Roger Abravanel propone in un saggio il metodo
per misurare l’efficienza
Destra o sinistra, come si valuta il merito.
Meno norme, più risultati:
il sistema per dare i voti a scuole, ospedali e uffici pubblici
Francesco Giavazzi Il Corriere della Sera del
16.5.2008
Se il quarto governo di Silvio Berlusconi
verrà ricordato, dipenderà soprattutto da quanto riusciranno a fare
due ministri: Mariastella Gelmini, ministro dell’Istruzione, e
Renato Brunetta, ministro della Funzione pubblica. Entrambi hanno
predecessori illustri — Giancarlo Lombardi e Letizia Moratti
all’Istruzione, Sabino Cassese e Franco Bassanini alla Funzione
pubblica— ma scuola e pubbliche amministrazioni rimangono i due più
gravi problemi del nostro Paese (con l’eccezione forse dell’ordine
pubblico).
In entrambi i casi si tratta di ministri alla loro prima esperienza.
Da un lato questo è positivo: spesso l’efficacia dei ministri (e
anche quella dei governi) peggiora alla seconda esperienza.
Dall’altro l’inesperienza spesso rende i neoministri più dipendenti
dai burocrati che reggono i dicasteri e che riescono a spegnere
rapidamente il loro entusiasmo e a bloccare ogni innovazione:
accadde sette anni fa a Letizia Moratti, proprio all’Istruzione;
accadde ai ministri della Lega nel 1994, ai tempi del primo governo
Berlusconi. Se posso permettermi un consiglio ai due nuovi ministri,
prima di affrontare la pila di documenti che troverete sulle vostre
scrivanie, dedicate qualche ora alla lettura del libro di Roger
Abravanel Meritocrazia (Garzanti), in particolare il capitolo 9,
«Quattro proposte concrete per far sorgere il merito».
La prima è di istituire, come fece Tony Blair in Gran Bretagna, una
delivery unit. L’aspetto nuovo di questa idea è lo spostamento
dell’attenzione dall’analisi delle norme e delle procedure
all’analisi dei risultati. Introdurre questo metodo in Italia
significherebbe ribaltare il modo di lavorare e di pensare delle
pubbliche amministrazioni, spesso più interessate alle procedure che
ai risultati. Per esempio si tratterebbe di valutare la scuola sulla
base dei risultati che gli studenti ottengono nei test Pisa (Programme
for International Student Assessment) dell’Ocse.
In Gran Bretagna questo metodo ha dato esiti significativi
soprattutto nella sanità. La delivery unit ha obbligato le varie
unità sanitarie (ospedali, ambulatori, day-hospital) a pubblicare i
loro dati: tempi medi di attesa, tasso di sopravvivenza dopo alcuni
interventi standard, incidenti, emergenze… I cittadini hanno così
potuto confrontare strutture sanitarie simili e chieder conto a
quelle meno efficienti del perché i loro risultati fossero peggiori
di quelli di altre.
Il successo dell’esperimento britannico è dovuto alla compresenza di
due fattori: l’informazione e la possibilità dei cittadini di
accedervi e poi di far sentire la propria voce. La delivery unit ha
risolto il primo problema, l’accesso all’informazione. Ma questo
servirebbe a poco se i cittadini non potessero «farsi sentire».
Questa possibilità in Gran Bretagna deriva dal sistema elettorale
uninominale, nel quale ogni circoscrizione è rappresentata da un
solo deputato, e quindi l’elettore sa sempre chi è il suo
rappresentante in Parlamento, sia che lo abbia votato sia che
rappresenti un partito diverso dal suo. Sa quindi a chi rivolgersi
quando vuole lamentarsi per i risultati relativamente
insoddisfacenti di una pubblica amministrazione. (È un aspetto che
mi ha sempre colpito anche negli Stati Uniti. La frase «Ora
telefoniamo all’ufficio del senatore Kennedy e gli chiediamo di
occuparsene » si sente spesso in Massachusetts, uno Stato da
quarant’anni rappresentato in Senato da Ted Kennedy, che tutti nello
Stato conoscono come il «nostro senatore»).
Cambiare il sistema elettorale, lo sappiamo, sarà complicato. Una
delivery unit, invece, i ministri Gelmini e Brunetta potrebbero
crearla in poche settimane. Non le dovrebbe essere affidato alcun
compito legislativo, semplicemente chiedere che raccolga ed elabori
in modo scientifico l’informazione. Per farlo, dovrà avere poteri
forti ma limitati: semplicemente il potere di obbligare le
amministrazioni (a cominciare dall’Istat) a pubblicare i dati,
perché il fatto straordinario in Italia è che spesso i dati
esistono, ma sono custoditi gelosamente in cassetti ben chiusi, caso
mai qualche cittadino li volesse consultare. (Molte scuole ad
esempio raccolgono — ma non rendono pubblici — dati sui loro alunni:
quanto tempo hanno impiegato a trovare un lavoro, quanto guadagnano,
in quanto tempo si sono laureati, dove e con che voti). Il professor
Daniele Checchi ha mostrato come sia possibile elaborare su basi
scientifiche classifiche delle scuole. Un esperimento simile è stato
svolto dal professor Andrea Ichino per l’università Bocconi: egli ha
elaborato una classifica delle scuole superiori della provincia di
Milano che tiene conto del reddito delle famiglie (passo necessario
per evitare che la classifica rifletta semplicemente differenze nel
reddito) e dei risultati che gli allievi di queste scuole hanno
conseguito in alcuni esami sostenuti presso l’università Bocconi.
Ho esposto solo la prima delle quattro proposte di Abravanel, ma
immagino sia sufficientemente attraente da voler subito conoscere le
altre. Quindi buona lettura: di tutto il libro, non solo del
capitolo 9.
Francesco Giavazzi
16 maggio 2008