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Dialogare (in latino) con i nostri padri: Luca Montecchi, il Sussidiario 24.4.2009 Nel “Sussidiario” del 7 aprile scorso, l’umile e strenuo umanista del terzo millennio che da anni e con successo si batte con argomenti robusti e con infaticabile energia per ridare vita e vigore alla civiltà classica e alle lingue “morte”, il presidente dell’Accademia Vivarium Novum, lo scrittore, l’animatore di cultura e l’educatore, insomma Luigi Miraglia ha fatto conoscere al pubblico largo dei lettori del quotidiano on-line il dibattito, a tratti feroce, che da oltre un decennio è in corso sulle metodiche dell’insegnamento della lingua latina (e del greco). Nell’intervista prende posizione netta contro le pratiche stantìe e inefficaci (e pure dannose) della versione prevalente di tale insegnamento, tutta incentrata sull’astratto principio di norme e regole grammaticali, di “strutture”, “tabelle”, “paradigmi” da applicare poi a frasi d’autore che ne dimostrino la validità. Esempii, questi, che fungono quindi da “modelli” che, come ben sanno quasi tutti gli (ex-)liceali italiani, gli alunni sono tenuti, a loro volta, ad applicare in esercizi di traduzione di brevi frasi o di più o meno lunghi brani di traduzione in italiano. Con l’ausilio indispensabile e insostituibile del dizionario, come un bagnante che non voglia svezzarsi dal salvagente per mettersi a nuotare in mare aperto. Dichiaro sùbito che mi trovo in completa sintonia con Aloisius Miraglia, amico e maestro – ché molto imparo da lui ogni volta che lo ascolto o leggo –, non soltanto per la forza persuasiva delle ragioni e dei documenti che porta, ma per la mia personale testimonianza didattica ormai quasi decennale. Nella primavera dell’anno 2001, assistetti all’entusiastica presentazione dell’innovativo corso di lingua latina da poco sperimentato in rari licei classici del Nord e del Sud Italia. Vidi e udii studenti ginnasiali di un Liceo milanese recitare sulla scena una fabula inedita di due servi innamorati imbarcati con altri nautae (marinai) alla volta della Graecia e alla mercé di una tempestas abbattutasi sul mare tranquillum, alla quale trovano scampo grazie alla preghiera rivolta da una dei due, Lydia, a un deus più potente di Iuppiter o Neptunus, anzi, nientemeno che al filius Dei di nome Christus, capace di salvarli davvero dai praedones maritimi (pirati). Con tanto di citazione in originale di un passo del Novum Testamentum. Lì venni a sapere che la vicenda drammatizzata era presa dal manuale di latino su cui quei ragazzi stavano imparando la lingua e che è un pezzo di una storia più lunga suddivisa in numerosi capitoli. In sostanza, quei ginnasiali probabilmente si spremevano le meningi su declinazioni e coniugazioni, e però lo facevano leggendo un racconto continuo, un sequel, diremmo nell’inglese (ex-latino) dei media di oggi. Rimasi ammirato dalla proposta del brillante e affabile docente avellinese (di Montella) profeta di tale metodo didattico alternativo, e ne proposi sùbito la sperimentazione nella scuola che ho l’onore di dirigere, il Liceo scientifico “Sacro Cuore” di Milano. I docenti di materie letterarie, dopo una riflessione svolta dialetticamente e con qualche apprensione insieme con i colleghi delle altre discipline, specie matematico-scientifiche, presero infine la decisione di verificare “sul campo” la bontà di un metodo e di una procedura d’insegnamento linguistico che prometteva molto, sia in vivacità di studio sia in effettivi risultati di apprendimento. Ciò che del nuovo metodo colpiva e incoraggiava era, soprattutto, la coerenza o, meglio, la congruenza logica e pedagogica dello strumento di apprendimento linguistico con lo sviluppo categoriale e critico di un adolescente. Pensavo che, se un docente ci avesse scommesso, lavorando a fondo per modificare inveterate abitudini, lì forse si sarebbe trovato il modo di appassionare o, almeno, coinvolgere studenti che sempre più stentavano a entrare in possesso autentico, confidente, della lingua di Plauto, di Seneca e di sant’Agostino; che anzi, anno dopo anno, perdevano interesse per lo studio dei classici. Finalmente esisteva un testo organico e mirato allo scopo a disposizione del pubblico italiano: il manuale del danese Hans Henning Ørberg, che lo aveva pensato per i suoi molteplici allievi (pochissimi i classicisti) e collaudato in una cinquantina d’anni di esperienza didattica internazionale. Vediamo ora le note caratteristiche. Il metodo di apprendimento è detto “natura”, e non “naturale”, perché il latino, si sa, non è più da secoli e secoli un idioma