Il taglio del vicino è sempre più verde.
Anche per la Chiesa.

Va bene tagliare, fino a che i tagli riguardano le tasche degli altri. E' la regola aurea del dibattito pubblico italiano. Stupisce che sia applicata anche dalla Chiesa italiana nel caso della scuola. Perché se il problema dei risparmi esiste, e per risolverlo servono proposte concrete, una delle opzioni potrebbe essere la riduzione di spesa ottenibile dall'abolizione dell'obbligo dell'insegnamento della religione cattolica negli istituti statali. Anche perché sono diverse le peculiarità che contraddistinguono gli insegnanti di religione in Italia.

 di Francesco Daveri e Fausto Panunzi da La Voce, 1.11.2008

Nel mezzo delle manifestazioni di piazza e delle tensioni sollevate dall’approvazione del cosiddetto decreto Gelmini, la Chiesa italiana ha deciso di dire la sua. Con l’autorevolezza della sua carica, sul Corriere della Sera del 28 ottobre monsignor Diego Coletti, vescovo di Como e responsabile scuola della Conferenza episcopale italiana, ha riconosciuto con tono grave che “Il problema dei risparmi è certamente sul tavolo ed è ineccepibile”. L’alto prelato ha poi continuato dicendo che è “inutile se non addirittura dannoso intervenire agitando le piazze”.

 

IL BUON ESEMPIO CHE MANCA

Anziché predicare, però, la Chiesa italiana potrebbe in questo caso dare il buon esempio. È vero: il problema dei risparmi, o almeno della riduzione degli sprechi, nella scuola esiste e non basta certo scendere in piazza per risolverlo. Ci vogliono proposte concrete. E, parlando in concreto, una delle opzioni che si potrebbe valutare è quella della riduzione di spesa ottenibile dall’abolizione dell’obbligo dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali.

Il problema è aggrovigliato. Il primo punto da chiarire è se l’insegnamento della religione generi davvero un onere per le casse dello Stato. La risposta è sì. Le famiglie possono già ora decidere di non avvalersi di tale insegnamento. Ma le famiglie, anche quelle di atei e miscredenti, non possono avvalersi del diritto di non pagare le tasse per finanziare gli insegnanti di religione.

Dato che c’è un onere, il secondo problema è quello di capire quale sia l’entità di questo onere per le casse dello Stato. E qui le cifre sono incerte. Secondo Wikipedia, dunque una fonte da prendere con le pinze, gli insegnanti di religione nel 2001 erano circa 25mila e, dice la stessa fonte, il loro costo a carico dello Stato italiano ammontava a 620 milioni di euro, pari a circa l’1,8 per cento della spesa complessiva statale per il personale scolastico. Nel libro “La Questua”, pubblicato da Feltrinelli nel 2008, Curzio Maltese stima il costo dei 25.679 insegnanti di religione attuali in un miliardo di euro. Ecco dunque una misura dell’onere per le casse dello Stato.

Terzo, piccolo o grande che sia, e probabilmente è una goccia nel mare delle spese della scuola italiana, è pur sempre un onere molto particolare. Perché, ad esempio, quando si parla di insegnanti di religione, non si applicano le regole in materia di accorpamento che ora il ministro Gelmini vuole imporre nelle scuole di ogni ordine e grado. Se solo pochi studenti scelgono l’insegnamento della religione, la possibilità di accorpamento delle classi è molto limitata. Molto spesso, tre studenti che lo chiedono sono sufficienti per tenere in piedi una cattedra di religione. Per mantenere quelle delle altre materie, i presidi devono invece fare i salti mortali.

 

LA REGOLA AUREA DEI TAGLI

Le peculiarità non finiscono qui. Fino al 2004, la totalità dei docenti di religione veniva nominata su segnalazione della curia diocesana al dirigente scolastico che confermava la nomina. L’affidamento dell’insegnamento doveva essere confermato anno per anno. Ma la legge 186 del 2003 ha posto rimedio a questa situazione prevedendo l’immissione in ruolo di circa 15mila (dei 25mila) insegnanti di religione previo concorso, il primo dei quali è stato riservato a coloro che avevano prestato continuativamente servizio su quell’insegnamento per almeno quattro anni negli ultimi dieci. Oggi, sempre secondo la voce di Wikipedia, il 70 per cento delle cattedre di religione viene coperto dall’Ufficio regionale Scolastico, d’intesa con l’ordinario diocesano, tra coloro che hanno superato il concorso. Il restante 30 per cento è ancora nominato direttamente dalla curia diocesana, la quale conserva il potere di revoca degli insegnanti anche per ragioni quali la “condotta morale pubblica in contrasto con gli insegnamenti della Chiesa”. Insomma, la curia ha il potere di licenziare un insegnante sulla base della sua vita privata. Ma questa, come direbbe Carlo Lucarelli a “Blu Notte”, è un’altra storia.

Si potrebbe obiettare che l’insegnamento della religione nella scuola pubblica esiste in quasi tutti i paesi europei, anche se non in Francia ad esempio. Ma il potere che l’Italia delega alle diocesi è una caratteristica tutta nostrana. E indubbiamente peculiare è, in barba alle sbandierate esigenze di meritocrazia, la possibilità concessa agli insegnanti di religione, una volta assunti in ruolo con un concorso un po’ speciale, di cambiare settore e diventare magari insegnanti di storia e filosofia. Ma forse, in definitiva, il tutto finisce per essere un’altra applicazione della regola aurea del dibattito pubblico italiano: i tagli vanno bene fino a che riguardano le tasche degli altri. Stupisce che questa regola sia applicata anche dalla Chiesa italiana nel caso della scuola.