“Perché coloro i quali
sono chiamati a governare
la grande opera dell’educazione
e dell’istruzione nazionale,
non sieno abbandonati all’impero di idee personali”.

di Piero Morpurgo, 30.5.2008.

Nel 1958 un preside di una scuola media di Vicenza emanò questa circolare: “Prego ciascun professore di fare egli stesso, per qualche giorno, le lezioni che affida ai propri alunni per casa; di farle con i mezzi e i sistemi che essi usano, onde verificare che esiste proporzione fra il quanto delle lezioni e le possibilità degli alunni”. Non c’è dubbio che quel messaggio didattico sia ancora attuale; in realtà quella preghiera dovrebbe esser rivolta anche a ministri e fautori di riforme e controriforme: si prega di sperimentare su loro stessi il contenuto delle novità che propongono, si prega di guardare al passato con spirito critico. La deriva della Scuola è data anche dal non volerne studiare la storia.

Tra il Risorgimento e i primi decenni del ‘900 in Europa si tentò di costruire un sistema scolastico pubblico che fu distrutto dal nazifascismo. Allora al centro dell’attenzione era non tanto il merito dell’insegnante quanto i mezzi per fare didattica e questi erano indirizzati a un fine chiaro: la formazione del cittadino e del lavoratore. Questo obiettivo si è andato progressivamente smarrendo sul finire del ‘900 e, al tempo stesso, si è appannata la figura sociale dell’insegnante. L’ “emergenza scuola” del mondo contemporaneo è stata affrontata ignorando la storia delle istituzioni scolastiche che è anche storia della conquista e dell’affermazione dei Diritti dell’Uomo che appaiono anch’essi sbiaditi nelle coscienze degli studenti. Ancor prima dell’unità italiana c’era una chiara consapevolezza della questione femminile. Già nel 1835 nel periodico femminile La cesta de’fiori per le dame si legge: Prendete dunque cura dell’educazione delle donne se volete avere uomini di coraggio, e quando noi diciamo educazione non intendiamo parlare di musica, di ballo di pittura […] Allorché parliamo di educazione delle donne, vogliamo senza dubbio che siano dati loro tutti i talenti, tutte le conoscenze, che la loro posizione possano far loro acquistare. E nel 1849 nella breve esperienza della Repubblica Romana si approntò quella Costituzione che recitava: art.. 7. - La manifestazione del pensiero è libera; la legge ne punisce l'abuso senza alcuna censura preventiva; art.. 8. - L'insegnamento è libero. Le condizioni di moralità e capacità, per chi intende professarlo, sono determinate dalla legge.

Appena formata come nazione l’Italia affronta la questione se sia opportuno delegare all’estero la produzione della scienza. Così nel 1872 il ministro dell’ istruzione Francesco de Sanctis affronta il problema: La scienza non può germogliare senza una patria, che le dà la sua fisionomia e la sua originalità. E là dove cresce bastarda e presa ad imprestito, non ha fisionomia, e rimane fuori di noi, non opera in noi, non riscalda il cervello. Non produrremo la scienza e non produrremo l'istruzione. Accetteremo dal di fuori metodi e libri, costituzioni, ordinamenti e leggi, e spesso piglieremo un abito, quando là dov'è nato è già logoro e messo fra' cenci. Così tutto è mezzanità, mezza istruzione, mezze idee.

Un anno dopo Adele Levi della Vida lanciò la campagna per fondare gli asili nido. Era il 1873 e il programma era nitido: Non porre limiti rigidi all’introduzione del leggere e dello scrivere: un minimo a 5 anni. Inoltre il Regolamento del Giardino Infantile prevedeva: insegnamento della lingua italiana e francese, canto, ginnastica, disegno, scrittura, tessitura. Prima di tutto adunque, l’insegnamento di due lingue per via non di scrittura o di grammatica, ma di conversazione. Allora il proposito era sia il trasmettere conoscenze sia il riflettere sulle metodologie; pertanto il ministro De Sanctis si curò di consultare gli insegnanti istituendo il sistema delle ‘conferenze pedagogiche’ che – nel 1881 - veniva esaltato perché assumeva “un proposito essenzialmente liberale e democratico, in quanto che il ministro in esse invita tutti, vuole ascoltar tutti – maestri e maestre, direttori e direttrici di scuole, giovani e vecchi insegnanti e padri di famiglia. Ed è un’istituzione estremamente democratica anche perché coloro i quali sono chiamati a governare la grande opera dell’educazione e dell’istruzione nazionale, non sieno abbandonati all’impero di idee personali e solitarie, perciocché i reggitori dello Stato sono talvolta – chi può ignorarlo? - in disaccordo co’ più vivi bisogni della società. E allora qual voce più autorevole di quella degli insegnanti invitati a discutere con amore e serenità di spirito intorno alle gravi questioni dell’educazione pubblica e privata?” Erano anni non facili eppure si consultavano i docenti per capire come organizzare le scuole! Oggi riproporre questo metodo sembra impossibile.

