Nei cortei di questi giorni anche parole
d'ordine vaghe La scuola le proteste e la verità sulla riforma
Che cosa rivelano le contestazioni contro il
ministro Mario Pirani la Repubblica, 10.11.2008
L'avversione al decreto potenziata dalle prepotenti e sciocche
minacce berlusconiane Questo lontanissimo episodio mi è venuto alla mente riflettendo sulla tumultuosa e massiccia protesta del mondo della scuola dilagata in questi giorni in tutta Italia in odio al decreto Gelmini. Eppure quel decreto, tradotto ora in legge, non conteneva minacce tanto dirompenti da giustificarne il crucifige, anche se su un punto il maestro unico alle elementari e le diminuzioni di insegnanti che ciò implica meritava un ripensamento di fondo, di cui parleremo più avanti. L'avversione al decreto, potenziata dalle prepotenti quanto sciocche minacce berlusconiane, si è invece caricata di ben altri significati appunto come quel parto davanti all'ospedale e ha dato alle manifestazioni studentesche motivazioni assai più ampie, pur se confuse, che spaziavano dalle elementari all'Università. Comunque, tra tutte, la più forte, in parte giusta e in parte sbagliata, è stata quella contro tutti i tagli previsti (non dalla Gelmini ma dalla Finanziaria, approvata senza che nessuno fiatasse tre mesi orsono). Di tutto questo si è appropriata l'opposizione e non è pensabile che facesse altrimenti. Assurdo, quindi, ogni biasimo sulla carenza di fair play riformista, dimostrata in questa contingenza da Walter Veltroni. Quel che per contro potrebbe essere rilevata criticamente è l'assunzione, senza beneficio d'inventario, della proteiforme nebulosa protestataria, rinunciando in partenza ad un intervento per darle uno sbocco razionale e positivo, interpretando il disagio reale della scuola, ancorché sotteso a slogan inconsistenti, studiando e scegliendo obiettivi possibili e immediati, quanto prospettando mete di riordino a più lungo termine. Così non è stato. Alcun ascolto ha trovato, inoltre, l'appello di Giorgio Napolitano, pronunciato all'apertura dell'anno scolastico, perché si affrontassero con «senso della misura e realismo le questioni più spinose, compresi gli impegni finanziari... L'Italia - specificava per maggior chiarezza il Capo dello Stato - nel suo stesso vitale interesse deve ridurre a zero nei prossimi anni il suo deficit pubblico... nessuna parte sociale e politica può sfuggire a questo imperativo ed esso comporta anche - inutile negarlo - un contenimento della spesa per la scuola... l'obbiettivo non può prevalere su tutti gli altri e va formulato, punto per punto, con grande attenzione, in un clima di dialogo. Ma ciò non può risolversi nel rifiuto di ogni revisione necessaria a fini di risparmio». La risposta non poteva essere più deludente: Berlusconi ha inteso l'invito al confronto come un incentivo alla minaccia poliziesca, Veltroni ha preferito la deriva populista di facile presa ma scarsa prospettiva, ribadendo un No preclusivo a tutti i tagli e annunciando un discutibilissimo referendum anti-Gelmini, peraltro improponibile in materia finanziaria. Per contro era possibile avanzare contro proposte convincenti sia sul maestro unico e sugli sprechi, elencati voce per voce in un dossier di «Tuttoscuola», l'ottima agenzia indipendente che su Internet monitorizza quotidianamente la vita scolastica. Il decreto Gelmini, peraltro, nel suo impianto globale si muoveva esplicitamente lungo il solco della correzione di rotta già impresso da Fioroni e Bastico, ministro e vice ministro del governo Prodi, per riportare un minimo d'ordine e di serietà negli studi. Lo prova le lettura degli otto articoli della legge che riguardano nell'ordine l'introduzione dell'insegnamento su «Cittadinanza e Costituzione», la conferma della revisione anti-bullismo dello Statuto degli studenti, messa a punto da Fioroni con la valutazione in pagella e in sede di scrutinio finale del comportamento, un tempo chiamato «condotta», la misura in decimi del voto, la necessità di conseguire almeno la media del 6 per la promozione e l'ammissione all'esame di Stato, l'obbligo per gli editori di adottare libri di testo validi per cinque anni, così da non costringere le famiglie a continui esborsi per inutili aggiornamenti, l'abilitazione all'insegnamento nelle scuole elementari e dell'infanzia per chi abbia ottenuto la laurea in scienza della formazione primaria, infine una modifica delle norme di accesso alle scuole di specializzazione medica.
Veniamo al contestato articolo sul maestro unico che, in realtà,
sarebbe più giusto definire come una disposizione sul tempo-scuola,
ridotto a 24 ore settimanali, come era fino al 1990. Qui incidono i
tagli destinati a risparmiare su precari-supplenti. Ma, per un
giudizio motivato, è utile ricordare cosa si proponeva la riforma
della mitica ministra Falcucci, dc doc mai abbastanza rimpianta. Per
ampliare il ventaglio di conoscenze già nell'età infantile e, ad un
tempo, per consentire al più gran numero di madri di entrare nel
mercato del lavoro, venne deciso di procedere gradualmente e
attraverso sperimentazioni e verifiche a una modifica radicale,
portando inizialmente l'orario normale da 24 a 27 ore e, via via a
30, mano a mano che le scuole si mettevano in grado di assumere un
insegnante per la lingua straniera, la cui introduzione era il vero
clou della riforma. Questo avrebbe comportato due ritorni
pomeridiani la settimana o l'organizzazione di una mensa scolastica
ad opera dei Comuni. Un servizio indispensabile nel momento in cui
andava a regime il secondo pilastro della riforma, un tempo pieno di
40 ore settimanali, compresa la pausa pranzo. Non voglio, peraltro, ignorare l'impegno proclamato dall'on. Gelmini, secondo cui il tempo pieno, per chi già ne gode, non verrà scalfito. È una verità parziale che nasconde una realtà molto amara. La nuova legge, infatti, riduce le ore di scuola per i bambini dai 3 ai 10 anni e lo fa.... dove non c'è tempo pieno. Questo, infatti, non è distribuito egualmente nel territorio: a Milano copre l'89,5% degli alunni, a Torino il 65,5, a Roma il 54,4 ma a Napoli solo l'1,5 e in tutto il Sud non raggiunge il 9% delle scuole. La legge fotografa e congela questa situazione. I bambini e le mamme del Nord avranno il mantenimento delle risorse che saranno decurtate al Sud. Qui i bambini usciranno alle 12,30 già l'anno prossimo e l'effetto seguiterà a ricadere sulle madri meridionali, che tanto per il 62% sono fuori del mercato del lavoro. E Comuni e Regioni potranno seguitare a trascurare l'organizzazione delle mense scolastiche.
Un ultimo post scriptum: se invece di compiacersi del gran casino,
l'opposizione riformista volesse avanzare delle controproposte in
materia di tagli, perché non affrontare la possibilità di abolire,
come in tutti i paesi europei, il quinto anno delle superiori e
permettere ai giovani italiani di ottenere il diploma a 17 anni,
come francesi, tedeschi e inglesi, invece di restare nei banchi fino
a 18 ed avviarsi al lavoro o alle Università a 19. |