Vivere da fannullone impenitente

Francesco Di Palo da DocentINclasse, 19.10.2008

Prima della forca – estremo rimedio al criminale incallito – per i reati minori c’era la pubblica gogna. Quella di una volta era fatta di legno. Un trave sezionato in due parti e ricucito alla bell’e meglio con cerniere di ferraglia, con al centro tre buchi, uno più grande e due più piccoli, l’uno per la testa, gli altri per le braccia. Posizionato in qualche piazzetta, dove la brava gente faceva mercato o si riuniva ad ascoltare e a commentare le flash news del tempo – chia chia – attendeva con lignea stolidità che il malcapitato di turno vi fosse condotto dagli sgherri dell’autorità costituita. Un giro di chiave nel lucchetto arrugginito e clink! tutto era pronto. In nome di Sua Eminenza, Monsignor il Prefetto Pontificio. La brava gente finalmente aveva un buon argomento in carne ed ossa da mettere sotto le gengive sdentate. E per dare una mano a verdurari e fruttivendoli a smaltire i resti della giornata: finocchi abbruniti, cavoli marcescenti, frutti trasformati in verminai si trasformavano in proiettili improvvisati da accompagnare ad improperi biascicati, biechi sfottò rinforzati da qualche innocua bestemmiuccia in direzione del delinquente abbracciato nel legno. Sua la colpa di essere quello che era, né troppo grande nel male per esser temuto, né così linguacciuto da arringare la brava gente (al limite si poteva ovviare al disguido con un bel morso equino), figlio di nessuno, nemmeno di Cristo che abitava la chiesetta lì vicino.

I tempi cambiano. Cambiano le forme. Un po’ meno gli uomini. Quasi per niente il volto beffardo del potere. Ora le gogne non sono fatte più di legno. Quello si usa per il parquet. Viaggiano invisibili lungo le autostrade elettromagnetiche, volano nell’etere, s’imbottigliano nei cavi a fibre ottiche per emergere fantasmaticamente reali tra le immagini danzanti dei televisori al plasma o sui monitor lampeggianti dei computer. Forum, sondaggi d’opinione, tele-dibattiti, TG, websites sono le piazzette della nostra città globale. Giornalisti bla-bla, opinionisti, intervistatori di cartapesta, drappelli di benpensanti telematizzati, gli sgherri. I cavoli si lanciano col telecomando e la litania di bestemmiucce si sussurra tra un pacco e l’altro, un culo plastificato e un paio di tette al silicone.

Io sono un fannullone impenitente, mea culpa, con manie di protagonismo, mea maxima culpa e alla gogna mi ci metto da solo. Confesso. Rubo il denaro degli onesti contribuenti. Impedisco la crescita del mercato dell’auto – soprattutto di quei pratici jepponi che infestano le nostre foreste d’asfalto. Sto mandando in rovina alcuni imprenditori galantuomini perché a suo tempo non ho voluto comprare obbligazioni parmalat. Non gioco con i pacchi del Mibtel. Non credo nel lotto – caramba! la dea bendata deve proprio odiarmi! Non amo la patria perché il tricolore sulla coda dei jet alitalia mi lascia indifferente. Ma soprattutto tento – grazie a dio invano – di pervertire e rovinare le nuove generazioni. Titillo le loro verginali orecchie di clienti-consumatori con parole vuote ma perniciosissime. Li obbligo ad arrampicarsi su chine di scritti impervi, cumuli di idee fumose, diabolicamente gettate lì da un mucchio di altri straccioni invidiosi, la maggior parte dei quali, per fortuna, sono passati a miglior vita parecchi secoli fa. Non produco niente e consumo pochissimo. Ho persino detto bye-bye alla RAI alcuni anni orsono – non mi comunico con Bruno Vespa, non adoro Raffaella Carrà, non vado in estasi dinanzi al sorriso smaltato del signor Presidente del Consiglio. Mi sono scomunicato da solo, sbattezzato: horribile dictu il tarabum-tarabum-taratatatatatà dell’inno nazionale prima delle partite di calcio mi lascia completamente indifferente. Il tifo per me è solo una malattia gastroenterica. Sono tremendamente malizioso. Uso ironia e sarcasmo a gogò. Non credo nella carriera: tra noi furfanti o non esiste oppure è un titolo di demerito. L’anticamera dinanzi a testa di fango, il grigio burocratuccio di provincia mi dà il voltastomaco. Odio l’incenso. Preferisco lo zolfo come tutti gli apprendisti incendiari.

Insinuo dubbi nelle fragili testoline dei vostri figli adolescenti, godo immensamente quando provano a tirare la barba al babbo natale dell’ipermercato e si frugano tra le mutande per leggere l’etichetta “made in China”. Non faccio politica perché mi sento radicalmente “antipolitico”: come si può “fare politica” se si deve, per contratto, ma soprattutto per subdolo piacere, far riflettere torme di giovani giustamente svagati sui principi della Costituzione Repubblicana? Principi che, grazie a dio, la realtà di tutti i giorni e gli uomini che contano – papà, presidenti, onorevoli, eccellenze manageriali, nobili impuniti d’ogni risma e grado, mamme e papa, calciatori e madonnine elettriche – si incaricano di ricondurre alla loro pretestuosa natura di sottili e sgargianti fogli di polistirolo?

Sono sempre in vacanza, non alle Seychelles – non potrei permettermelo – ma chiuso tra le quattro pareti di casa mia e passo il tempo cospirando, tra cumuli di libri pieni di sciocchezze, file e directory con etichette fuorvianti, “amicizia”, “felicità”, “amore”, “senso e significato”, “storia del liberalismo”, “bioetica”, pacchi di carta da scarabocchiare in rosso e in blu – tutto pagato e scelto da me, computer, abbonamento ad internet, biro, matite e gomme per cancellare: ci tengo a scegliermi di persona le ferraglie del mio criminoso e criminogeno mestiere. Viscidamente, come il ladro col suo piede di porco preferito.

Mi trema la voce, ah poteste sentirmi!, ma devo confessarvelo. Sono – ahimé – un professore, me pudet mei ipsius, non uno qualsiasi per giunta, bensì il più diabolicamente inutile che ci sia: un professore di filosofia, un indegno amante di sophia! Aiutatemi, vi prego, non posso tirarmi verze ed pere marce da solo. Sono irrimediabilmente perverso: nonostante tutto, nonostante tutti, continua a piacermi quello che faccio! Bersagliatemi di mail, spammatemi!