INTERVISTA A CESARE MORENO.

La pedana che non c'è più.

 DocentINclasse, da "Una città" domenica 2.3.2008

 

L’errore di pensare che all’insegnante spetti l’apprendimento, al genitore l’educazione. Il valore dell’autorità, dell’assunzione di responsabilità, delle “prove” d’esame, finanche delle punizioni. La vergogna dell’indennità di rischio. Educare alla cittadinanza ricostruendo un tessuto comunitario. Intervista a Cesare Moreno.

Cesare Moreno, del Coordinamento Sezione Associata Sperimentale per il recupero della Dispersione Scolastica Chance, è presidente dell’associazione Maestri di Strada Onlus. Vive a Napoli.


In questo periodo stai riflettendo sul tema dell’educazione. Puoi parlarne?

Nell’ambito del progetto Chance insistiamo molto sull’educazione. D’altra parte non siamo i soli, chi si occupa di formazione professionale insiste sempre molto sul fatto che bisogna formare prima l’uomo, poi il cittadino e poi il lavoratore. Alla fine quello che conta sono sicuramente le competenze specifiche, ma ancor di più che tipo di persona e di cittadino sei. Questo noi l’abbiamo imparato anche a nostre spese perché abbiamo visto che ragazzi abbastanza formati sotto il profilo tecnico talvolta restano inaffidabili sotto il profilo personale. Quindi non partiamo da un problema ideologico, ma estremamente pratico. Infatti, nel giro di un anno in genere riusciamo abbastanza a recuperare delle difficoltà relative alle nozioni e anche alle competenze pratiche, ma abbiamo difficoltà a recuperare sul piano del comportamento. Questo ci ha costretto a fare una riflessione su che cos’è l’educazione.
Allora, intanto noi sappiamo che esiste una figura professionale che si chiama “educatore”, che purtroppo è tradizionalmente associato a strutture totali, quindi collegi, carceri… Noi oggi abbiamo più la figura dell’educatore nel territorio. A noi piace chiamarlo “educatore” perché è il termine giusto, però ho visto che a Bologna lo chiamano “accompagnatore sociale” che è ugualmente giusto perché l’educatore in fondo è soprattutto una persona che accompagna i giovani nei processi di sviluppo, non è uno che educa l’altro. Io sostengo sempre che il verbo educare si può coniugare solo nella forma riflessiva dell’educarsi. So però che questa è anche una foglia di fico su un termine che non piace, perché il fascismo parlava di “educazione nazionale”, perché, come dicevo, l’educatore è nelle carceri e nei collegi. Poi però si fa un gran parlare di figure di educatori, quindi a posteriori a qualcuno l’attributo si dà. Certamente in ambiente cattolico ci sono i vari “don” che hanno questa qualifica; in ambito laico c’è Baden Powell (io non sono particolarmente appassionato del personaggio) o un signore come Makarenko…
Insomma, sembra che questa sia un’attività necessaria per chi sta “fuori linea”, abbandonato, ecc. Le definizioni di educatore spesso mutuano alcuni concetti dall’ambiente anglosassone (empowerment, coping, ecc.) ma tutte mettono in luce il fatto che non basta che tu sappia come e quando si fa una cosa, è necessario un processo di attivazione delle proprie risorse. Ecco allora che per noi il processo educativo è, in primo luogo, prendere coscienza delle proprie risorse. Questa pare una banalità, ma in real?tà uno dei problemi principali coi nostri ragazzi è che non sono sufficientemente consapevoli delle proprie possibilità e non sono neppure sicuri delle piccole conquiste che comunque fanno a scuola. La vera sfida poi è imparare ad attivare queste abilità al momento giusto. Tra le cose più importanti c’è la capacità di fronteggiare le frustrazioni. Perché i nostri ragazzi sono inaffidabili? Perché alla prima difficoltà si fermano, non hanno la forza di riattivarsi. Se fanno un’esperienza frustrante, chiudono completamente con la possibilità di muoversi in quel settore. E reagiscono in modo aggressivo, scomposto, ecc., le caratteristiche del tipico personaggio avventato, irascibile, inaffidabile e che tende a risolvere ogni contraddizione con la violenza. Molti degli elementi della personalità autoritaria nascono qui. Etnocentrismo, sessismo, ecc., sono tutte forme di aggressività preventiva nei confronti di ciò che non si riesce a gestire e a tenere sotto controllo, perché in realtà non si ha sotto controllo se stessi.
Quindi educazione per noi significa far sì che il ragazzo acquisisca la consapevolezza delle proprie risorse e la capacità di gestire le frustrazioni e le avversità. Insomma, questo è un discorso molto pratico: se io ho i mezzi per affrontare le cose in modo costruttivo agisco appunto in modo costruttivo, sennò lo faccio in modo distruttivo, fine. Per noi educazione significa questo: avere i mezzi per tirarsi fuori dallo stato di cose esistente.
Io poi insisto sempre su una cosa: l’educazione è per sé, non è per la nazione, per l’industria, per i valori laici o cattolici.


