintesi, significati, contesti d’uso. Vedere nella lingua non solo uno strumento di sopravvivenza, ma un elemento costitutivo dell’identità di una persona. Ecco perchè il progetto regionale è “lingue e culture” (cioè lingue e persone, lingue e comunità). Non si tratta solo di pensare ad interventi emergenziali per chi non conosce la lingua (anche se questo riconferma la vocazione “inclusiva” del nostro territorio), ma soprattutto di perseguire quegli obiettivi di eccellenza e di qualità degli apprendimenti consoni ad una regione che ama “stare davanti”[8]. Con le lingue e con L2 potremo così essere più europei (guardare al nord del mondo) senza dimenticare le nostre radici mediterranee (che ci richiamano al sud). Non per nulla l’Emilia-Romagna è considerata il sud del nord.
NOTE [1] Il progetto è stato messo a punto dai tecnici, ricercatori e funzionari dell’USR Emilia-Romagna, della Regione Emilia-Romagna, dell’Agenzia Scuola-ex IRRE Emilia-Romagna, formalizzato in un protocollo di intesa sottoscritto il 30 ottobre 2008 (con un allegato tecnico contenente Linee guida operative). I testi degli accordi possono essere reperiti sul sito www.istruzioneer.it . Il coordinamento scientifico del progetto è affidato alla dott.ssa Benedetta Toni (ricercatrice ANSAS Ex IRRE ER). [2] Durante il convegno sono state tenute relazioni da Davide Zoletto, Graziella Favaro, Gabriele Pallotti, Cecilia Adorno. Sono intervenuti anche i membri del gruppo di pilotaggio del progetto regionale “Lingue e culture”: Benedetta Toni, Giulia Antonelli, Giancarlo Cerini. I materiali del convegno sono in via di pubblicazione sul sito dell’ex-IRRE Emilia-Romagna: www.irreer.it . [3] Ci riferiamo all’intervento di Graziella Favaro, Il ruolo dei centri interculturali in “Rivista dell’istruzione”, n. 5, settembre-ottobre 2007, Maggioli. Il fascicolo contiene un nucleo monografico dedicato all’educazione multiculturale con interventi di De Torre, Ongini, Cipollari, Favaro, Lastri, Maloni, Toni. E’ riportato integralmente anche il documento dell’Osservatorio nazionale MPI, La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri. [4] D.Zoletto, Straniero in classe. Una pedagogia dell’ospitalità, Cortina Raffaello, Milano, 2007. [5] C.Andorno, S.Rastelli, Corpora di italiano L2. Tecnologie, metodi, sputi teorici, Guerra Edizioni, Perugia, 2009. [6] G.Pallotti, Imparare e insegnare l’italiano come seconda lingua. Un percorso di formazione, Bonacci Editore, Roma, 2005. [7] D.Coste, A.Sobrero, M.Cavalli, I.Bosonin, Vallèe d’Aoste et rèformes (4): Multilinguisme, plurilinguisme, èducation, Collana Quaderni, IRRE VdA, Aosta, 2006. [8] Usr ER, IRRE ER, Regione Emilia-Romagna, Emilia-Romagna. La scuola ed i suoi territori, Rapporto regionale 2008 sul sistema educativo, voll. 2, USR ER, Tecnodid, Napoli, 2008.
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