La ricerca Chi sono gli insegnanti entrati in ruolo:
donne, con più di 10 anni di precariato
Le motivazioni Il 90% rifarebbe la scelta dell'insegnamento.
E accettano i giudizi

I nuovi prof:
quarantenni con la nostalgia di casa.

E vogliono subito il trasferimento

Annachiara Sacchi  Il Corriere della Sera, 7.9.2008

Il primo lavoro fisso lo conquistano in media a 41 anni, dopo un decennio di precariato, una laurea (almeno per sei su dieci) e svariati «bocconi amari mandati giù». Hanno stipendi inadeguati e scarsissime prospettive di carriera. Preferirebbero una cattedra vicino a casa ma si dichiarano disponibili al cambiamento e non si scandalizzano all'idea di essere valutati (o, meglio, valutate, vista la stragrande maggioranza di donne). E se tornassero indietro, rifarebbero «tutto allo stesso modo». Scegliendo quella che più che una professione è una missione: insegnare.

Motivati e arrabbiati. Ecco i docenti neoassunti, quei 50 mila che l'anno scorso hanno faticosamente conquistato il «ruolo». La Fondazione Giovanni Agnelli di Torino li ha esaminati, interrogati, studiati. Chiedendo loro aspirazioni e sogni, frustrazioni e opinioni. E il risultato, in molti casi, è sorprendente: «Professori e maestri — dice il direttore della Fondazione, Andrea Gavosto — sono migliori di quello che noi pensiamo».

La ricerca è stata condotta tra maggio e giugno su 10.872 insegnanti di Emilia-Romagna (3.297), Puglia (3.792) e Piemonte (3.783) in collaborazione con le tre direzioni scolastiche regionali. Obiettivo: «Analizzare le patologie della scuola italiana e prospettarne soluzioni» con una serie di rapporti annuali. La consapevolezza: «Oggi — spiegano i responsabili del progetto — il nostro sistema di istruzione non appare del tutto adeguato a contribuire alla crescita del Paese». Per due motivi. Il primo: la scarsa qualità dell'apprendimento, «mediamente inferiore rispetto ad altre realtà internazionali », come dimostrano le indagini Ocse- Pisa. Il secondo: la scuola non riesce a essere un fattore di ascesa sociale.

Cambiare rotta. Nel reclutamento, nel modo di insegnare e di aggiornarsi, nel sistema retributivo. Una sfida difficile. Che la Fondazione Agnelli ha deciso di far partire dai docenti «nella convinzione che per guarire la scuola italiana è necessario concentrarsi su di loro». E soprattutto sui nuovi assunti, gli unici in grado di «aprire una fase di ricambio generazionale» e «di innalzamento dell'insegnamento». Come? Imparando a conoscerli. «E fotografandoli — continua Gavosto — nel momento "topico" del passaggio in ruolo».

L'età media di un neoassunto: 41 anni (in Puglia si sale a 42 e 10 mesi). Poteva andare peggio, si potrebbe pensare a una prima occhiata. Ma la prospettiva cambia quando si fa un paragone con i colleghi degli anni Sessanta: avevano circa 23 anni. Quelli degli anni Settanta arrivavano a 28. Non che i nostri prof, prima del posto fisso, non abbiano mai insegnato. Anzi. Il 46 per cento può vantare almeno dieci anni di anzianità e di «balletto» (il precariato) tra le scuole. Solo il 17 per cento ha meno di un quinquennio di servizio. E solo il 60 per cento (80 alle medie e superiori) ha una laurea. «Il vero problema — osserva Gavosto — è l'aggiornamento: solo i più motivati seguono corsi di formazione. Per non parlare del "come si fa a insegnare". Pochissimi hanno frequentato lezioni ad hoc». Altra ombra: quasi un quinto dei neoassunti (il 23 per cento in Emilia-Romagna, dove si registra un'ampia presenza di docenti del Sud) vorrebbe chiedere il trasferimento. Presto, possibilmente. Prendi la cattedra e scappa. Un'abitudine di cui si è lamentato lo stesso ministro Mariastella Gelmini: «Stiamo studiando la possibilità di introdurre incentivi per i professori affinché assicurino la propria presenza in classe per un intero ciclo scolastico di cinque anni», ha detto. Per ora, però, non si cambia. A danno della continuità didattica. E della qualità dell'insegnamento.