Tradizionalmente l’educazione è sempre stata appannaggio delle famiglie e l’istruzione della scuola…

Sì, con un patto educativo in cui si dice: il bambino che arriva a scuola è già “educato”. Di qui il voto di condotta, ecc. Cioè è come se la famiglia dovesse garantire le condizioni di apprendimento. Quando questo patto viene meno, perché le famiglie non condividono le esperienze fondanti dei modi di vita della piccola e media borghesia (intendiamoci, non parlo di valori) e quindi non ha i libri a casa, non parla bene, i rapporti tra le persone non sono regolati dal dialogo, ma dalle botte, dal sessismo, dalla prepotenza, oppure le condizioni materiali sono molto degradate, cosa succede? Che mancano le condizioni per l’apprendimento. Allora, uno dei motivi per cui noi dobbiamo fare attività educativa è perché dobbiamo ricostituire le suddette condizioni. A volte addirittura le condizioni per la parola. Senza parola l’insegnamento non può accadere. Quando i tuoi ragazzi ti dicono “Chiur’u cesso”, cioè che dalla tua bocca non può uscire altro che merda tu come fai a insegnare?
Allora, di nuovo, il nostro lavoro è di creare le condizioni per un minimo di ascolto e poi perché le delusioni, le difficoltà, siano affrontate in un modo positivo.
Per noi insomma l’attività educativa è funzionale all’istruzione. Dopodiché il giovane deve fare il suo percorso per diventare cittadino attivo. Ma io sono un cittadino sovrano, se sono soprattutto sovrano dei miei pensieri, della mia organizzazione mentale, se sono padrone di tutte le mie risorse e capace di attivarle. In questo senso l’attività educativa è la premessa, ma anche il fine dello studio. E’ come la cittadinanza. La cittadinanza si apprende attraverso la cittadinanza, è un mezzo, ma anche la meta e quindi si realizza solo attraverso se stessa. Così è l’educazione.


Tu sostieni che in nome della lotta all’autoritarismo sono andate perse anche cose importanti…

