Quando la scuola imita le aziende. Marco Lodoli, la Repubblica, 15.9.2008 I grembiulini per tutti alle elementari, il sette in condotta per arginare i bulli, l'abbandono dei giudizi, spesso prestampati, per tornare alla sincerità del voto: sono scelte che si possono tranquillamente condividere, che forse avrebbe dovuto fare il governo precedente e chissà perché non ha fatto. Ma la questione di fondo della scarsa autorevolezza culturale della scuola temo rimanga irrisolta, e credo anche di sapere quale sia la sua doppia radice. Da un lato, come è ormai chiaro a tutti, l'incidenza crescente dei valori sociali nella scuola: fu una battaglia degli studenti più aperti e generosi, i quali capirono che non bastavano Carducci e Rosmini per affrontare le straordinarie contraddizioni del mondo, che bisognava necessariamente portare nuovi autori e nuovi temi dentro un sapere accademico e ammuffito. Ma una volta spalancata quella porta, non c'è stata più la possibilità di frenare gli ospiti: e così oggi la scuola, visto che il tempo scorre e le cose cambiano, si ritrova a subire e a patire i nuovi valori – denaro, successo, aggressività, narcisismo – e non sa più in che modo convincere gli studenti che solo attraverso l'applicazione, il sacrificio, la concentrazione, la solitudine potranno imparare qualcosa di utile per loro stessi e per la società. Il mondo peggiore è entrato e la fa da padrone. Ma su questo già molto è stato scritto ed è un problema ormai così evidente che quasi non serve ragionarci sopra. E' lo stato delle cose, la piaga in cui il dito sta girando da molto e invano. L'altro aspetto che invece non è stato ancora sufficientemente preso in considerazione è forse ancora più fondante, o più franante: mi riferisco all'autonomia scolastica, che ancora passa come una conquista meravigliosa e che invece a mio avviso ha ridotto le scuole a negozietti con la merce sempre in saldo, con le svendite costanti e la qualità ridotta al minimo.
Prima tutte le scuole dipendevano allo stesso modo dal ministero,
avevano programmi unificati, facevano scelte coerenti. L'idea di
fondo era che i ragazzi dovevano essere preparati ed educati secondo
linee comuni, secondo i valori basilari della conoscenza e
dell'uguaglianza. Da Ragusa al Brennero si condividevano metodi e
aspettative, in un orizzonte democratico e popolare, magari un po'
noioso ma rassicurante per chi insegnava e per chi imparava. A un
certo punto però si è deciso che ogni preside e ogni collegio dei
docenti potevano gestire come meglio credevano le offerte e i
percorsi formativi. Ogni scuola oggi elabora dunque il suo Pof, cioè
il Piano di Offerta Formativa, e i ragazzi si iscrivono a questo o a
quell'istituto leggendo depliant quanto più possibile accattivanti.
Viene proposto il corso di teatro e quello di ping pong, la
settimana corta e la settimana bianca, il cineforum e la gita fuori
porta. La vetrina deve essere splendida splendente, altrimenti si
rischia che i potenziali clienti non vengano dentro neppure a dare
un'occhiata. Chi perde studenti, perde quattrini: il budget si
assottiglia, la scuola arranca e rischia, se continua l'emorragia,
di finire accorpata con qualche altra che invece ha la fila davanti
al portone. Anche per questo, soprattutto per questo, a fine anno le
bocciature sono ridotte al minimo: una scuola che promuove significa
una scuola che va bene, che mantiene i suoi iscritti i quali,
arcicontenti, ne parleranno bene in giro. Insomma, l'autonomia
scolastica ha messo le nostre scuole in competizione tra di loro,
esattamente come fa il libero mercato: ma il risultato non è stato
un miglioramento dell'istruzione, così come la moltiplicazione delle
televisioni non ha reso i programmi migliori e gli italiani più
svegli e più colti. I presidi ormai si sono elevati – o abbassati –
al livello di manager, difficilmente tengono d'occhio l'andamento
generale degli studenti, cosa succede in classe, quali sono i
problemi dei professori, tanto sono presi dalla preoccupazione di
far quadrare i conti e non perdere la clientela. E i clienti, si sa,
hanno sempre ragione, quindi è inutile, anzi nocivo, difendere i
professori-commessi dell'emporio, che devono soltanto soddisfare le
aspettative dei giovani seduti al di là del bancone. Pardon, volevo
dire della cattedra. Probabilmente in qualche scuola virtuosa questa
raggiunta autonomia ha prodotto risultati eccezionali, ma direi che
nell'insieme ha soltanto inoculato il virus dell'inadeguatezza nei
professori, ha depotenziato il loro insegnamento, costringendoli a
retrocedere al ruolo di intrattenitori, di venditori di pentole, di
spaventati amiconi dei ragazzi. Non credo si possa tornare indietro,
ma credo che andare avanti in questa direzione significhi soltanto
rendere le nostre scuole simili ad aziendine traballanti, pronte a
tutto pur di non perdere la loro misera quota di mercato. |