I nuovi tecnici e professionali:
verso divergenze parallele?
di Maurizio Tiriticco, 23.3.2008.
Per una
ricomposizione delle conoscenze
Il documento con cui si
traccia il rilancio dell'istruzione tecnica e professionale
intitolato Persona, tecnologie e professionalità,
recentemente prodotto dalla Commissione ministeriale ad hoc, è
indubbiamente interessante e, per certi versi, nuovo nel suo
impianto e nelle sue argomentazioni. In effetti, la prospettiva di
promuovere un'istruzione tecnica di tutto rispetto, assolutamente
riscattata dal suo vizio di origine gentiliano, per cui tutto ciò
che non è classico e letterario sarebbe sempre un qualcosa di
secondo livello, è assolutamente necessaria. L'evoluzione dei saperi
nelle società avanzate ci ha ormai confermato da tempo che sul piano
della ricerca e dello sviluppo delle conoscenze non ci sono
gerarchie di sorta. Le ricadute di tale assunto sui processi
educativi sono altrettanto importanti e determinanti, per cui è
assolutamente necessario che tutti i percorsi dell'istruzione
postobbligatoria vengano riordinati e vengano cancellate per sempre
gerarchie che non hanno più ragion d'essere.
Nel nostro Paese il cammino in tale direzione ha preso l'avvio. Ne
sono testimonianza recenti documenti. Nelle Indicazioni per il
curricolo per la scuola dell'infanzia e per il primo ciclo di
istruzione, il capitolo intitolato Per un nuovo umanesimo
sottolinea come sia decisiva ai fini di un rinnovamento complessivo
dell'intero Sistema educativo "una nuova alleanza tra scienza,
storia, discipline umanistiche, arti e tecnologia, in grado di
delineare la prospettiva di un nuovo umanesimo". Il Ministro Fioroni
ci ricorda nella sua nota del primo settembre 2007 che "la
dimensione educativa del nuovo obbligo di istruzione intende fornire
ai giovani gli strumenti per l'acquisizione dei saperi e delle
competenze indispensabili per il pieno sviluppo della persona in
tutte le sue dimensioni e per l'esercizio effettivo dei diritti di
cittadinanza": saperi, competenze e diritti che - ricordiamolo - per
la prima volta nella nostra storia di europei - sono comuni a tutti
i giovani dell'Unione europea. Ed ancora, la questione di
un'educazione diffusa e ad ampia valenza culturale costituisce una
assoluta centralità sia nelle Linee guida per la riorganizzazione
del Sistema di istruzione e formazione tecnica superiore e la
costituzione degli Istituti tecnici superiori che nei recenti
provvedimenti relativi alla istituzione dei Poli tecnici superiori e
al riconoscimento della piena autonomia dei centri provinciali per
l'istruzione degli adulti.
E evidente che stiamo operando una importante trasformazione: stiamo
lentamente ma decisamente passando da un Sistema scolastico,
tipico di una società in cui la scuola è intesa ed esercitata come
un servizio pressoché riservato ai bambini e agli adolescenti, ad un
vero e proprio Sistema educativo nazionale di istruzione e
formazione, ed in dimensione europea, aperto a tutti e per la
loro intera vita, con una assoluta continuità tra istruzione di
base, istruzione secondaria, istruzione superiore, formazione
professionale, percorsi universitari. E a tutti sarà reso un
servizio a tempo pieno e a spazio aperto non solo da parte delle
istituzioni scolastiche in senso stretto, opportunamente riordinate,
ma anche da parte delle istanze del territorio e dei settori
produttivi.
Il pasticcio
dell'istruzione tecnica "e" professionale "e" liceale
Le linee di tendenza che
abbiamo riassunte costituiscono un'assoluta novità nel campo
dell'educazione e stanno ad indicare percorsi di apprendimento che
dovranno essere profondamente connotati da una forte valenza
culturale. Qualunque sia il percorso postobbligatorio scelto dal
cittadino/persona che deve diventare anche lavoratore, la dimensione
cognitiva, ovviamente con tutte le differenziazioni che può assumere
nelle sue specifiche e molteplici variabili, deve avere un alto
spessore.