parlato che si acquisisce via via crescendo con l’età; e tuttavia imita l’apprendimento che avviene in natura, cioè sintetico e graduale, che si arricchisce non già per accumulo, piuttosto si espande a cerchi concentrici. È ovvio che si tratta di un artificio, nel senso però di un’operazione fatta ad arte, cioè apposta per immettere il discente in un discorso che, per quanto elementare, dia da sùbito il sapore della lingua viva, del linguaggio o pensiero in atto, ma senza le inevitabili complicazioni di un testo autentico che si è poi costretti a ritagliare, adattare, facilitare. Non solo definizioni, formule e accezioni irrelate un po’ random memory da immagazzinare, ma senso e significati di cui fare esperienza, ciò che i Romani antichi chiamavano sermo e i pensatori medievali intellectus. Il che comporta l’impiego esclusivo del latino e l’azzeramento di ogni parola italiana scritta: Latine tantum, basta il latino, e se non basta vengono in soccorso icone e disegni per suggerire i significati di certe parole. E se sermo Latinus dev’essere, allora tutte (virtualmente) le componenti strategiche del linguaggio entrano in gioco in una medesima lettura: verbi, nomi, pronomi, formule di negazione e interrogazione, ecc., con gradualità, dalla frase semplice fino agli enunciati sintatticamente più articolati, affinché lo studente, benché alle prime armi, non debba aspettare mesi per gustare il sapore e il colore della lingua originale. Con tutti o quasi i tratti idiomatici tipici e, insieme, la mirabile semplicità della formazione dei vocaboli e l’efficacia oratoria delle sententiae. Il metodo messo a punto da Hans Ørberg si può definire induttivo-ricorsivo. Esso cioè muove sempre da un testo dato, da una lectio, all’incirca alla maniera glottodidattica delle lingue straniere moderne, col racconto di una storia o con un colloquium, al fine d’immedesimare l’apprendista lettore in un continuum narrativo che riprende e fissa le parole e le strutture grammaticali già note e al contempo introduce le novità da imparare, in uno sviluppo insieme pratico e categoriale che viene pian piano consolidandosi. L’esatto opposto, per intenderci, della metodologia normativo-deduttiva che da decenni, in forme più o meno raffinate e consapevoli e anche di qualità, domina la didattica del latino nella scuola italiana – con gli sconsolanti risultati di apprendimento che sappiamo. In Ørberg, invece, è il testo, nel suo impianto organico e comunicativo, ad avere il primato sulla regola grammaticale e a giustificarla, non l’inverso. Si tratta, se non di una rivoluzione, certo di una conversione verso una procedura d’insegnamento linguistico che tiene pedagogicamente conto del dinamismo affettivo, complesso e articolato, tutt’altro che meccanico e duale (prima la regola, poi l’esercizio), dell’apprendistato di un allievo. E che, finalmente, riserva allo studio del lessico, delle parole, lo spazio e l’importanza che meritano: è arcinoto, infatti, che nel primo biennio dei licei s’impara tutto (si fa per dire…) di morfologia e sintassi, ma del patrimonio dei vocaboli s’incontrano, quando va bene, i termini del gergo militare, sempre e solo quelli. Del resto, se non hai sulle labbra le parole più ricorrenti – i linguisti francesi di Besançon l’hanno chiamato “lessico frequenziale” –, non te la cavi, e sei condannato a subire per sempre (almeno finché non termini il liceo) la schiavitù del dizionario o delle pletoriche note ai testi. E, infatti, l’unione a posteriori di elementi del vocabolario e della grammatica presi separatamente risulterà astratta e forzosa, cosicché un ragazzo, dapprima incuriosito a scoprire le origini della propria lingua madre, ben presto si annoia chiedendosi a che serve tutto lo sforzo di memorizzazione di liste di parole e di paradigmi se poi non si raccapezza nella traduzione di un passo d’autore. La chiave di volta, come si sarà intuito, è la lettura. Il testo da leggere e l’atto del leggere – che l’insegnante intona e guida e che via via l’apprendista impara a fare in proprio sempre a voce alta – sono le due facce dell’aurea medaglia, come il symbolon degli antichi greci: la tessera o l’anello spezzato in due ritrova il suo significato quando le parti sono ricomposte in unità. Prendo a prestito la formula con cui Raffaela Paggi ha felicemente titolato un ottimo manuale di grammatica italiana, nel suono il senso: il senso delle parole, delle frasi, di un testo – cioè il nesso ragionevole tra un oggetto osservato e l’esperienza che ne fa chi lo osserva – è affermato, precisato, chiarificato quando di quell’oggetto si pronuncia il