Scuola senz’anima.

di Giuseppe De Rita Il Corriere della Sera, 10.9.2008

Chi a diverso titolo guarda ai problemi della formazione e della scuola prova la spiacevole sensazione di non riuscire a contenerli in una interpretazione ben focalizzata, cosicché tutto gli appare scontornato, fluido, sfuggente. Ne parliamo e ne scriviamo tutti, ma non riusciamo almeno a mettere ordine su una crisi ormai profonda, anche perché ha almeno tre grandi motori di spinta. Il primo è dato dalle incertezze sull'assetto strutturale del sistema: ne sono prova le polemiche sulla fruibilità della scuola materna; sulle scelte dei docenti nella scuola elementare (maestro unico e no); sull'incapacità di creare nel periodo dell'obbligo quello «zoccolo di competenze di base» di cui ragioniamo da Lisbona in poi; sullo squilibrato andamento delle scelte fra licei classici ed istituti tecnici; sulla interminabile vicenda della riforma della secondaria superiore; sul fallimento della riforma 3+2 nell' università, ecc..

Le tante parole spese su questi temi non rendono meno confuso il quadro, che vede in azione un secondo motore di crisi: la disaffezione soggettiva. Sia quella degli allievi, con episodi e logiche di pericolosa decostruzione sociale (si ricordino il bullismo, gli abbandoni entro gli anni dell'obbligo, ecc.); sia quella di una parte del corpo insegnante con episodi e logiche (di impiegatizzazione e di segmentazione corporativa) di pericoloso impatto sulla qualità del rapporto educativo. Senza contare in terzo luogo che la scuola soffre moltissimo al suo esterno l'evoluzione delle altre agenzie formative: la crisi di funzione educativa della famiglia; la crescita di importanza delle nuove tecnologie di comunicazione che fanno apparire inadeguati ed obsoleti i percorsi scolastici; l'impatto della televisione e degli eventi collettivi sulle emozioni, sugli atteggiamenti culturali, sull'identità dei giovani. Aver messo in elenco le tre grandi componenti della crisi della scuola permette di dimostrare quanto essa sia profonda e sfuggente, non più padroneggiabile da vecchi canoni di interpretazione e di azione. Per questo si mostrano ogni giorno più irrilevanti i nobili richiami degli opinionisti e dei politici, le tabelle statistiche e i rapporti di enti nazionali ed internazionali, le raffiche delle tante proposte di riforma, le pressioni sindacali e le lotte del precariato.

La crisi della scuola italiana è profonda perché è in crisi di ruolo e di anima: di ruolo perché non è più attuale la sua originaria funzione di formazione collettiva a una cultura, una lingua, una coscienza nazionale; e d'anima, perché non sappiamo più quali fondamenti valoriali di base la scuola è tenuta - ed è capace - di dare alle giovani generazioni. Se così complessa è la crisi, per affrontarla bisogna avere una strategia del dove si comincia, altrimenti si resta nell'indistinto in cui oggi ci perdiamo. Può apparire una indebita semplificazione, ma l'ipotesi che sembra più viabile è quella di «cominciare dal basso». Dobbiamo far sì che i nostri figli o nipoti non restino prigionieri della successione delle tante emozioni ma siano aiutati a condensarle in una progressiva hillmaniana «educazione dei sentimenti»; non restino prigionieri del disordinato accavallarsi dei messaggi a loro indirizzati ma siano educati a saperli ordinare e sintetizzare; non restino a galleggiare sulla eterodiretta confusione intellettuale di cui tutti noi soffriamo,ma siano aiutati a sviluppare un po' di progressivo senso di responsabilità; non restino spersi nel vuoto spinto tipico della attuale cultura di massa, ma siano aiutati ad apprezzare la piccola virtù della serietà.

Se vogliamo far questo dobbiamo ricominciare dal basso, dalle fondamenta del sistema: da una buona scuola dell'infanzia, naturalmente rinforzata per diffusione territoriale e per qualità delle persone; e da una scuola elementare profondamente ricentrata sulla sua primordiale funzione di formazione dei sentimenti, della sintesi personale, del senso della responsabilità, della serietà del comportamento. Il ritorno all'insegnante unico non deve in questa luce scandalizzare, ha un senso profondo, anzi andrebbe gestito con maggiore concentrato coraggio: solo una personalizzazione forte e continuata del processo formativo iniziale può garantire ai giovani di possedere un solido «tondino di ferro» su cui agglomerare i successivi input formativi. Cominciare dal basso e rifare le fondamenta del sistema. Immagino che si tratti di un'opzione troppo drastica per una politica scolastica attraversata da centinaia di altre idee, proposte, interessi, poteri. Ma se non si fa questa scelta si rischia che si accentui la confusione ai piani superiori del sistema; e che la scuola ci sfugga sempre di più, come componente del nostro vivere insieme.