La scuola si è mai occupata esplicitamente di come è fatta la sua organizzazione sociale? Se n’è occupata sempre in modo implicito e su cose apparentemente secondarie: prima avevamo la cattedra su una pedana poi la pedana è stata eliminata. Perché? Chi l’aveva messa aveva un’idea e chi l’ha tolta ne aveva evidentemente un’altra. Ne abbiamo parlato in termini che andassero oltre la lotta all’autoritarismo? Abbiamo tolto questa posizione sopraelevata. E’ stato giusto, è stato sbagliato? E da che cosa è stata sostituita questa autorità “altolocata”? E’ stata sostituita da un’autorevolezza “bassolocata” o è stata eliminata e basta?
Se si esamina l’organizzazione scolastica sotto questo profilo si scopre che parecchie cose che prima avevano un significato, proprio in relazione al tema dell’educazione, sono andate perdute. S’è perso il ruolo d’autorità dei docenti, il significato delle regole, delle cosiddette “punizioni”, degli esami, delle interrogazioni. C’è stato, cioè, un processo di degrado della qualità sociopoietica, “sociativa” della scuola, cioè della capacità di generare legami sociali. E’ come se la scuola a un certo punto si fosse adeguata all’immagine stereotipata che le avevano dato. Compresi noi che abbiamo fatto il 68. Si diceva che la scuola era un luogo “irreale”. Non era vero, non del tutto almeno. Purtroppo invece oggi è proprio così. Nel 68, quando lo dicevamo, avevamo torto, il problema è che chi ha gestito la scuola ha fatto in modo che la nostra profezia si autoavverasse. Veramente oggi la scuola rischia di essere un posto in cui il mondo reale non entra. Ma soprattutto hanno perso di significato le relazioni: quella tra insegnante e alunno, ma anche quella tra alunni. Poi hanno perso di significato le cerimonie, la scansione del tempo, gli esami, le prove, la relazione con le famiglie, la promozione da un anno all’altro… La scuola è diventata una melassa indistinta in cui niente ha più significato e questo è gravissimo.


Che ne è stato dell’autorità?

Che tutti quelli che insegnano si cacano sotto all’idea di esercitarla. Perché l’autorità è una funzione di responsabilità. Intanto la parola autorità viene da augere, cioè accrescere, aumentare…
Quindi parliamo di una persona che si assume il ruolo e il compito di far crescere una comunità. Tutto questo comporta fatica, stress, responsabilità, obbligazioni. La cosa più tragica è che si crede di poter insegnare senza contrarre un’obbligazione. Ma se io concepisco l’insegnamento come mera erogazione di tempo-lavoro, basta, è finita, non c’è più niente. Perché quando si fa educazione, istruzione ci si assumono degli impegni. Quando gli educatori si definiscono “accompagnatori sociali”, capisci bene che è una cosa molto impegnativa.
Si è lasciato che il lavoro docente fosse ridotto al lavoro salariato. Con effetti perversi. Questa è una cosa che mi fa imbufalire: tu devi elevare il salario alla tua professione. Non calare la professione al livello del salario. Davvero, non è possibile che tutti i sindacati e sindacatini che sono nati siano accomunati da questo: una centralità delle variabili base, salario e tempo-lavoro, che non c’è dubbio che sono centrali, ma se diventano esclusive e la professionalità sparisce, beh…
Voglio chiedere: c’è un sindacato che si sia occupato seriamente del problema della dispersione scolastica? Sono riusciti a ridurre anche la dispersione a un problema monetario: le zone a rischio. Guarda che è incredibile: hanno istituito all’interno della scuola una cosa schifosa. Quello che era stato abolito dalle cokerie dell’Italsider, cioè che non si monetizzava il rischio, questi l’hanno portato nientemeno che nella scuola. Possibile che siano riusciti a inventarsi le “zone a rischio”!? Che poi a qualcuno risulta che questa indennità abbia mutato dello zero uno per mille i dati di dispersione nelle zone in cui è stata istituita? Questa cosa per me è proprio razzista, fascista. Cioè tu mi dai dei soldi perché io sto a contatto con ragazzi che vengono definiti “a rischio”?!
Non a caso da noi se nomini la parola “a rischio” ti menano! E questo istituto non si sa né chi, né quando, né perché sia stato tirato fuori. E nessuno ha protestato su questa vergogna.
Per dire Chance fa l’operazione opposta. Noi abbiamo una professionalità complessa, non possiamo fare solo istruzione, dobbiamo anche accompagnare questi ragazzi e ci piacerebbe che su questo ci deste dei soldi… E non a caso noi non siamo inseriti nelle zone a rischio.
La nota più triste è che questa riduzione del nostro mestiere a salario e tempo-lavoro incide negativamente anche sull’immagine che tanti insegnanti (invece bravi) hanno di se stessi. Le organizzazioni professionali hanno lavorato male da questo punto di vista. Mi fermo qui, mi sembra di aver detto quello che volevo dire.