Anni difficili: nel 1884 la Rivista scolastica Mantovana uscì con questo titolo: “In terza elementare: 182.000 bocciati su 365.000”. Anni di speranza quando la Ligue Française de l'Enseignement volle organizzare, nel 1889, un congresso sulla necessità di estendere l’istruzione. A questi lavori partecipò anche Augusto Franchetti (1840-1905) in rappresentanza delle scuole popolari fiorentine. L’azione dei Franchetti, degli Orvieto, di Pellegrino Rosselli e di Domenico Comparetti (il nonno di don Lorenzo Milani) si tradusse- nell’attivo sostegno delle Scuole del Popolo volute -nel 1867- da Pietro Dazzi. Il programma d’esame delle scuole professionali fiorentine era del tutto innovativo giacché prevedeva “Una prova scritta ed orale per l’italiano pel francese, per l’inglese, pel tedesco, per l’aritmetica e per la geometria; mentre per la storia, geografia, la computisteria, la fisica, la chimica, la storia naturale, si fa la prova orale soltanto, e per la calligrafia solamente il saggio grafico”. L’esito dell’esame era comunicato all’istante -circostanza su cui oggi si esita- e contemplava diverse possibilità: una licenza con la media di 9/10, un certificato d’onore con 8/10, un attestato con 6/10. Diversi diplomi per differenti rendimenti! Perché non pensarci? Il 1900 aveva visto l’ Esposizione Universale Internazionale di Parigi che dedicò molta parte delle sue iniziative proprio alla Scuola e alle sue strutture http://cnum.cnam.fr/fSYN/8XAE564.1.html.

E la speranza di costruire una Scuola migliore non viene meno anche durante la dittatura quando dalla “Rivoluzione Liberale” Gobetti e Monti dedicano alla Scuola interventi che sono di grande attualità: si è inventata la formula "scuola e vita": la scuola è la strada, la scuola è l'officina, la scuola è il cinematografo. Ma questo può essere una constatazione, magari una constatazione, ma non un programma; perché, a ragionar così, dove si finisce? Si finisce che la strada resta la strada, il cinema resta il cinema, e la scuola non è più scuola; e con la scusa che, tanto e tanto, c'è la vita e che la scuola non è nulla, si pensa a vivere (tira a campà) e la scuola si lascia che vada a rotoli. Adesso, davvero, è ora di finirla. Adesso davvero. Era il 25-10-1922! Già allora si avvertiva l’esito catastrofico della scuola fondata sul benessere ricreativo e sul necessario successo formativo. E ancora già si era consapevoli sia dell’inutilità di prolungare eccessivamente gli orari scolastici sia dell’impossibilità di costringere gli insegnanti a lunghi orari di servizio. Nel 1925 la “Rivoluzione Liberale” scriveva: Ebbene chi non sa che le ultime ore pomeridiane di scuola sono, peggio che una perdita di tempo, un disastro addirittura per lo stomaco e pel cervello, per il corpo e per lo spirito? Quando i nostri posteri leggeranno i vigenti ordinamenti scolastici, non potranno fare a meno di dichiararci... pazzi. Un Insegnante di condizioni normali, che non sia uno sterratore o un facchino di porto, non può fare più (massimo) di 3 ore al giorno, e per cinque giorni della settimana (oltre le ore per correzioni di compiti, preparazione di temi e di esercizi, ecc.). Allora forse non era di moda sbattere il docente in prima pagina e additarlo al pubblico ludibrio.

 

Piero Morpurgo

GILDA VICENZA

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