Assistiamo a una sorta di stigmatizzazione
professionale Quando la professione diventa una colpa. Ilvo Diamanti la Repubblica, 21.9.2008 Sembra lontano il tempo in cui il lavoro e la professione costituivano il riferimento principale dell'identità, rivendicato con orgoglio. Scolpito nella biografia, di generazione in generazione. Intere zone del Veneto, dove risiedo, sono affollate da famiglie che di cognome fanno Tessaro e Lanaro, eredità della tradizione tessile. Vocazioni produttive tradotte nella (carta di) identità. Dirsi operai e, di più, metalmeccanici, negli anni Settanta; oppure, nei decenni seguenti, imprenditori e artigiani, e non più "padroni": era un segno di appartenenza collettiva e personale. Per altro verso, alcune importanti figure pubbliche vengono riconosciute, nel linguaggio comune, attraverso un riferimento professionale. Senza bisogno di "nominarle". L'Avvocato, il Professore, l'Ingegnere, il Contadino. Più di recente, l'orizzonte del mercato del lavoro è stato punteggiato dalle nuove professioni espresse dalla new economy. Consulenti finanziari, broker, esperti di comunicazione, maghi della rete e dell'informatica. Nuovi miti di successo - e dell'ascesa sociale. Quest'epoca sembra finita, in modo rapido quanto irreversibile. Il lavoro e le professioni, oggi, stentano a definire l'identità privata e sociale delle persone. Semmai servono, al contrario, come bersagli della pubblica indignazione. Lavori antichi e nuovi, sepolti dal cambiamento. Gli operai: dimenticati. Rimossi. Ci sono ancora, ve lo possiamo garantire. Anche se non stanno più nelle grandi fabbriche, che non ci sono quasi più. Sono, invece, sparsi nella rete delle piccole imprese. Per cui non fanno "massa critica". E ci si ricorda di loro solo quando muoiono, tragicamente, vittima di incidenti sul lavoro. Quotidianamente. D'altronde, l'idea di fare l'operaio non attira i più giovani, per i quali il lavoro "dipendente" coincide con "temporaneo". Intermittente, part-time, a progetto, a chiamata. Nel linguaggio comune: "precario". Difficile ricavarne motivo di orgoglio e di rispetto. Sembra finita in fretta anche la fortuna delle nuove professioni. Sepolta dalla recessione internazionale e dal declino interno. Difficile oggi guardare con ammirazione e invidia i consulenti finanziari e di borsa. Abbiamo negli occhi - impresse - le immagini dei broker della Lehman Brothers. Tutta la vita professionale futura (come hanno osservato Massimo Gramellini e Vittorio Zucconi) in una scatola di cartone, che contiene i loro effetti personali, raccolti in fretta dalla scrivania. Il loro lavoro scomparso in un attimo, insieme al loro prestigio. Guardati con pena mista a risentimento dalla "gente comune" che ha scoperto di aver perduto risparmi senza capir bene come e perché. Fra gli altri protagonisti dell'economia e della finanza negli ultimi dieci anni, gli immobiliaristi non hanno mai goduto di grande popolarità. Oggi che gli affari, per loro, vanno particolarmente male, non sono in molti a soffrirne. Peccato che il peso dei loro insuccessi ricada anche sui consumatori e sui risparmiatori. Attraverso il circuito bancario e assicurativo. D'altra parte, anche i direttori di banca delle filiali, un tempo veri notabili, hanno perduto prestigio e ruolo. Altre ragioni di crisi delle professioni come fonte di identità personale e di riconoscimento sociale sfuggono all'andamento dei mercati economici e finanziari. Almeno in parte. Assistiamo, infatti, a una sorta di stigmatizzazione professionale come metodo di comunicazione politica a fini di consenso. E' avvenuto negli ultimi mesi, soprattutto per alcune importanti categorie del sistema pubblico. Pensiamo agli "statali", bersagli della campagna del ministro Brunetta contro i "fannulloni". Magari, il ministro non intendeva etichettare l'intera categoria, ma denunciarne un vizio diffuso e di senso comune. Tuttavia, oggi egli è divenuto popolarissimo come l'inflessibile giustiziere degli "statali fannulloni". Lo stesso "format" comunicativo (per citare Berselli) adottato dalla ministra Gelmini nei confronti degli insegnanti. I "professori" delle medie: da aggiornare e motivare. Le maestre elementari: da ridurre a una sola. (Come le madri di famiglia, di cui dovrebbero costituire l'estensione). I professori universitari: da tempo al centro di polemiche, a causa di concorsi ed esami combinati oppure sospettati di scarsa presenza e preparazione. Iniziative non prive di fondamento. (Ma la scuola elementare è l'unica a essersi rinnovata in modo efficiente, come ha messo in luce l'indagine dell'OCSE). Solo che, in modo più o meno consapevole (ma noi preferiamo non accusare di ingenuità i ministri), hanno imposto un marchio degradante a intere categorie professionali. Facendone il capro espiatorio, su cui scaricare le colpe e indirizzare l'indignazione sociale in rapporto a questioni e crisi ben più ampie. I professori incapaci: responsabili delle disfunzioni del sistema scolastico e formativo. Gli statali fannulloni: origine e soluzione dell'inefficienza del sistema pubblico. Allo stesso modo: i piloti e gli assistenti di volo, "unici" colpevoli (insieme al sindacato, pardon: la Cgil) dello sfascio di Alitalia. Il modello, peraltro, potrebbe essere applicato, nel prossimo futuro, ad altre figure e ad altri settori. Riconducendo, ad esempio, le difficoltà del sistema sanitario (in grande sofferenza per motivi di spesa) alle colpe dei medici. (Un primo passo, in tal senso, l'ha mosso ieri Brunetta, affermando che negli ospedali "i macellai non sono pochi"). D'altronde, questo schema sembra funzionare bene, visto il largo consenso che ne hanno ricavato i provvedimenti del governo e i ministri interessati. Visto, in parallelo, il declino di immagine che ha caratterizzato le professioni coinvolte. Una recente indagine dell'Osservatorio sul Nordest di Demos (per "il Gazzettino"), ad esempio, rivela una sensibile crescita di quanti ritengono gli insegnanti i maggiori responsabili dei problemi della scuola: dal 16% nel 2007 al 25% oggi. Dieci punti percentuali in più rispetto a un anno fa. Quando i principali problemi risultavano, invece, la carenza di risorse e di fondi e lo scarso rapporto con il mercato del lavoro. Oggi invece i colpevoli sono soprattutto loro: maestri e professori. D'altra parte, due anni fa, il decreto Bersani sulle liberalizzazioni produsse (come effetto laterale e in parte imprevisto) un ampio risentimento sociale contro alcune categorie professionali "autonome". Come i tassisti. Che reagirono con proteste talora estreme.
Così oggi le professioni servono
perlopiù a catalogare le persone in modo spregiativo. A dividere la
società, erigendo barriere di risentimento e indignazione.
Professori, piloti, statali, tassisti, medici, immobiliaristi,
notai, ministeriali, bancari, banchieri, assicuratori, farmacisti,
bottegai. E ancora: giornalisti, giudici, magistrati e politici. Gli
uni contro gli altri. E tutti insieme contro ogni singola
professione. Mentre gli operai sono semplicemente scomparsi
dall'orizzonte. Invisibili e indicibili. Se vostro figlio,
interrogato su cosa farà da grande, rispondesse: "l'intermittente",
non guardatelo male. Non è solo realista, ma lungimirante. Se la
professione diventa motivo di risentimento sociale, meglio
flessibili e mimetici che discriminati a tempo pieno. |