Fuga verso la scuola vicino a casa. Per stare vicino alla famiglia, per spendere meno, per comodità. Eppure nessuno prende alla leggera il suo ruolo. Prof e maestri dichiarano di aver passione da vendere, di non essere per nulla pentiti del percorso lavorativo intrapreso. Anzi. Nonostante i tanti motivi di insoddisfazione, il 90 per cento degli intervistati rifarebbe l'insegnante. E continua a trovare nuovi stimoli. Lo dimostra la grande partecipazione all'indagine della Fondazione Agnelli. Francesco De Sanctis, direttore dell'ufficio scolastico del Piemonte, commenta: «È la conferma che si tratta di personale attento, propositivo e disponibile a un confronto costruttivo. È mia intenzione raccogliere tutti gli spunti e le opinioni che "le nuove leve" hanno manifestato, cercando di tradurre in progetti e azioni le idee e le potenzialità espresse».

E i suggerimenti sono tanti. Sul sistema di valutazione dei docenti (oltre la metà crede che debba essere giudicato il lavoro di squadra, il 29 per cento quello del singolo) e sulle progressioni di carriera, uno dei grandi nodi dell'insegnamento. Quasi il trenta per cento (i maestri d'asilo e i più anziani) ritiene giusto avere aumenti di stipendio esclusivamente in base all'anzianità di servizio. Per il 62,9, invece, occorrerebbe differenziare le buste paga in funzione delle responsabilità; il 67,8, infine, preferirebbe essere pagato in base a meriti e competenze. Mansioni diverse, retribuzione diversa: un'apertura insperata in una professione, quella del docente, ritenuta arroccata su vecchie posizioni. E invece no, e anche sul reclutamento ci sono punti di vista nuovi. Il 44 per cento dei neoassunti si dichiara d'accordo o molto d'accordo sul fatto che le scuole possano assumere direttamente una parte degli insegnanti. Certo, un po' di diffidenza c'è. In Puglia oltre il 60 per cento degli intervistati è assolutamente contrario a questa ipotesi «ma in molti casi — puntualizza Stefano Molina, curatore della ricerca insieme con Laura Gianferrari — vince il timore che un certo sistema clientelare possa influenzare le scelte degli istituti».

Nuove ipotesi di assunzione. E di carriera. Il direttore della Fondazione Agnelli ci crede: «Si potrebbero abbandonare le graduatorie in vista di una maggiore flessibilità. È vero, la chiamata diretta (presidi che ingaggiano i prof) è a rischio di arbitrarietà, ma le scuole devono poter scegliere in base alle loro esigenze, non ai punteggi dei professori». Una rivoluzione graduale. Il primo passo? «Dare la possibilità ai dirigenti — suggerisce Gavosto — di confermare i supplenti che hanno lavorato bene».

Sembra proprio arrivato il momento di cambiare. Lo hanno capito i docenti — «hanno voglia di mettersi in gioco», aggiunge Laura Gianferrari —, ne sono convinti i direttori regionali che hanno aderito all'iniziativa. Come Luigi Catalano, a capo della scuola dell'Emilia- Romagna, Regione con una lunga tradizione di monitoraggi: «Interrogarsi sullo status dell'insegnante vuol dire guardare alla formazione-docenti come tema caldo del miglioramento del sistema di istruzione».

Lucrezia Stellacci, direttore didattico della Puglia, aggiunge: «I docenti vogliono partecipare, capire, migliorare. Troppo spesso della scuola si parla a vanvera. Ricerche come questa possono aiutare a conoscerla e a rispettarla. Ne abbiamo bisogno».