Locale sì, "particulare" no di Maurizio Tiriticco ScuolaOggi 13.8.2009
E’ ormai più di un decennio che il termine glocal è entrato nel
nostro lessico, e non c’è sociologo o economista che non predichi, e
giustamente, che viviamo ormai un’epoca in cui, per operare
correttamente a livello locale, occorre pensare sempre in termini
globali. I mezzi di comunicazione fisici (i trasporti) e simbolici
(le informazioni) continuano ad abbattere giorno dopo giorno le
distanze ed è sempre più difficile sapere se i pomodori della grande
distribuzione siano nostrani o cinesi. Il fenomeno migratorio
toccherà vertici sempre più elevati, perché non saranno solo la fame
e le guerre ad alimentarlo, ma anche e soprattutto le nuove
allocazioni e i nuovi modi di produrre, commerciare, far circolare
danaro e, come si suol dire, produrre ricchezza. In questa deriva, il particulare del campanile diventa il Forte Apache dei bianchi costantemente minacciato dai pellerossa. Nei fortini assediati si vive alla giornata e non è un caso che molti giovani incapaci di assumere orizzonti più ampi, bruciano l’oggi dell’usa e getta, gettando via, purtroppo senza avvedersene, pezzi su pezzi del loro avvenire e della loro vita! E non c’è neanche l’alibi, e il conforto, del cupio dissolvi! Vi sono poi altri fortini, quelli degli indomiti difensori dei tanti piccoli mondi antichi, incapaci di commisurarsi con quello di oggi, perché la nazione impegna e spaventa, soprattutto se rincorre anche l’utopia di un unione che vuole definirsi europea. Così, tra il ripiegamento dei primi su se stessi con una sonora sbronza arricchita da mille sniffate e la costruzione, da parte dei secondi, di nuove mura cittadine contro gli odierni Barbarossa del Quirinale e di Bruxelles, non c’è molta differenza. Si difendono, e male, da un futuro che si teme, non si vuole progettare e si vorrebbe esorcizzare. Tra il quindicenne che si droga e si ammazza sull’autostrada ed il leghista tutto intento ad organizzare ronde non c’è differenza: il primo ha difficoltà a costruire se stesso come persona, il secondo a costruire se stesso come cittadino. In ambedue c’è la follia del disperato incapace di guardare oltre il muro della sua coscienza o quello del suo borgo. Sono fenomeni preoccupanti, ma il secondo, per certi versi, è più pericoloso per le implicazioni politiche che sottende. Parafrasando il Manifesto sulla razza del 1938 – controllare per credere – il nostro leghista potrebbe scrivere che “esiste una pura razza padana”, che “questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione Padana”, che “è tempo che i Padani si proclamino francamente razzisti”, che “i caratteri fisici e psicologici dei Padani non devono essere alterati in nessun modo”… e via di questo tono! Seguivano dieci firme di illustri scienziati e centinaia e centinaia di adesioni di intellettuali, professori universitari, scienziati… tutti allineati! Perché il dagli all’ebreo era una parola d’ordine fortemente condivisa! Come oggi il dagli al clandestino! Se tanto mi dà tanto, non vorremmo che anche i Sicani o i Liguri o i Piceni seguissero a ruota! Purtroppo, pericoli di questo tipo sono sempre dietro l’angolo! Com’è noto, el sueño de la razón produce monstruos! Roger Abravanel sul “Corriere della sera” di qualche giorno fa ricordava come il 70% degli Italiani è convinto che la cultura del suo Paese sia superiore alle altre, ma che purtroppo si tratta dello stesso 70% che ha serie difficoltà nel leggere e nello scrivere, ovviamente al di là della pura strumentalità… anche straniera: in tempo di vacanze il low cost e il last minute sono molto popolari! Il dramma è che in questo sgangherato contesto si avanza con tracotante serietà la necessità di insegnare il dialetto nelle scuole e di reclutare solo insegnanti di chiara fede e competenza dialettale! Il tutto come se l’apprendimento linguistico, quando sollecitato e guidato con tutte le competenze che un educatore linguistico deve possedere, non contenesse già in sé la valorizzazione della lingua di cui il discente è portatore. Solo alcuni cattivi educatori del Regno d’Italia vollero considerare il dialetto come una mal’erba da estirpare per imporre l’italiano come una sorta di prima lingua! Ma è anche vero che, se da un lato vi era l’esigenza di fare gli Italiani con la scuola e con la leva obbligatoria, dall’altro la ricerca linguistica – e non solo nel nostro Paese – non era ancora in grado di avanzare proposte diverse. Graziadio Ascoli nella seconda metà dell’Ottocento era ancora una vox clamantis, se non proprio in deserto, pur sempre nella ristretta cerchia dei primi ricercatori in fatto di lingua. Altrettanto dicasi di Luigi Moranti che realizzò una delle prime