Alcuni insegnanti hanno l’impressione che oggi siano gli stessi studenti a esprimere, casomai in modo contraddittorio, il bisogno di autorità, regole, disciplina. Cosa ne pensi?

E’ sicuro. I ragazzi hanno bisogno di avere un riferimento, una persona solida in grado di guidarli in un processo. Intendiamoci, non è che i ragazzi sentano il bisogno di essere repressi o maltrattati, brutalizzati da una persona autoritaria, però vorrebbero avere a che fare con una persona viva, che sappia decidere, che si sappia muovere, eccetera.
Probabilmente nel momento in cui si imbattono in una figura di questo tipo si ribellano, perché gli rompe le scatole, ma ben venga, ci deve essere un confronto. Il problema è che oggi un adulto, un professore non solo non è oggetto di confronto, ma non è neanche un interlocutore. Questo è molto grave, soprattutto perché al ragazzo rimanda indietro un messaggio molto degradante di se stesso. A questo non si pensa mai, e invece è un meccanismo pericolosissimo. Cioè se tu ti trovi sistematicamente che coloro che si devono occupare di te sono persone di scarsissimo valore, l’unica conseguenza che ne trai è: “Io valgo pochissimo”. Il sillogismo è semplice: se lo Stato, mia madre, mio padre, eccetera, non sono in grado o non vogliono mettermi vicino una persona che valga è perché io non valgo.
Certo, in realtà è l’adulto che non vale, ma il messaggio che riceve il ragazzo è micidiale. Questo per dire che l’adulto che non sa fare l’uomo fa anche dei danni.
Allora una delle questioni decisive nella relazione giovane-adulto è appunto la funzione di autorità, ruolo che però molti resistono ad esercitare. Questo, tra l’altro, apre il campo a varie riflessioni. Recentemente, quando mi è capitato di dire a qualche nostro educatore: “Voi avete difficoltà a lavorare con il giovane perché avete ancora dei conti in sospeso con l’autorità”, non a caso gli educatori hanno capito che avevano dei conti in sospeso nel senso che c’era ancora qualche autorità da abbattere. Viceversa il conto in sospeso con l’autorità è sempre il conto in sospeso con se stessi, cioè con il fatto che uno non è disponibile ad esercitare l’autorità, perché al proprio interno non si è stabilita un’adeguata autorità. E’ molto più facile organizzarsi per contestare l’autorità altrui, che non organizzarsi per avere una autorità interna.
Ora, la prima considerazione da fare è che ci sono troppi adulti che rifuggono dall’esercitare l’autorità. Perché? Perché questa poi diventa responsabilità, ovvero rispondere di… Assistiamo ormai quotidianamente a un continuo defilarsi da una posizione di autorità. Prevale una specie di dubbio, che però non è quello sistematico del ricercatore, bensì una forma di incertezza che alimenta una paralisi. Una forma di titubanza che non è il preludio all’azione, ma all’inazione permanente… Ma di nuovo, io non voglio esercitare l’autorità, cioè non voglio assumermi delle responsabilità perché in realtà non rispondo neppure molto bene di me stesso, figuriamoci se posso rispondere per terzi.
Pochi sono disposti a pagare il costo della responsabilità. Questo dipende anche dall’isolamento dell’individuo. La vera autorità deriva dalla condivisione, dalla comunità. Oggi abbiamo paura di esercitare qualsiasi autorità perché non c’è la comunità, e quindi ci si sente soli e in qualche modo privi di controlli, ovvero privi di quella relazione in grado di stabilire se quello che faccio è dannoso oppure no.
Per me, evidentemente, l’autorità va concepita come una forma di “servizio”, niente a che vedere col superuomo.
Dirò di più. L’assunzione di responsabilità verso il mondo oggi è la nuova dimensione della coscienza. Se Gesù Cristo tornasse in terra non potrebbe più dire: “Perdona loro perché non sanno ciò che fanno”, dovrebbe invece dire: “Dagli il triplo della pena perché non sanno ciò che fanno…”. Cioè, non è più consentito non sapere ciò che facciamo, fare finta che noi non siamo responsabili del disastro.
Oggi per le strade di Napoli, quello che si vede è una gigantesca operazione di rimozione e di deresponsabilizzazione: i cumuli di mondezza per strada non sono responsabilità di nessuno. Beninteso, da un certo punto di vista siamo d’accordo, è vero, è colpa di Bassolino, della Jervolino, e di tutti quanti gli altri, però all’origine di questa responsabilità ci sono io, sono io che produco tonnellate di immondizia, sono io che le porto da qualche parte e sono io che dico che l’unica strategia per convincere le autorità a fare il loro dovere è quello di riempirmi di merda o di veleno. Ma come? Cioè, noi non siamo responsabili neppure delle nostre cacate? Insomma, questa cosa dell’immondizia è proprio il monumento dell’irresponsabilità, del rifiuto dell’autorità, che è anche il rifiuto di rendersi responsabile nei confronti degli altri.


