DOSSIER. Una giornata con le aziende a caccia di
talenti.
Le multinazionali: "Questi italiani Luisa Grion, la Repubblica 31.5.2008 ROMA - Non sanno l'inglese, hanno poche idee piuttosto confuse e scarsa capacità propositiva: sì, in fondo i ragazzi italiani sono davvero un po' "bamboccioni". Le aziende internazionali che hanno a che fare con i nostri neolaureati danno ragione a Tommaso Padoa-Schioppa che quando utilizzò quel termine, qualche mese fa, scatenò risentimenti e polemiche in più di una generazione. Ma a sentire chi gira le università a caccia di nuovi talenti l'analisi dell'allora ministro dell'Economia non era del tutto sbagliata. Lo dicono molte delle 115 aziende che ieri, nel "career day", hanno invaso i cortili di una delle più importanti università private, la Luiss di Roma, per contattare possibili reclute. Cosa cercano e cosa trovano negli studenti italiani? Al di là delle specifiche esigenze ci sono richieste comuni: il neolaureato da "iniziare" non deve superare una certa età (spesso 25 anni, qualche volta 28) deve conoscere bene l'inglese, avere un buon voto di laurea (in genere non meno di 100/110), offrire disponibilità e dimostrare autonomia. La prima scrematura si fa su questi valori. Ma sui risultati, non ci siamo. L'inglese prima di tutto: "I neolaureati assicurano di averne una buona conoscenza, ma spesso non è così - commenta Pierfrancesco Matarazzo, responsabile Risorse Umane per Dexia Crediop. Stesso rilievo per Microsoft: "La lingua è un vero problema, a tutti i livelli: lo scorso anno cercavamo 40 figure di alto profilo e non siamo riusciti ad assumere nemmeno un italiano, il livello tecnico in diversi casi era eccellente, ma l'inglese un disastro" dice Els Van de Water, senior manager Risorse Umane della multinazionale. Ma non è solo questione di "fluent english" mancano anche idee e autonomia. Il modo di proporsi per esempio: "Invece di dirci loro cosa sanno fare o cosa vorrebbero fare ci chiedono: voi cosa offrite?" notano alla Microsoft. Quanto ad autonomia, nei curriculum scarseggia. "Valutiamo bene l'Erasmus, certo, ma ci piace molto anche sapere se i ragazzi cercano di cavarsela da soli, magari facendo i baristi o i camerieri, possibilmente all'estero, per mantenersi agli studi. Lo riteniamo un ottimo avvio alla "gestione clienti" - dice la Van de Water - ma se da noi ciò è quasi prassi (lei è belga ndr) qui no, o almeno non lo si ritiene un requisito importante da inserire nel curriculum, spesso farcito di titoli che non raccontano niente. Bamboccioni? Un po' sì". Altra questione: la disponibilità a qualche sacrificio. "Qualche anno fa ce n'era un po' di più - dice Carlo Berardelli socio delle revisioni alla Deloitte - anche per le retribuzioni: noi ai neoassunti offriamo 22mila euro lordi di partenza, ma investiamo talmente tanto sulla formazione che dopo cinque anni sei sul mercato. Non tutti lo capiscono e non tutti sono disposti a spostarsi, nemmeno fra Roma e Milano".
E la preparazione com'è? Era decisamente
migliore quando c'era il corso di laurea tradizionale. "Con il 3 più
2 di adesso si è perso in teoria e non si è guadagnato in pratica" è
il commento generale. Ma è proprio così? "Nooo" è il coro dei
ragazzi. Da Cristiana ad Andrea, da Viviana a Stefano tutti si
dicono "disponibilissimi" sia a muoversi che a partire da zero.
"Sono le aziende che se possono, negli stages, ci usano per fare
fotocopie" accusano. Riassumendo, comunque, a tutti loro si può dare
qualche consiglio: Erasmus, inglese e voglia di sporcarsi le mani.
Tre mesi da cameriere a Londra possono valere più di molti altri
titoli. |