Il feticcio dell'autonomia scolastica.

Alessandro Salerno, da DocentINclasse, 19.5.2008

In un libretto da poco edito, dal titolo La contraddizione virtuosa. Il problema educativo, Don Milani e il Forteto (Il Mulino, a cura di G. Fornari e N. Casanova), leggo un'intervista al grande antropologo francese René Girard. Ad un certo punto (p.29), ad una domanda sulla scuola Girard, che vive in America, risponde: "Le scuole pubbliche in America sono le peggiori. Vi è innanzitutto un controllo locale delle scuole, e solo i distretti ricchi sono in grado di assicurare buone scuole. Ma gli americani pensano che il controllo locale delle scuole sia importante perché fa parte delle libertà politiche. Oggi però questo sistema non regge più. Andava bene all'epoca della nascita degli Stati Uniti, quando bisognava dare un'istruzione di base ai pionieri, in villaggi di persone che conducevano una vita semplice. Ora ci vogliono competenze tecniche che il controllo locale non è in grado di gestire. Ma negli Stati Uniti non vogliono il sistema statale come l'avete voi in Italia o l'abbiamo noi in Francia. Del resto, anche questi sistemi statali funzionano sempre peggio..."

Bastano queste poche parole ad indurre chiunque viva i problemi dell'istruzione verso riflessione autocritica sulla scuola dell'autonomia e sull'autoreferenzialità localistica della maggior parte delle università italiane, per cercare di invertire la tendenza ormai in voga da quindici anni e provare invece a dare nuova forza a quei sistemi scolastici e universitari statali in declino. Invece, le proposte del neoministro dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca sembrano ancora una volta ricalcare sistemi che l'America riconosce errati per se stessa, figuriamoci se esportati da noi. Occorrerebbe riconoscere che l'autonomia scolastica è divenuta una piaga del sistema educativo italiano, comportando inefficienze, sprechi, effetti controproducenti, danni ormai incalcolabili, senza che si capisca quali siano i vantaggi reali. Eppure è vista dai politici di entrambi gli schieramenti come una specie di totem sacro che non può essere sfiorato. Perché?

Si prenda la famigerata O.M 92 sul recupero dei debiti formativi. Al di là degli errori di fondo del sistema di recupero partorito da Fioroni - con questi corsi e ricorsi che ricorrono per un intero semestre da febbraio ad agosto, con una procedura farraginosissima che moltiplica esponenzialmente il numero di operazioni burocratiche da gestire - che senso ha avuto tutelare l'autonomia delle scuole nello scegliere il periodo dei corsi estivi e degli esami finali? Si è generata soltanto gran confusione. Una decisione che poteva essere presa in cinque minuti al ministero è stata demandata a migliaia di collegi docenti che hanno impiegato, suppongo, milioni di ore/uomo in tutta Italia per stabilire una semplice data. Il bello è che si spaccia questa babele per "democrazia" e "autonomia", quando si è trattato solo di un colossale e inutile spreco di risorse e di energie, distratte dallo studio, dalla ricerca, dall'impegno politico, dall'affettività, dalle emozioni. In più si sono create una microconflittualità e una competitività locale (vero obiettivo, secondo me, delle leggi sull'autonomia), che alla fine ha prodotto decisioni disfunzionali per la società. Purtuttavia, questo dei recuperi è un problema minore e forse trascurabile.

E' ben più grave, invece, l'avvitarsi localistico su se stesse delle facoltà universitarie. Nei concorsi, che sono tutti gestiti in modo localistico, si preferisce mettere in cattedra una capra locale doc, anziché valutare con un minimo di meritocrazia. I bandi di concorso, addirittura, sono ormai confezionati come abiti sartoriali, sulle misure del candidato locale. Del resto, dal momento che le singole facoltà non rispondono direttamente a nessuno dei loro fallimenti, perché mai si dovrebbero perdere occasioni per creare clientele locali, sempre utili a fini economici e politici (sempre in una dimensione localissima)? Il concorso nazionale, almeno, rimescolava le carte e creava un po' di osmosi. Adesso, invece, tra le poche facoltà eccellenti e la massa di facoltà scadenti si è creato un baratro sempre più ampio. Il livello locale, come dice Girard, riesce a garantire quelle competenze tecniche necessarie? A livello universitario, no di certo. E' impensabile. Mentre le più rinomate università straniere cercano i docenti bravi su scala planetaria, le nostre attingono come i ragni solo da se stesse. Ma anche a livello scolastico il controllo locale sarebbe deleterio. Ebbene, l'assurdo del docente a chiamata locale vorrebbe essere esteso (nelle idee del neoministro Gelmini) anche alle scuole, senza avvedersi dei rischi pazzeschi che una tale misura comporterebbe. E' evidente, infatti, che nel nostro sistema, in cui non esiste alcun controllo delle responsabilità, la chiamata diretta si trasformerebbe in localismo clientelare. Posso garantire per certo che dalle mie parti il clientelismo la farebbe da padrone e spazzerebbe via anche dalle scuole quel minimo di libertà e professionalità ancora esistenti in una certa parte del corpo docente.

Di fronte all'enfatizzazione automatica e irriflessiva dell'autonomia e del potere locale come panacea di tutti i mali - quando invece le evidenze in tutti i settori dicono il contrario (si pensi alle inefficienze della maggior parte delle Regioni, alla conflittualità scatenata dalla riforma del titolo V della Costituzione, al moltiplicarsi come metastasi delle burocrazie) - mi pongo alcune questioni di fondo: dell'Italia frega ancora qualcosa a qualcuno? Esiste ancora un'Italia? Perché nell'oceano tempestoso della globalizzazione si gioca a creare falle nella nave Italia? Non possiamo avere più un destino comune come Italiani? Non c'è un'Italia della cultura e della lingua da custodire gelosamente? Non c'è più spazio per un progetto nazionale? Chi può incaricarsi di rilanciare il tema dell'identità culturale della nazione?

Mi pare che il tema di una cultura nazionale da proteggere e rilanciare nel confronto con le dinamiche internazionali, sia di strettissima attualità. Sono però consapevole di non poter nutrire alcuna speranza dagli attuali partiti, brutte copie, ancora una volta, di quel che succede in America (Yes, we can! No, we neocon!) con l'aggiunta di un'appendice volgarmente antitaliana. L'unica speranza è che gli apparati politici non siano affatto il rispecchiamento dell'Italia, ma come un cancro insediatosi nell'organismo e di cui ci si debba liberare con una lunga lotta.