In effetti, tutti i percorsi postobbligatori sono anche
preprofessionalizzanti, di ampio spessore all'avvio, quindi sempre
più orientati verso specifici settori lavorativi, dalle qualifiche
professionali fino alle specializzazioni universitarie. Ed è
nell'arco di questa specificità che il nuovo umanesimo si deve
manifestare comunque e sempre, indipendentemente dalle mansioni che
il soggetto poi svolgerà. Se tale assunto è vero - e sono le linee
di tendenza che oggi si stanno sviluppando nella società della
conoscenza - non si comprendono le ragioni che hanno condotto la
Commissione che ha steso il documento Persona, tecnologie e
professionalità ad operare una netta distinzione tra
l'istruzione tecnica e l'istruzione professionale.
Ovviamente la responsabilità della Commissione è stata, per così
dire, limitata, stante il fatto che doveva rifarsi a un dettato di
cui alla legge 40/07. Tuttavia, sembra con le concrete scelte di
riordino adottate dalla Commissione, si corra il rischio di
confermare, e di riprodurre - forse al di là delle intenzioni di cui
al citato documento - i tre percorsi di sempre, quello
classico-umanistico, quello tecnico, con tutta l'enfasi che nel
documento lo connota, e quello professionale. Viene da pensare: non
è anche un percorso tecnico quello in cui si apprende a tradurre dal
greco all'italiano o a disquisire sul secondo canto del Paradiso o
dell'Io fichtiano? E non è anche un percorso tecnico quello che
conduce ad acquisire competenze nel campo della musica, della
pittura, delle arti plastiche? E non è forse scienza (dallo scio -is
dei latini) lo studio delle lingue, della letteratura, della
filosofia? Oppure, nonostante le belle dichiarazioni sul nuovo
umanesimo, sembra che per alcuni pesi ancora la riserva mentale per
cui scienza, tecnica e tecnologia sono cosa altra rispetto ad altre
attività di ricerca e produzione. E forse più attinenti alla
spiritualità che alla materialità?
Il fatto che si intenda rilanciare l'istruzione tecnica -
specialmente dopo il panlicealismo della Moratti e dopo gli esiti
dell'indagine Pisa - indubbiamente è più che corretto. Ma non emerge
anche un "caso" relativo all'istruzione umanistico-letteraria? Si
pensa forse che questo canale di studi sia immune dall'usura? Che
sia l'unico perfetto ed irriformabile? L'unico percorso di studi
"serio" e "severo" che non occorre riordinare? Assolutamente no! Il
nuovo umanesimo passa trasversalmente attraverso tutta la nostra
cultura, attraverso tutti i nostri percorsi di studio! Se non si
accetta questa tesi, viene da pensare che ci sia una istruzione
"altra" - quella su cui ancora non si è avanzata alcuna proposta -
quella dei nostri licei, che nulla avrebbe a che fare con
l'istruzione professionale, o meglio con un'istruzione che sia anche
professionalizzante o - se piace di più - preprofessionalizzante!
Il nodo gordiano del
Titolo V
Vi è, tuttavia, una
ragione specifica per cui l'attenzione è oggi concentrata più
sull'istruzione tecnica e professionale che su quella
umanistico-letteraria: la difficile attuazione del novellato Titolo
V della Costituzione repubblicana.
Facciamo un passo indietro. Nella Costituzione del '47 si affermava
all'articolo 115 che "le Regioni sono enti autonomi con propri
poteri e funzioni" E all'articolo 117 si affermava che, tra le
competenze regionali figura anche "l'istruzione artigiana e
professionale". Tale scelta fu determinata dal fatto che la Regione
è direttamente legata alle specificità del mondo del lavoro e può
meglio organizzare i percorsi in materia, appunto, di formazione
professionale. Va considerato, però, che le Regioni, fatta
esclusione di quelle a Statuto speciale, videro la luce solo negli
anni Settanta, per cui, nelle more di un avvio di una formazione
regionale, lo Stato ritenne opportuno intervenire a mo' di supplenza
e istituì quei corsi di istruzione professionale - per distinguerli
dalla formazione regionale - che furono poi organizzati e affidati
addirittura ad una Direzione generale ad hoc del Mpi.