Esercitare l’autorità però in effetti fa paura. Si può sbagliare…

Io non ho nessuno scrupolo ad esercitare quel poco di autorità che posso esercitare. Anche se sbaglio. Sono convinto che i miei errori siano istruttivi per gli altri, che il combattere i miei errori sia istruttivo. E d’altra parte non è compito mio quello di combattere i miei errori, è compito degli altri. Sono gli altri che devono correggermi o, comunque, fare in modo che i miei errori non ricadano su di loro… Cioè, non è che posso fare tutto io. Che ognuno faccia la sua parte.


Prima hai parlato dell’importanza degli esami e delle prove…

Intanto voglio dire che trovo di un diseducativo pazzesco pensare di poter eliminare le difficoltà. Prendiamo la valutazione (io addirittura parlerei di “diritto alla valutazione”), noi ci teniamo molto a che gli esami vengano fatti e che vengano fatti bene, perché rappresentano comunque una conferma (o una smentita) delle proprie capacità. Quando al giovane si nega l’esame, gli si nega la possibilità di verificare le proprie forze. Si dirà: “Eh, ma poi ci sono quelli che si suicidano perché non hanno passato l’esame”. Va bene, stiamo attenti a come facciamo le cose, però non è che vanno eliminati gli esami, o che vanno eliminati gli ostacoli. Insomma le frustrazioni ci devono essere. Tu adulto devi aiutare il giovane a superarle, non a eliminarle.
Purtroppo oggi qualsiasi situazione di valutazione è tenuta alla larga, non si boccia nemmeno più. E’ un disastro perché la “prova” è un passaggio fondamentale. E non parlo solo di esami, può essere una passeggiata in montagna, ma anche la traversata Napoli-Palermo in barca a vela, situazioni che si avvicinano molto all’esperienza della prova.
Nel nostro progetto facciamo anche il campo scuola, in cui il giovane dovrebbe provare appunto a gestirsi la vita da solo, ad affrontare le difficoltà senza poter contare sulla famiglia, sull’amico, sul telefonino (l’ideale è se il campo scuola si fa in tenda e in una zona senza campo telefonico).
Forse per temprare il carattere bisogna proprio affrontare delle prove fisiche, a basso livello di tecnologia e a basso livello di ausili di altro genere. Intendiamoci, non sono affatto sicuro che quello che sto pensando sia giusto, quello di cui sono convinto è che non vedo una riflessione collettiva su queste cose. Può darsi che io sbagli su tutta la linea, e che invece delle prove di ardimento fisico si debbano fare delle esercitazioni di calligrafia… il punto è che non ci si sta affatto misurando con il problema.
Collateralmente a questo, noi facciamo una battaglia quotidiana affinché le cose siano fatte bene. Anche questo significa disciplina, su questo non c’è dubbio. All’interno del nostro progetto noi proprio ci teniamo molto all’accuratezza delle cose. Qualsiasi cosa tu debba fare è una sfida che richiede impegno, attenzione e estrema accuratezza. Il concetto che le cose vanno fatte bene non è affatto marginale. Da questo punto di vista sono d’accordo con chi enfatizza l’importanza di mettere le