nome, lo si nomina con la voce. Che è appunto ciò che ogni vero maestro, anche di lingua antica, deve insegnare a fare, ma che con il Lingua Latina dell’Ørberg è reso agevole e normale per essere il libro organizzato come una lectio continua. Leggere per intendere, dunque. “Intendere” è in primis l’attitudine corporea di udire con l’orecchio – e con l’occhio, il volto, la mano… – una conversazione o una storia o un carmen (una poesia), ma è pure l’esser tesi a capirne il senso, fino a cogliere la voce e il cuore dell’autore e degli attori, nell’intento di scoprire se e che cosa ha da dirci. Questo avventuroso itinerario lo deve perseguire qualunque latinista che si rispetti, a prescindere dal metodo linguistico prescelto. Anche qui, però, Ørberg è di grande aiuto, giacché il metodo della lectio, già in uso nelle scholae monastiche medievali e ancora in quelle umanistiche delle grandi nazioni europee e in quelle gesuitiche, asseconda il desiderio dell’ideale full immersion nel territorio della lingua straniera, escludendo o limitando in radice la tentazione, che è purtroppo habitus frequente nelle scuole e in tante università, di “tradurre per capire”. Come spiega Miraglia nella presentazione del manuale ørberghiano, “fine del corso è mettere lo studente in grado di leggere correntemente i classici latini”, e per questo esso mira a “sviluppare una competenza linguistica tale da permetter la comprensione di qualsiasi scrittore latino. Liberato dalla preoccupazione di decifrare singole parole, lo studente può applicarsi a comprendere il pensiero degli autori, senza inutili mediazioni di note e traduzioni”. Bel programma! – si dirà – Già, ma come ottenerlo, se il latino è una lingua morta? Ecco, sbarazziàmoci una buona volta di un luogo comune così funereo e così duro a morire: l’alternativa, qui, non sta tra viventi e zombies, dal momento che il latino non è, né può essere per noi europei, la lingua di Ugarit o di Ebla o quella degli Etruschi o dei Maya. In queste si tratta di archeologia e di decifrazione di codici linguistici utili a risuscitare mondi e letterature fascinosi e dimenticati da secoli o millenni; in quello si tratta di riconoscersi appartenenti a una tradizione vivente, cioè a un deposito di realtà permanenti che ci sono state consegnate di generazione in generazione dai greci ai romani ai giudeo-cristiani romanizzati ai Germani cristianizzati, dagli Acta Martyrum a Beda a Paolo Diacono, giù giù attraverso i Padri della Chiesa, a Boezio a Cassiodoro ad Alcuino, a Bernardo di Clairvaux a Tommaso d’Aquino, a Bonvesin a Petrarca e gli umanisti, a Erasmo e Comenio, alla Ratio Studiorum dei Gesuiti, ai filosofi e agli scienziati, con Copernico, Galileo, Newton, Linneo…, ai severi filologi tedeschi, a Pascoli (poeta latino eccelso!), fino al Magistero ecclesiastico e alle encicliche papali dei nostri tempi. Tutta la bimillenaria cultura europea (in larga misura anche dell’Est) e americana (dei due emisferi), e pure africana, è derivata da o si è confrontata con quella di Cicerone e Virgilio, da Dante ai Founding Fathers di Philadelphia fino a Elias Canetti, Gómez Dávila e T.S. Eliot. Una trafila di spiriti che, per tacere della scrittura e dell’arte figurativa, ha generato una tradizione orale popolare, sacra e profana, dagli esiti sublimi e accattivanti: dal canto gregoriano ai ludi cantati ai Carmina Burana, dalle preces cristiane mariane ai mottetti e madrigali cinquecenteschi fino all’oratorio barocco. Tener viva la memoria di questo lascito immenso e inestimabile e farlo conoscere, rifonderlo nel nostro tempo, è dovere amabile di chi ha la responsabilità di educare i giovani del nuovo millennio: nessuna novità, nessun accrescimento, nessun progresso scientifico sorge dal vuoto di memoria, dall’assenza di paragone con le conquiste di chi ci ha preceduti. E sottolineo: preceduti, non deceduti. Bene, dicevamo: come ottenere l’ambizioso e avvincente traguardo d’incontrare senza patemi i classici nella loro voce autentica? Cito sempre dalla presentazione (che si può leggere per esteso alla seguente web page: http://www.vivariumnovum.it /familia-romana-colori.html): “Ciascuna unità didattica comprende una sezione d’approfondimento grammaticale del testo appena studiato. Morfologia e sintassi sono dunque anch’esse presentate prima induttivamente, poi sistematicamente fissate con un’esplicita trattazione descrittiva”. Insieme con una ricca varietà di esercizi di verifica delle competenze, che aprono il campo alla creatività del docente e che prevedono anche risposte a quesiti e riassunti. Rigorosamente in latino, of course. E, a