Ora, con il novellato Titolo V (legge Cost. 3/01), nel quadro del
tanto atteso avvio della decentralizzazione dei poteri dallo Stato
alle Regioni, si è scelto di tornare alle origini e restituire per
intero alle Regioni tutti i percorsi direttamente
professionalizzanti. Si è stabilito che tra le materie di
legislazione concorrente figurasse "l'istruzione, salva l'autonomia
delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e
della formazione professionale". Stando alla lettera del nuovo
dettato costituzionale, un percorso di studi che sia finalizzato
all'esercizio di una professione di livello intermedio (le lauree
sono rilasciate dalle università) è di competenza regionale.
Ma una cosa è la norma, altra cosa sono i fatti. Ragionando con
estrema approssimazione, da un lato l'Istruzione professionale
statale temette di perdere ruolo e specificità; dall'altro le
Regioni, già impegnante nella formazione professionale di loro
competenza, temettero che lo Stato volesse caricarle di nuove
responsabilità senza contropartite di sorta. Ne è nata una
conflittualità - contrappuntata da numerose sentenze della Corta
costituzionale - della quale a tutt'oggi non sono affatto chiari gli
sbocchi. Con l'amministrazione Moratti si optò per una cancellazione
di tutta l'istruzione tecnica e professionale statale e si dette
vita ad otto percorsi liceali statali. Con l'attuale
amministrazione, invece, si è operata un'altra scelta: ridare forza
e prestigio all'intero asse dell'istruzione tecnica e professionale
connotandone una piena competenza statale. Ma si tratta di una
scelta convincente, sia sotto il profilo costituzionale che sotto
quello educativo, istruttivo e formativo?
Serie A e serie B per
i tecnici e i professionali!?
Sotto il profilo
costituzionale, la norma è completamente saltata! Lo Stato riprende
ciò che la Costituzione gli ha tolto! E questo perché? Perché si
ritiene che le Regioni non siano all'altezza di effettuare loro
stesse il rilancio di quell'istruzione tecnica di cui tutti
avvertiamo una assoluta necessità? Perché lo Stato teme di svendere
uno dei gioielli di famiglia di cui si è fatto sempre un gran vanto?
Ma allora perché si è giunti a riscrivere il Titolo V?
Così, mentre sotto il profilo del diritto costituzionale si ritiene
che le Regioni debbano gestire in prima persona tutta la partita
"della istruzione e della formazione professionale", nei fatti
invece si agisce in senso contrario! E con la legge 40/07 lo Stato
si è riappropriato in via definitiva (con gran dispetto delle
Regioni, ovviamente) dell'istruzione tecnica e dell'istruzione
professionale, con l'impegno di procedere ad un loro riassetto
educativo, culturale ed ordinamentale. Fin da allora fummo in molti
a nutrire forti dubbi sulla necessità di procedere ad un semplice
riordino di percorsi, molti dei quali, nel giro degli ultimi
decenni, erano diventati veri e propri doppioni. Infatti, nella
misura in cui i corsi dell'istruzione professionale, in seguito alla
riforma del '69, sono stati quinquennalizzati consentendo anche
l'accesso all'università, e con l'adozione dei Progetti '92 e 2002
hanno assunto uno spessore culturale per nulla inferiore ai corsi
dell'istruzione tecnica, si è reso sempre più difficile ritrovare
nette differenze tra corsi tecnici e corsi professionali. Forse
sarebbe stato più opportuno ripensare prioritariamente all'impianto
complessivo dell'intera istruzione secondaria con particolare
attenzione a tutti i curricoli postobbligatori.
Il documento presentato lo scorso 3 marzo dalla Commissione
ministeriale incaricata di tradurre in proposta operativa l'assunto
della legge 40 non poteva fare più di quello che ha fatto, stando
sia al mandato affidatole che allo stato in cui operano gli attuali
istituti tecnici e professionali. Gli spazi concessi alla
Commissione dalla legge erano molto stretti: restituire due
specifiche differenziazioni a due tipologie di istituti che nel
corso degli anni si sono venuti sempre più assimilando era impresa
difficile, se non impossibile. Ma la Commissione aveva un mandato
preciso ed è riuscita, comunque, a quadrare il cerchio. Due tocchi
da maestro! Un high tech e un high touch e il gioco è fatto! Anche
se all'insegna del più scoperto nominalismo!