doppie, le acca al posto giusto. Anche questo è educativo se mi comporta uno sforzo di attenzione, se mi costringe a essere presente a me stesso. Ecco, essere presenti a se stessi è l’ennesima grande battaglia: i nostri ragazzi infatti il più delle volte si comportano come se fossero agiti da forze esterne, per cui per loro è molto, molto difficile -una vera sfida- essere presenti a se stessi. Se vogliamo, anche il bullismo, le piccole prepotenze, i riti d’iniziazione, ci sono sempre stati. Un ragazzo che cresce deve saggiare fino a che punto la mente lo sostiene, fino a che punto lo sostiene il cuore e anche le relazioni. Nello scambio di piccole sopraffazioni c’è anche una sana tendenza a misurarsi: vediamo fin dove posso andare. Non solo, ma la scuola o le varie attività socio-educative possono offrire tutta una serie di occasioni per misurarsi, per competere anche. Se tu invece tutto questo lo elimini e non ci sono luoghi “sani” di competizione, confronto, messa alla prova di chi sei e di cosa sai fare, cosa succede? Che tutto diventa appannaggio di un’autorganizzazione e l’unica autorganizzazione possibile è quella per bande, che è intrinsecamente fascista e persecutoria, cioè esiste in quanto perseguita uno. Allora, se uno volesse davvero combattere il bullismo, dovrebbe fare a meno di stigmatizzare il fenomeno come moralmente abietto eccetera, e capire anche le ragioni “positive” che ci sono dietro. Cioè picchiarsi un pochino fa bene. Quello che non fa bene è quando in dieci si organizzano per picchiare tutti i giorni la stessa persona. Di nuovo, noi le curiamo queste cose? Oramai abbiamo inibito tutte le forme sane in cui un ragazzino può porsi la domanda fondamentale: “Fino a dove posso spingermi?”. Con conseguenze nefaste, perché il rifiuto della competizione e del merito è diventata l’arma dei cialtroni. In questo senso il bullismo è un altro prodotto della deresponsabilizzazione che si diceva.


Secondo te i giovani hanno anche “diritto alla punizione”…

Prendiamo il famoso episodio della professoressa di Palermo. Allora, a mio avviso, la cosiddetta punizione, vista correttamente, è una riparazione rispetto a una rottura nella relazione. Cioè, se io faccio uno sgarbo di un qualche tipo, questa cosa deve essere recuperata. Se un ragazzino picchia la sorella e viene pertanto messo in castigo noi tendiamo a vedere l’aspetto negativo, quasi vendicativo: tu hai fatto male alla sorellina, io faccio male a te. Ma non c’è solo questo. Il vero senso della punizione sta altrove: se tu hai rovinato la relazione con tua sorella, c’è bisogno di rimediare e per farlo tu devi pagare un prezzo per quello che hai fatto. E quindi alla fine cosa sta succedendo? Che io ti sto offrendo la possibilità di riparare a un danno fatto. Ecco, in questo senso dico che i ragazzini hanno diritto alla punizione, perché la punizione consente di ripristinare, di azzerare il torto commesso, di ricominciare insomma, mettendo fine a uno stato di disagio…


Ci sono dei requisiti per poter esercitare l’autorità?