proposito degli auctores: “La prima parte del corso… offre un primo assaggio dei classici: i Vangeli, Catullo, Ovidio, Marziale, Donato. La seconda parte conduce con sapiente gradualità lo studente a leggere correntemente Virgilio, Livio, Eutropio, Aulo Gellio, Cornelio Nepote, Sallustio, Cicerone e Orazio”. La riflessione fin qui svolta, spero non troppo lunga, la offro ai lettori a mo’ di bilancio, da quel 2001 fatidico che ha visto mutate, se non riscritte, le sorti del pianeta. Gli otto anni trascorsi di esperimento ørberghiano sono stati fitti di esplorazione e di messe a punto e di applicazione letterale del metodo, di ripensamenti, di correzioni e, soprattutto, di osservazione e verifica del grado di apprezzamento e di apprendimento raggiunto col metodo natura: un bilancio di segno positivo. Positivo non soltanto per i risultati delle scolaresche – perché l’efficacia su una popolazione scolastica si misura sui numeri a due o tre cifre, non sui successi dei singoli, che di norma sono il frutto dell’intelligenza individuale – ma pure per la passione e la creatività espressa dai docenti, che hanno saputo fornire interessanti apporti innovativi, anche sfruttando le tecnologie informatiche al servizio della didattica delle lingue. Oltre che nei Licei milanesi della Fondazione Sacro Cuore, l’esperimento è in atto in altri Licei paritarii collegati di Monza, Rimini e Pesaro, e si avvale di significativi scambi e confronti con docenti di svariati Istituti statali di Milano e dell’Italia settentrionale che l’hanno già adottato o si accingono a farlo. Per parte nostra, pur valutando con l’occhio critico di chi ha a cuore l’apprendimento effettuale di un percorso di conoscenza e non il mero assolvimento burocratico del “programma” didattico annunciato ad apertura di anno scolastico; consapevoli anche di certi (pochi) difetti del metodo – inventato in Danimarca nel lontano 1955 e perfezionato nei quarant’anni seguenti –, non abbiamo che confermato la decisione che prendemmo allora, e oggi la rilanciamo, ché ormai non è più una scommessa: come usa nell’inglese degli esperti di formazione, è una best practice. Il presente contributo, che, ripeto, ha il valore di attestazione d’esperienza, vuol esprimere inoltre l’auspicio che tale metodica d’insegnamento del latino susciti in tanti altri insegnanti e, meglio ancora, in gruppi di colleghi di scuola, per emulazione o per contagio, la voglia anzitutto d’imparare, e poi d’innovare, di sperimentare, di fare coi proprii studenti una “reinvenzione guidata” dei contenuti che si sanno, o si crede di sapere. Con lo sguardo aperto e curioso sul mondo. Altro che lingua morta! Sul pianeta, dal Kentucky negli USA a Seul in Corea, è tutto un pullulare di scuole, facoltà universitarie, Circuli Latini amatoriali e siti web dedicati alla riscoperta dei classici e al dibattito sulla permanenza dell’humanitas classico-cristiana nell’oggi: esistono addirittura emittenti radiofoniche, reperibili anche in rete, che con periodicità settimanale trasmettono in lingua nuntii Latini (notiziarii, news) da Brema in Germania e finanche dalla Finlandia. Dopo l’illuminismo razionalista con la sua sprezzante riduzione a “leggenda” dell’eredità della tradizione romano-cristiana; dopo l’Ottocento romantico che ha degradato la tradizione a storia; dopo il positivismo con la sua pretesa di sottoporre ogni eredità a critica storicistica e scientistica demolitiva; dopo il secolo XX, quello famigerato delle ideologie, dei totalitarismi, dei genocidii, quello della “uccisione” del padre e del rigetto di ogni forma di autorità; ebbene, in tanto deserto di verità e di affezione è venuto il momento – è sempre più forte l’esigenza – di ritrovare dentro la selva oscura e luccicante della civiltà del relativismo il sentiero illuminato dalla calda luce attesa dai nostri maiores, di riannodare i fili che legano il presente fuggevole e volatile a un passato non indifferente, che anzi ci riguarda, eccome, e dal quale cominciamo a riprendere la speranza di non finire abbandonati al nonsenso. Se la lingua madre è il veicolo orizzontale primario della comunicazione bio-logica, il latino è il veicolo verticale con cui hic et nunc ci è dato, lungo l’asse del tempo ed entro il tempo interiore, di communicare, di condividere il sontuoso munus del bene gratuito dell’essere insieme con gli auctores optimi, che non cessano di offrirci la loro voce e a cui è caro affidarsi. Abbiamo bisogno di maestri per crescere, augeri, per essere aiutati a crescere. Il latino è davvero la nostra lingua paterna.
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