Globalizzazione e scuola. Francesco Giavazzi Il Corriere della Sera del 12.5.2008 Sempre più la globalizzazione spaventa e i cittadini premiano i partiti che promettono protezione dalla concorrenza internazionale: accade in Italia, ma accade anche nella campagna elettorale americana. Questi timori non sono ingiustificati: nascono dalla percezione che la globalizzazione abbia accentuato le diseguaglianze sociali e stia cancellando la classe media. Il nostro futuro, e soprattutto quello dei nostri figli, dipende in gran parte dal modo in cui affronteremo questo problema. Possiamo lasciarci sedurre da chi promette protezione: chiudere le frontiere, prima agli immigrati poi anche alle importazioni, magari rimpiangere la lira e le svalutazioni che prima dell'euro ci consentivano, di tanto in tanto, di dare un po' di respiro alle nostre imprese. Inizialmente sarebbe una fine dolce, ma l'atto finale sarebbe violento. Come ho già scritto (ma lo ripeto anche se il paragone indispettisce) la storia del declino dell' Argentina — un Paese che ai primi del Novecento era ricco quanto la Francia — inizia, con Perón, proprio così. Oppure possiamo cercare di capire perché la diseguaglianza cresce, perché la classe media è in difficoltà. (Il Forum sulla Globalizzazione che si apre oggi a Milano è un'occasione per capire). Dario Di Vico, sul Corriere, ha descritto con un'immagine efficace il solco che separa «i ceti medi impauriti dalle élite cosmopolite che dormono in Italia una notte su tre». Quel solco dipende soprattutto da differenze nel livello di istruzione. Dal dopoguerra alla fine degli anni Ottanta la distanza fra il reddito dei laureati e quello di lavoratori poco istruiti è rimasta relativamente stabile; ma negli ultimi vent'anni quella distanza è esplosa. Innovazione tecnologica (Internet, i computer, l'uso sempre più frequente di modelli fisici e matematici nella finanza) e globalizzazione hanno concorso a far crescere il «premio all'istruzione». La globalizzazione (come spiegano Paolo Epifani e Gino Gancia in un articolo sull'Economic Journal) premia l'istruzione perché le imprese, per sopravvivere, devono dedicarsi a produzioni che richiedono lavoro con un elevato livello di specializzazione. Chi ha smesso troppo presto di studiare, o chi ha avuto la sfortuna di frequentare scuole cattive, è perduto. Negli Usa (lo mostrano Claudia Goldin e Larry Katz in un libro pubblicato da Harvard) l'ampliamento del differenziale fra lavoratori istruiti e non istruiti dipende soprattutto dal fatto che, dagli anni Ottanta, il sistema educativo americano non ha tenuto il passo con i progressi della tecnologia e ha lasciato indietro un numero crescente di giovani. Mariastella Gelmini, il nuovo ministro dell'Istruzione, ha depositato in Parlamento in febbraio una proposta di legge ambiziosa: «Per la promozione del merito nella società... il governo è delegato ad adottare decreti volti ad attuare il principio del merito nella scuola». La legge Gelmini prevede tre interventi: 1. «Ripartizione delle risorse pubbliche fra le scuole in proporzione ai risultati conseguiti, rilevati da un organismo terzo tenuto a pubblicare annualmente una classifica regionale delle scuole fondata su parametri trasparenti e verificabili». Affinché questo principio non sia una semplice enunciazione è necessario che venga accompagnato da un'effettiva autonomia gestionale a livello delle singole scuole, precondizione per la verifica a posteriori dei risultati. Su questo punto il neo-ministro si scontrerà con le resistenze della burocrazia del ministero: se non vuole soccombere ai mandarini di via Trastevere (come accadde a Letizia Moratti) deve avere il coraggio di rinnovare radicalmente, e subito, la dirigenza del ministero. Inoltre la valutazione dovrà essere obbligatoria per ciascuna scuola, non effettuata a campione, come sembrava voler fare il precedente governo. Se il prossimo febbraio, al momento dell'iscrizione dei propri figli, le famiglie italiane potranno consultare classifiche affidabili delle varie scuole, il ministro Gelmini avrà dato un contributo importante al miglioramento della scuola italiana. 2. «Riconoscimento alle famiglie di voucher formativi da spendere nelle scuole pubbliche o private». In Italia l'esperienza dei voucher non è stata sinora positiva. In Lombardia, dove il buono scuola copre il 25% del costo totale di iscrizione a una scuola privata con un tetto massimo di 1.300 euro per alunno, il 17% del sussidio (cito i dati di una ricerca di Giorgio Brunello e Daniele Checchi) è stato incamerato delle scuole, mentre il restante 83% è stato incassato dalle famiglie. Questo significa che per ogni euro speso dalla Regione, solo 17 centesimi si sono tradotti in finanziamento alle scuole private, mentre il restante è consistito in una redistribuzione a beneficio delle famiglie. Poiché le famiglie che scelgono scuole private sono in media più ricche, questa redistribuzione ha avuto natura regressiva. (risultati analoghi sono ottenuti da Maurizio Conti ed Enrico Sette in un'analisi dell'efficacia dei buoni scuola in Liguria). Inoltre — ed è probabilmente il fatto più importante — dall'analisi di un campione di studenti universitari (Bertola e Checchi) emerge che gli allievi delle scuole private dimostrano un livello di competenze mediamente più basso rispetto ai loro coetanei che hanno frequentato scuole pubbliche.
3. Infine la proposta di legge Gelmini era
agguerrita contro gli insegnanti: «Eliminazione di ogni automatismo
nelle progressioni retributive e di carriera; chiamata nominativa
degli insegnanti; possibilità per i presidi di stipulare contratti
privati». Finora nessun ministro dell'Istruzione nella storia della
Repubblica è riuscito a fare alcunché di simile. Speriamo che il
ministro Gelmini non debba pentirsi della proposta di legge che
firmò solo tre mesi fa. |