E’ un discorso complesso, ma direi che la persona che sa esercitare autorità è quella che è stata capace di gestire le proprie emozioni. Tipicamente nelle nostre religioni monoteiste è l’uomo che ha affrontato il deserto, che ha dovuto fare i conti con se stesso, con la fame, con la sete, con il sole, con le allucinazioni. E’ l’uomo che in un certo senso si è ritrovato dopo essersi perso. Infatti le persone più autorevoli sono quelle che sono passate attraverso l’esperienza della perdita e dell’essersi ritrovati…
Torniamo al discorso di prima. Se un giovane è vissuto senza dover affrontare alcuna difficoltà, senza confrontarsi con la contraddizione, con l’altro, non avrà nessun governo di sé e tanto meno potrà pensare di governare gli altri…
D’altra parte il carattere come si forma? Si forma affrontando prove fisiche, psichiche. Pensiamo ai vichinghi, o in tempi più recenti, agli svedesi, ai danesi, piccoli popoli che hanno dovuto sopravvivere in condizioni naturali avverse, ma che poi, temprati da queste prove, sono partiti alla conquista del mondo…


Alcuni brutti episodi fanno pensare che sia finita anche l’alleanza scuola-genitori…

Purtroppo il genitore incapace di fare l’educatore, che casomai si occupa poco e male dei figli, non appena la scuola in qualche modo stringe i freni, si ribella perché la vive come una critica dei suoi metodi educativi. Allora, l’assunzione di responsabilità da parte della scuola chiama direttamente in causa la sua assenza di responsabilità. Così, la difesa d’ufficio del figlio spesso in realtà è una difesa d’ufficio di sé come genitore.
Questo è quello che si verifica sistematicamente. Perché succede questo? Perché, se vogliamo allargare lo sguardo, dobbiamo pure dire che il comportamento incivile degli adulti dilaga. Chiedo: una forma di cialtroneria diffusa (perché è questo il termine giusto), oggi in Italia c’è o non c’è? Io dico che c’è. Siamo in una situazione in cui il mondo adulto non è che dà il cattivo esempio, non è l’immagine che è turbata, è proprio la realtà che è turbata. Cioè non è che noi abbiamo degli esempi negativi, noi abbiamo delle pratiche quotidiane che sono degradate, sotto tutti i profili.
Mi dispiace essere così brusco, ma troppi adulti non sono più educatori, non si assumono la responsabilità, perché non sono cresciuti e quindi le cose non funzionano. E non sto facendo un discorso general generico. Prendiamo i dati: il numero delle persone che non cresce, che non diventa adulto, che non riesce a svoltare è troppo grande. Quando tu hai il 40% dei ragazzi degli studi professionali che abbandonano al primo anno… Nella popolazione complessiva saranno il 15%, ma sono comunque centinaia di migliaia.
Il fatto è che la scuola come la conosciamo oggi è nata per dare continuità all’esistenza di alcune classi sociali che facevano della cultura depositata nei libri sia lo strumento per esercitare una professione o un lavoro sia la cornice generale della propria vita: tra le classi sociali e la scuola c’era un allineamento astrale favorevole. Tutti gli sforzi per trasformare una scuola che non era nata per tutti in una scuola per tutti sono sostanzialmente falliti. Singoli individui, anche numerosi, possono migliorare la propria condizione attraverso la scuola, ma per interi strati sociali la scuola non rappresenta uno strumento di crescita o ascesa sociale.
Quando nuove masse accedono a un livello di istruzione abbiamo un doppio effetto di rigetto: la scuola espelle un numero crescente di allievi, un numero crescente di allievi contribuisce a dequalificare la scuola investita da questa nuova ondata sociale. E’ saltata quella che noi chiamiamo “alleanza pedagogica” ossia una condivisione dei fini dell’istruzione, ed è saltata quindi la base perché i giovani si sentano sostenuti nella fatica dell’istruzione. E’ saltata più in generale la fiducia nelle persone adulte che hanno deluso e deludono i giovani fuori della scuola e nella scuola per l’incapacità di assumersi responsabilità e svolgere un ruolo adulto. Genitori che si occupano poco e male dei figli, che si sentono in colpa per non essere buoni genitori, raggiungono il proprio quarto d’ora di gloria quando