Così apprendiamo che le differenze tra le due tipologie sono le
seguenti:
a) l'istruzione tecnica
è correlata alla innovazione e allo sviluppo delle tecnologie,
mentre quella professionale è correlata alla loro applicazione e
personalizzazione;
b) le variabili
discriminanti sono per la prima le tecnologie e le tecniche, per la
seconda i settori e i contesti produttivi;
c) i contenuti formativi
prevalenti nella prima sono di carattere tecnico-scientifico,
tecnico relazionale nella seconda; ed è qui la preziosa
illuminazione dell'high-tech e dell'hig touch;
d) nella prima tipologia
la complessità dominante è la tecnologia, nella seconda
l'applicazione.
Ovviamente nel documento
il discorso è molto più disteso e per certi versi anche suadente,
ma...
Ma non si corre il rischio di conferire all'istruzione tecnica una
valenza tutta teorica ed alla professionale una valenza tutta
pratica? E di riprodurre artificialmente - e per norma - proprio
quella differenziazione che, invece, è stata superata nel corso
degli ultimi anni? Da tempo la ricerca psicopedagogica insiste sulla
circolarità che corre costantemente tra mano e mente, tra fare e
sapere, tra tecnhe e theoria, e sulla necessità di superare la
dicotomia tra studi letterari e studi scientifici, proprio in forza
di questo riscoperto "nuovo umanesimo". Ma poi? Ci proponiamo di
riordinare un'istruzione tecnica, tutta ricerca tecnologica, ed una
istruzione professionale, tutta applicazione pratica?
Mah! Se andiamo a leggere le conclusioni dell'Indagine
conoscitiva sulle problematiche connesse alla riforma del secondo
ciclo del Sistema educativo nazionale di istruzione e di quello di
istruzione e formazione professionale, condotta recentemente
dalla VII Commissione cultura, scienza e istruzione della Camera dei
deputati, cogliamo passaggi interessanti. Vi si afferma testualmente
che nel modello gentiliano "la separazione tra 'sapere' e 'fare'
muoveva in larga parte dalla presa d'atto di una divisione in classi
della società italiana che, inevitabilmente, si ripercuoteva anche
sulla cultura generale ... Per il modello gentiliano, protrattosi
anche successivamente alla nascita della Repubblica italiana, non
era né realistica né utile una scuola che modificasse lo status quo
in senso inclusivo". Da allora le cose sono profondamente cambiate e
non è un caso che "il Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000
abbia conferito all'Unione europea un nuovo ambizioso obiettivo:
diventare entro il 2010 l'economia basata sulla conoscenza più
competitiva e dinamica del mondo...Non ha più senso parlare di
scuola 'teorica' e formazione 'pratica'; invece ha significato
assumere il meglio dagli strumenti didattici legati
all'apprendimento di quelle che si potrebbero definire 'conoscenze
sperimentali' e 'nozioni materiali'. L'obiettivo di fondo è
suscitare l'interesse dello studente - poco importa se in un liceo o
in un istituto tecnico o professionale - alla conoscenza attraverso
la dimostrazione della sua 'realtà' e non solo con l'apprendimento
teorico".
I possibili effetti
del riordino annunciato
Le ricadute
dell'annunciata "riforma" non saranno di poco conto. Sul piano
culturale ed educativo, sembra che non riusciamo liberarci dei tre
canali di sempre, quello privilegiato dei licei, quello tecnico a
tutto tondo, e quello professionale, essenzialmente finalizzato ad
un inserimento rapido nel mondo del lavoro. In ordine a questa terza
opzione, occorre tener conto del fatto che le Regioni non stanno con
le mani in mano e - a prescindere dal contenzioso a cui daranno vita
- attivano da tempo i loro percorsi di formazione professionale
mirati ad un obiettivo che è e sarà concorrenziale con quello
dell'istruzione professionale di Stato.
La schizofrenia con cui ci misuriamo da anni non solo non sarà
superata, ma si aggraverà. In altri termini, un giovane uscito
dall'obbligo di istruzione, se intende continuare nell'istruzione
ha, due scelte precise e diverse, i licei e i tecnici; se vuole
misurasi presto con il mondo del lavoro, ha, invece, due scelte
sovrapposte e concorrenziali, quella dello Stato e quella della
Regione. Perché dovrebbe optare per lo Stato, quando la Regione
offre percorsi più articolati, più flessibili, più incardinati nella
sperimentalità, nell'immediato saper fare, maggiormente legati al
mondo del lavoro? Ed ancora: perché dovrebbe optare per lo Stato dal
momento che, se a 17 anni volesse conseguire una prima qualifica,
l'istituto professionale non è in grado di rilasciargliela se non
con il concorso attivo della formazione professionale regionale?
