chi ha paura del merito?

Gianfranco Giovannone da DocentINclasse, 23.11.2008

Forse il liberismo non è “di sinistra”, come hanno sostenuto tempo fa nel loro libro Francesco Giavazzi e Gianni Alesina, ma la meritocrazia, in particolare la meritocrazia a scuola sicuramente sì. Difficile infatti contestare le parole di Roger Abravanel nell’interessante intervista apparsa sulla rivista “La vita scolastica”.Abravanel, guru della consulenza aziendale a livello mondiale, sostiene che la scuola italiana non è affatto meritocratica e sostiene che questo fatto è particolarmente grave perché è proprio la scuola la chiave per l’affermazione del merito in una società. In tutto il mondo, infatti, una delle componenti fondamentali della meritocrazia, le pari opportunità, è determinata dal sistema educativo. E la meritocrazia implica che i migliori divengano classe dirigente indipendentemente da dove provengano, dal nord o dal sud, e soprattutto dalla famiglia di origine. E in questo processo il ruolo della scuola è determinante. In Italia la scuola non è meritocratica perché non svolge il suo ruolo fondamentale di “ascensore sociale”, ma anche perché essa stessa funziona in modo non meritocratico, così come tutto il servizio pubblico italiano. I docenti e le scuole migliori non sono riconosciuti, né tanto meno premiati. E la cosa più grave è che il risultato di questa situazione colpisce soprattutto i giovani meno abbienti. Abravanel cita correttamente a questo punto il vero scandalo del rapporto PISA, le modestissime performance degli studenti del nostro Meridione : “nelle prove OCSE-PISA del 2006, gli studenti del sud d’Italia hanno avuto un punteggio molto basso, al livello dell’Uruguay. Questo vuol dire che i ragazzi del sud sono discriminati perché noi sappiamo che esiste una correlazione tra i risultati PISA di un ragazzo e il suo reddito a 37 anni”. E aggiunge che, a fronte dei pessimi risultati del PISA nel sud i voti scolastici dati dai docenti delle scuole del sud sono uguali a quelli del nord ( ma la realtà, aggiungerei, è anche peggiore, perché molte ricerche indicano che un 7 assegnato a Reggio Calabria o a Bari equivale ad un 5 o magari a un 4 dato a Torino o a Bolzano).

A una domanda dell’intervistatore, a proposito delle pari opportunità, Abravanel precisa: “ Aspetti, forse non ci siamo capiti. È verissimo che il bambino ricco ha delle risorse familiari garantite che il bambino più povero non ha. Ma quando dico “pari opportunità” intendo dire esattamente che occorre rimuovere il cosiddetto “handicap familiare”. Ed è questo l’obiettivo della scuola. Il bravo maestro, la scuola efficace, è quella che riesce a compensare il background familiare. Nella società scandinava, che è una delle società più meritocratiche del mondo, vi sono delle ottime scuole dell’infanzia e primarie, con degli ottimi insegnanti. Un insegnante bravo è bravo proprio perché riesce a far diventare più bravi i bambini che partono da una situazione più arretrata. Guardi quando io ero molto piccolo, intorno ai 6 anni, non mi piaceva affatto la matematica. Ero l’ultimo della classe. Per mia fortuna ho avuto un maestro che mi ha fatto capire la matematica. E poi sono diventato ingegnere e insegnavo matematica al Politecnico. In questo senso la qualità dell’insegnamento è così strettamente legata alle pari opportunità. Ed invece quello che succede da noi è esattamente l’opposto. Perché i figli di coloro che si trovano in condizioni disagiate chi sono? Intanto stanno al sud, o in contesti degradati culturalmente, e poi si ritrovano spesso in scuole ancora più degradate, con insegnanti di passaggio”.

L’intervistatore chiede quindi perché nel suo libro “Meritocrazia” (Garzanti 2008) Abravanel insista perché anche in Italia si introduca un sistema di valutazione degli studenti analogo al SAT americano(Scholastc Aptitude Test): “ Intanto oggi in tutto il mondo, e non solo in America, si stanno creando queste strutture di accertamento delle competenze degli studenti. Ma a cosa servono? Non è, come dicono molti che vi si oppongono, che questi test servono per incasellare dietro un numero le persone. No: servono semplicemente per capire come migliorare. Altrimenti succede che le persone dicano: “la scuola è un disastro; dateci altri soldi e cercheremo di migliorare”. Ma così non si migliora. Prenda il caso di Tony Blair. Le scuole elementari inglesi, fino a 15 anni fa, erano un disastro e così lui si è dato un’unica priorità: “education, education, education”. E che cosa ha fatto? Ha sottoposto le scuole ad un sistema di test e poi ha investito enormemente per andare a sostenere le scuole e gli insegnanti più deboli. E questo non per licenziarli, o per chiudere quelle scuole, ma per concentrare il supporto sui docenti che avevano delle difficoltà obiettive. Questo perché tutti i sistemi scolastici eccellenti, come quello finlandese e quelli di Singapore e di Hong Kong, partono dal principio che l’elemento essenziale della qualità dell’insegnamento è l’insegnante. Quindi la chiave per il miglioramento è data dagli insegnanti. Perché non c’è nessuna correlazione tra quanto si spende in una scuola e la sua qualità; i finlandesi spendono molto meno degli americani e hanno delle scuole molto migliori. Inoltre non c’è nessuna correlazione con il numero di alunni per classe. È stata fatta una ricerca con due bambini di 8 anni che erano esattamente a metà della scala delle principali competenze scolastiche. Uno lo hanno affidato ad un insegnante classificato nel top 10% (i migliori 10 su 100) e l’altro ad un insegnante classificato nel bottom 10% (i peggiori 10 su 100). Dopo 3 anni li hanno ritestati: il primo era nel top 20%, il secondo nel bottom 20%. Dunque dopo tre anni uno era bravissimo e l’altro era pessimo.