possono scatenarsi contro un docente o una scuola che secondo loro ha maltrattato il figlio. La scuola per parte sua fa il grosso errore di pensare che il suo mandato venga dallo Stato: il mandato viene dalle famiglie, che a scuola non dovrebbero mai essere trattate come ospiti, ma considerate padrone. Noi docenti ed educatori dobbiamo essere capaci di dire dei no forti e chiari a questi committenti nello stesso momento in cui riconosciamo che sono comprimari del processo educativo; ma ancora di più dobbiamo capire che oggi è sempre più necessario aiutare i genitori a fare il loro mestiere. Docenti ed educatori stanno a contatto con i ragazzi più dei loro genitori e hanno la responsabilità di aiutare questi a capire i figli ed il compito educativo.
Come sai noi abbiamo “inventato” la figura del “genitore sociale” che collabora con noi nel lavoro educativo ed è una presenza rassicurante per tutti, in quanto non è il rappresentante para-sindacale e conflittuale del parlamentino dei genitori, che ambisce a dirigere la scuola, ma rappresenta la genitorialità nella sua funzione primaria di accoglienza e mediazione in un contesto in cui il giovane per molti versi si sente inadeguato.
Quando venivo al nord e parlavo di questa iniziativa si spaventavano, pensavano che fosse quasi una critica alle istituzioni che non sarebbero state in grado di assicurare un buon servizio se erano costrette a ricorrere a questa figura “non professionale”. Ora le richieste di formazione per genitori sociali si stanno moltiplicando anche in Emilia Romagna, forse si sta capendo che ci sono cose che non si possono fare solo tirando fuori i soldi. Noi abbiamo una ricchezza immensa che qualcuno comincia a chiamare “capitale sociale”, che consiste nelle persone che in un modo o nell’altro continuano a coltivare i legami e l’amicizia, e tra queste persone le donne occupano il primo e più importante posto. Quando si mette in funzione un servizio che coinvolge le persone e le relazioni bisognerebbe sempre appoggiarsi a questo capitale che viene rigenerato proprio dalla relazione con le istituzioni che curano lo sviluppo sociale. Viceversa la prima preoccupazione di molti servizi è di metter fuori della porta ogni riferimento ai legami locali: cosicché molte iniziative sociali in realtà sono asociali nel senso che pretendono di distruggere o occultare i legami invece di sostenerli. Un asilo nido non è solo un servizio alla donna che lavora, ma un servizio sociale perché potrebbe “deprivatizzare” le pratiche di allevamento, potrebbe contribuire allo sviluppo di una attività di cura che sia meno violenta, meno intrusiva, meno incosciente dei bisogni dei bambini. Secondo me si tratta di cose elementari di palmare evidenza, tuttavia ci sono molte ideologie che impediscono di vedere questa elementare verità: spesso le autorità e noi stessi ce ne accorgiamo troppo tardi, quando il venir meno di questi tessuti solidali genera veri e propri mostri e porta il crimine più efferato nei luoghi apparentemente più tranquilli. Il voyeurismo televisivo su Cogne, su Erba, su Erika ed Omar e tanti altri delitti della provincia viene alimentato dalla oscura consapevolezza che, in assenza di legami e relazioni responsabili, tutto diventa possibile. Io dico che è ancora vera la storia del Minotauro: nel cuore delle città c’è nascosto un mostro mezza bestia e mezzo uomo, sta in fondo a un labirinto ma viene tenuto in vita dal potere e ogni anno sette giovanetti e sette giovanette gli sono sacrificate. Ogni anno una certa quantità di persone viene agita da questa bestialità e diventa un mostro che uccide. Come nella favola antica il rimedio non viene dal potere o dagli ingegneri, ma dai legami d’amore che consentono di ritrovare la strada dell’umanità. La nostra politica sarà mai capace di capire tutto questo, sarà mai capace di uscire dalle cittadelle del potere per confrontarsi veramente con la polis? Sarà molto difficile; se vogliamo ricostituire energie sociali perdute, se vogliamo ricostruire le basi della convivenza bisogna lavorare a far crescere i giovani come cittadini e ricostituire con loro una nuova e più larga cittadinanza.

UNA CITTÀ n. 153/ febbraio 2008