grammatiche della lingua italiana con la stessa cura con cui si occupava di dialetti e di canti popolari. Intuiva che non esiste una lingua colta da contrapporre a lingue incolte, perché ogni produzione linguistica è pur sempre l’esito di una cultura, ampia o ristretta che sia, ma sempre un prodotto delle molteplici vicende umane. Va anche detto che dopo l’Unità quei primi maestri, e maestre, di scuola, se da un lato cercavano di estirpare la mal’erba dialettale, dall’altro facevano leggere Dante, quel tale che di una lingua volgare fece una lingua che tutti potevano leggere perché trasversale – potremmo dire – a tutti i dialetti di un giovane Paese alla ricerca di una sua identità; e facevano leggere il Foscolo, che non solo trasse Dante dal dimenticatoio di secoli, ma parlò anche tra i primi di patria… ma non ditelo ai leghisti: “Il sacrificio della Patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia”. Chi non ricorda l’incipit dello Jacopo Ortis? Dal secondo Ottocento ad oggi di passi in avanti ne abbiamo fatti in materia di ricerca linguistica e di didattica della lingua. E i nostri linguisti oggi si segnalano sia per la ricerca che per le proposte operative. Abbiamo anche parlato di Educazione Linguistica Integrata: con l’Irrsae Puglia articolammo anche proposte sperimentali in tal senso in tre seminari interdirezionali del Ministero PI tra il ’92 e il ’95; un apprendimento integrato di più lingue (si pensi ad esempio agli alunni degli istituti tecnici e professionali per il turismo o a quelli dei licei linguistici) offre possibilità di successo maggiori rispetto agli insegnamenti tradizionalmente distinti. Per non dire poi di certe esperienze dell’insegnamento del latino come lingua viva. In tale congerie ricchissima di ricerca, teorica e didattica, il dialetto trova già la sua corretta collocazione, perché non è affatto una lingua da sopprimere né sono da bacchettare i piccoli parlanti. E al di sopra di ogni diatriba c’è pur sempre il fatto che la lingua – non dico una lingua – è in continua evoluzione, come tutte le cose vive. Già un testo di venti anni fa a volte sa di vecchio! Il dramma è che le dissennate proposte che taluni avanzano ignorano che la lingua non è solo uno strumento per comunicare, perché in primo luogo è uno strumento per pensare, un mezzo per stabilire un rapporto sociale, il veicolo con cui esprimiamo esperienze razionali e affettive, l’espressione di sentimenti, ed infine un oggetto culturale, quando si deposita sulla carta oppure, oggi, sul video del computer. I lettori più attenti avranno notato come ho spudoratamente copiato dai Programmi didattici per la scuola primaria dell’85. Ma che ne sanno i partigiani del lumbard! Che ne sanno di funzioni linguistiche o di atti linguistici! Ignorano che i veri difensori del dialetto sono proprio i linguisti e gli educatori linguistici! Che nei dialetti ritrovano tanta parte viva delle nostre culture e della nostra cultura. E soprattutto ignorano che insegnare per legge obbligatoriamente il dialetto nelle scuole è il modo migliore per impoverirlo, ossificarlo ed ucciderlo. Se è questo che vogliono, vadano avanti! Ma troveranno il vuoto, anzi il pieno perché di esperienze che vanno nella direzione del plurilinguismo già ce ne sono. E’ di ieri l’intervista di Luigi Berlinguer concessa al “Messaggero veneto” dopo un suo viaggio nelle scuole del Friuli. Eccone alcuni passaggi: “Una popolazione che sa parlare quattro lingue, italiano friulano, tedesco e sloveno, già a tre anni di età, impara a capire quattro volte più degli altri… Serve un sistema scolastico in grado di educare mettendo insieme ciò che si impara all’interno della scuola con l’esperienza esterna… La scuola di Tarvisio ha di fatto abolito la cattedra, ha creato una comunità educante e ha reso gli alunni protagonisti di se stessi… L’alunno deve conoscere il suo ambiente, però attraverso una cultura globale. Chi esce da scuola deve essere figlio della sua terra e cittadino del mondo”. Ne consegue, secondo Berlinguer, che “gli insegnanti devono prepararsi a svolgere la loro funzione in loco, ma la loro figura intellettuale ed educativa non può essere locale, ma di più ampio respiro”. E’ una linea sulla quale ci dovremo impegnare, stante il fatto che siamo alla vigilia di scadenze importanti, quali, ad esempio, il riordino dei due cicli di istruzione, la formazione e il reclutamento degli insegnanti, la messa a regime dell’obbligo decennale. Una linea sulla quale non si può puntare al ribasso, perché la pluralità delle lingue in un Paese sempre più multiculturale può essere una ricchezza, purché non la si umili facendo dei tanti nostri dialetti altrettante microprigioni dei nuovi parlanti! |