A questo punto la domanda è ovvia : come si fa a migliorare gli insegnanti? La risposta di Abravanel è disarmante nella sua semplicità, ma i risvolti psicologici non sono affatto banali:

“A breve termine l’unico cosa da fare è insegnare agli insegnanti. In Inghilterra hanno fatto una specie di task force di insegnanti a sostegno di altri insegnanti. Perché un insegnante, quando sta in classe, è solo, e non riesce a capire se la sua didattica è buona o sbagliata. E andare a fare i corsi di formazione non serve a nulla. Infatti cosa fanno i finlandesi? Loro vedono dai test che quella scuola ha un maestro bravissimo, mettiamo in matematica, lo liberano un giorno alla settimana e quel giorno alla settimana lui va nelle classi dove lavora un collega meno bravo… Si mette lì, prende nota di quello che succede. Poi alla fine si prende il maestro e gli dice: “guarda in quel momento non si capiva nulla…”. Questo è il modo migliore per aiutare gli insegnanti. Quindi un buon test di accertamento, una specie di SAT all’italiana, è necessario per sapere dove investire le risorse. I paladini di questo discorso dovrebbero essere i docenti bravi. E non solo perché sono quelli che potrebbero avere uno stipendio più alto, ma per guadagnare quel rispetto e quella autorevolezza sociale che meritano. A Singapore la professione più rispettata e più ambita è quella dell’insegnante. Gli insegnati più bravi hanno tutto l’interesse ad avviare una rivoluzione meritocratica perché in questo modo potranno dire: “Guarda, io ho preso questa classe e l’ho fatta migliorare molto perché il test dice così”. A questo punto l’insegnante bravo diventa un eroe. È quello che ha fatto Blair che dopo aver fatto queste misurazioni ha avuto il coraggio di rendere pubblici i test delle scuole. E questo consente ai genitori di scegliere consapevolmente. Oggi un genitore italiano che deve iscrivere suo figlio, come fa? Non c’è modo, tranne il passaparola fidandosi delle esperienze particolari di chi lo consiglia. In Inghilterra c’è invece un sistema trasparente di performance delle scuole. Si sa chi sono i più bravi, si sa quali sono le scuole migliori. E si crea quello che si chiama un quasi-mercato. Che non è affatto un sistema scolastico privato… Quelli che dicono che la scuola deve diventare privata dicono una follia. La scuola è pubblica e deve rimanere pubblica. La scuola è pubblica anche in America. Ma deve esserci un sistema di quasi-mercato, nel senso che si deve sapere chi sono i più bravi e chi sono i meno bravi”.

A questo punto però avrei avanzato un’obiezione, perché parlando di quasi-mercato, di scuole in concorrenza fa loro, Abravanel pensa all’Inghilterra, dove il sistema è omogeneo, perché oltre il 95 per cento degli studenti inglesi frequenta le Comprehensive Schools. Come sarebbe possibile,da noi, mettere in concorrenza in liceo classico e un istituto professionale? Non mi sembra un problema di poco conto. In qualche modo Abravanel sfiora il problema quando parla dei risultati deludenti dei test PISA negli istituti tecnici: . “Le sinistre si sono sempre lamentate dicendo che è ingiusto che gli istituti tecnici diano dei PISA test più bassi. Ma questa posizione è profondamente sbagliata perché in tutto il mondo, nelle vocational school, l’analogo dei nostri istituti tecnici e professionali, vanno quegli studenti che hanno capacità scolastiche meno elevate, e quindi vanno peggio al test. Ma qual è il problema? Il problema è che agli istituti tecnici in Italia ci vanno i poveri e ai licei vanno i ricchi. Non le pare? E invece, attraverso un valido sistema di test, dovrebbe essere possibile identificare il giovane che pur provenendo da un ambiente povero si dimostra bravo, e metterlo nelle condizioni di frequentare i migliori licei e le migliori università”. Su questo ultimo punto i miei dubbi sono fortissimi, e riguardano i limiti oggettivi di una pur auspicabile società basata sul merito: siamo sicuri che in tutto il mondo, a cominciare dagli Stati Uniti e dal Regno Unito, le vocational schools non siano frequentate dagli studenti appartenenti alle classi più disagiate? E riuscite ad immaginare, nel nostro Paese ma anche altrove, una società così perfettamente meritocratica in cui i figli di imprenditori e medici, baroni universitari e avvocati, per quanto “dotati di capacità scolastiche meno elevate” frequentino scuole tecniche e professionali per diventare periti meccanici, camerieri e odontotecnici?