Il direttore generale della Luiss ragiona sulla riforma e sui cervelli in fuga
"Tornerebbero in un Paese con valori capovolti".
Un gigantesco scambio con la politica

Celli: "Siamo lontani da una svolta
e l'ateneo non pensa agli studenti"

Angelo Melone la Repubblica, 19.11.2008

"Scrivono che sono infuriati e che molto spesso non tornano indietro anche se vorrebbero? Non mi meraviglia, purtroppo. Perchè le condizioni non sono cambiate rispetto a quelle che li hanno spinti ad andare via". Pier Lugi Celli ha fama di non avere molte remore a dire cose scomode. E ora, da direttore generale della Luiss, prova a interpretare il malessere dell'università italiana.


Possibile che l'Italia sia condannata a non far valere il merito, come indicano questi ragazzi?
"E' vero, fuori vale quel che sai fare mentre qui i risultati hanno una importanza relativa. Il problema è che dopo un periodo all'estero le loro sensazioni non combaciano più con il mondo che ritrovano in patria".


A meno che non intervenga la nostalgia...
"Sì, ma tra quelli che tornano quanti poi se ne rivanno? Molti, troppi. E' che non si ritrovano più nella cultura dominante: la chiamerei cultura della sponda, è come se la vita di questo Paese si stesse svolgendo su un tavolo da biliardo, e tutti cercano una buona stecca".


E come si gioca sui tavoli degli Atenei?
"Allora, c'è un problema generale: nelle università vige una corporazione che si autoalimenta, dettandosi le proprie regole e senza controlli. Una volta erano i grandi maestri a trascinarsi dietro gli allievi, ora non sono nemmeno più i baroni: c'è un gigantesco gioco di scambio nel quale entra a piene mani la politica".


Insomma è quasi il trionfo del "comandare è fottere", come suggerisce il suo ultimo libro
"La cosa che mi sorprende è che in molti casi non hanno remore nemmeno di esporsi in modo plateale, è come se ci fosse una mentalità non scalfibile. Il libro vuole essere un antidoto, basato sul paradosso 'ti insegno il male perché tu lo eviti'. Spero funzioni, ma che le cose avvengano così purtroppo è vero".


E che risposte ha avuto dai ragazzi?
"Questo libro io l'ho scritto proprio ragionando con i ragazzi. E mi rendo conto che troppo spesso le università non si preoccupano di quel che gli serve, a partire da quali laureee hanno ancora un senso. Qui abbiamo iniziato un percorso di revisione dei piani di studio, abbiamo fatto entrare personaggi del mondo dell'impresa perché li allenino al mondo del lavoro e li aiutino a verificare i loro interessi, li abbiamo aiuitati a sviluppare attività collettive (dalla radio, alla tv, all'organizzazine di eventi culturali) con impegni di gestione economica".


Ma la sua è una università piccola e privata
"Mi rendo conto e non mi interessa stare a fare paragoni. La grandezza è diversa, ma anche le risorse sono ben diverse. Allora perché non mettere il dito nella piaga dei costi di gestione delle università che sono enormi? Perché non cominciare a ragionare sulla gestione di singole facoltà? Potrebbe essere una via per ridurre gli sprechi e soprattutto per fare in modo che anche l'università pubblica funzioni da orientatrice al lavoro".
 

Non è che non lo facciano
"Lo fanno molti splendidi, singoli docenti. Ma l'università è tutta virata al servizio dei professori, anche perché è amministrata da loro. E' il nodo gordiano da sciogliere. L'amministrazione comporta che ci sia regolamentazione, ed è difficile far rispettare le regole a un tuo collega, anche per un preside. Mentre bisogna mettersi in testa che tutto il meccanismo è per gli studenti. Che, per inciso, pagano".


E pensa che le molto contestate scelte del ministro Gelmini possano incidere?

"Ci sono provvedimenti sensati, ma è il disegno generale a non essere chiaro. Non dare soldi indistintamente a tutti è giusto, ma non si può tagliare a tutti. Lo stesso vale per i concorsi. Il punto che non viene chiarito è: chi comanda e chi controlla. Su questo nessuna indicazione. Anche sulle Fondazioni, che penso possano essere una soluzione".


Lei conosce l'obiezione: quale industria investirà mai sulla filosofia, ammesso che le industrie investano davvero nell'università?

"Intanto non bisogna mai dimenticare che grandi manager sono laureati in filosofia. Intendo dire che l'impresa deve essere lungimirante, e spesso non lo è. Allora è l'università che, nell'interesse degli studenti, deve darsi una struttura per garantire quegli investimenti. Invece spesso troviamo corsi, proposte, intere facoltà o atenei che proliferano sganciati dal mercato. Anche grazie ai politici. E non dimentichiamo che una parte della proliferazione l'ha autorizzata il ministro Moratti. Insomma: mettere ordine e investire. Ma mettere ordine significa scegliere e dunque tagliare, e le proteste non sarebbero certo minori".