Come se l'autonomia di cui gode l'istituzione scolastica statale
fosse limitata dall'istituzione regionale.
A questo punto va anche considerato il divario Nord-Sud. Nel Nord la
concorrenzialità tra il sistema professionale statale e quello
regionale sarà aspra. Nel Sud si può correre il rischio che una
moneta cattiva cacci quella buona! E bisogna anche pensare ai fondi
europei, che finanziano la formazione regionale e che per certi
versi ed in alcune situazioni la potranno rendere più appetibile
rispetto all'istruzione professionale. Comunque, nella citata
indagine svolta dalla VII Commissione della Camera, è puntualmente
descritta la variegata casistica delle tante formazioni
professionali regionali. Si può anche considerare l'ipotesi di
un'altra strada, quella di andare alla costruzione di percorsi
fortemente integrati, tra istruzione, formazione e realtà
produttive, con un alto tasso di continuità orizzontale.
Ma viene sempre da chiedersi: tutte queste implicazioni a chi
giovano? Risorse, danaro, energie saranno spese a sostenere percorsi
intercambiabili, ora ostili, ora concorrenti, ora interagenti, ora
integrati. Va anche considerato che le Regioni attendono che lo
Stato entro il mese di settembre 2009 definisca le norme generali
sull'istruzione e i principi fondamentali che sono di riferimento
per la legislazione concorrente in materia di istruzione nonché i
livelli essenziali delle prestazioni relativi all'istruzione e
formazione professionale di competenza esclusiva regionale. Si
tratta di una matassa di adempimenti resa ancora più intricata dalle
iniziative assunte dallo Stato, o meglio dal Mpi - anche se a
livello di proposta aperta - con il documento dello scorso 3 marzo
sull'istruzione tecnica e professionale.
In conclusione, il rischio è che l'istruzione professionale statale
venga a trovarsi come il classico vaso di coccio, perennemente
sballottato da un lato da un'istruzione tecnica effettivamente
riordinata e rafforzata, dall'altro da una formazione professionale
regionale ala ricerca di una sua identità, garantitale per altro dal
dispositivo del Titolo V. Tale situazione di precarietà si
aggraverebbe quando le Regioni avranno la piena legislazione
concorrente in materia di istruzione. Vale la pena ricordare che nel
Friuli Venezia Giulia è stato sottoscritto un protocollo "Illy-Prodi"
in forza del quale dal 2009 tutta l'amministrazione scolastica
passerebbe alla Regione e lo stesso Direttore generale dell'Ufficio
scolastico regionale sarebbe sostituito da un Dirigente regionale.
Si tratta di situazioni e di segnali che non lasciano affatto bene
sperare. E non si vuole affatto che il documento della Commissione
ministeriale, pur pregevole per il suo spessore culturale e per le
soluzioni che propone, non costituisca, a fronte delle prossime
scadenze legislative, nazionali e regionali, un limite invece che
un'opportunità.
PS - Ho letto
qualche giorno fa su Il sole-24orei> e oggi su TuttoScuola focus
che l'amico Giorgio Allulli, pur essendo primo nella graduatoria
dalla quale il Mpi doveva scegliere i tre membri del nuovo Comitato
direttivo dell'Invalsi, non è stato affatto considerato, nonostante
i suoi meriti di esperto di problemi di valutazione, peraltro
pubblicamente noti al mondo della scuola. Sarebbe interessante
conoscere, ai fini della trasparenza, quali criteri siano stati
adottati per nominare tre membri dei quali nessuno sembra avere
particolari esperienze in un' area disciplinare che per un istituto
come l'Invalsi appare assolutamente prioritaria. Anche perché, in
materia di valutazione di sistema, nei prossimi anni - con tutti i
problemi aperti tra Stato e Regioni - avremo senz'altro un gran da
fare!
Roma, 17 marzo 2008
Maurizio Tiriticco