Un ferro vecchio. di Antonio Valentino, da ScuolaOggi del 15.7.2008 Anche quest'anno è fatta. Parlo degli Esami di Stato. Ogni anno che passa si moltiplicano gli interrogativi sul suo senso, sulla sua utilità, sui suoi costi, sulle cose che esprime. Il legislatore aveva previsto 11 anni fa delle finalità che avevano senso, ma che sono rimaste lettera morta. Nella L. 525/’97 si parla di certificazione delle competenze: impresa certamente grossa, obiettivo importante verso cui orientare le intelligenze, la formazione, la ricerca del mondo della scuola. Era allora una sfida sui generis che si intrecciava però con altre sfide riformatrici, durate lo spazio di un mattino. E' rimasta l'autonomia, ancora però tutta lì (o quasi) da costruire.
Certamente migliorative, le misure di Fioroni (il ritorno alle commissioni miste, l'aumento del credito scolastico, lo scrutinio di ammissione). Comunque un’operazione debole, anche perchè fuori da un disegno: restava l'impianto fortemente datato, segno dell'inettitudine dei governi che si sono succeduti a cavallo del millennio. Più preoccupati di distinguersi da quello precedente, disfacendo o facendo altro, che di mettere mano ai cambiamenti importanti che pure erano previsti dalla prima legge di riforma degli Esami. (Il riferimento è qui, principalmente, all'obiettivo della certificazione delle competenze).
Uno degli obiettivi della prima prova scritta era (è), come si sa, quello di indurre la scuola a misurarsi con diverse e più moderne modalità comunicative. A parte il senso di un tale obiettivo, comune alle svariatissime tipologie di esami, è la cultura che c'è dietro quelle tracce che impressiona. Basta rileggere quelle dell'ultimo esame: pur proponendo tematiche spesso importanti, rinviano ad una cultura retorica e ancora sostanzialmente gentiliana. Qualche richiamo: "il ruolo salvifico e consolatorio della figura femminile", in una poesia di Montale, sullo sviluppo del quale ruolo si richiedevano - e guai a registrane l'assenza! - " osservazioni originali" (Dio mio, ma come si fa? L’insipienza ridicola di una traccia del genere mi è risultata ancora più indigesta della cialtroneria dell'"incidente" di cui hanno parlato tutti); il "bilancio" dei "valori attuali" della Costituzione e del “rapporto con la società italiana" (che avrebbe imbarazzato anche Zagrebelsky); oppure "l'idea di scienza e sviluppo tecnologico nella società" ( che avrebbe messo in difficoltà anche il più bravo allievo di Geimonat)…. Per non parlare della terza prova scritta. Una sorta di pout pourri preparato dalla commissione, pieno di ipocrisie in buona fede (ci piacciono gli ossimori) che costringe il candidato, in due o tre ore, a misurarsi con quesiti su cinque materie (programmi) diverse tra di loro, dalle cui risposte non ci si può attendere niente di più o diverso da quello che lo studente ha dimostrato di sapere o non sapere durante l'anno.
Un altro piccolo capolavoro di ipocrisia e malvagità del sistema. E’ questa almeno la mia percezione, confermata negli anni, su cui mi piacerebbe essere smentito. E', nell’analisi che ne ho fatto, la riproduzione in miniatura, forse ancor più della terza prova, di un modello di scuola frammentato, accademico, che riduce tutto a parole, senza capo né coda.
E che, nel corso degli anni, produce, conoscenze
generiche, astratte, scollegate, che trovano proprio nei colloqui
dell'esame di stato il luogo della loro evidenza più palmare. La dimostrazione, l'argomentazione, la spiegazione abita i colloqui solo in casi rarissimi; e così la rielaborazione critica e il pensiero riflessivo. L'analisi in funzione della sintesi, l'essenzialità in ragione della sensatezza, il concetto che rinvia alla realtà e alla concretezza dell'esperienza, il piacere e il gusto della ricerca sono comportamenti rari, eccezionali. Spesso trovi anche studenti diligenti, che senti che hanno studiato. Ma avverti anche che, nella maggior parte dei casi, hanno studiato senza apprendere, hanno immagazzinato concetti, nozioni senza riflessione. Questo colloquio, per quanto svolto con le migliori intenzioni dei migliori commissari, si rivela quasi sempre e comunque come il regno della memoria, del ricordo. Molto volte le domande del colloquio sono proprio all'insegna di questo modello di preparazione: ti ricordi cosa dice il secondo principio della termodinamica? Ti ricordi come si conclude “La coscienza di Zeno”?
E gli studenti pescano generalmente a caso da
qualche spazio della memoria per mettere insieme una risposta senza
convinzione. Assunte, sulla scia di esperienze importanti delle scuole sperimentali, come momento di valorizzazione dell'autonomia dello studente - che, sotto la guida dei docenti, produce progetti, ricerche, approfondimenti, in grado di rappresentare le competenze generali e specifiche e i loro intrecci (e quindi di esprimere la consistenza e il valore della sua preparazione in rapporto al corso di studi frequentato) - sono di fatto lo spazio della banalità, dell'incongruenza e della superficialità. E, stavo per dire, dell'alienazione. Per cui la “tesina” sulla condizione della donna diventa assemblaggio di medaglioni ritagliati dai vari ambiti disciplinari, riciclati alla bene e meglio e collocati sotto il nome della materia senza un filologico, un ragionamento unitario. Queste le percezioni che un commissario generalmente si porta dietro dopo cinque sei ore giornaliere di esami per otto-dieci giorni consecutivi.
Comunque anche questi esami ci ripropongono, con molta evidenza, interrogativi sulla cultura professionale dei nostri docenti e dirigenti, sull'assenza di un governo unitario dei processi, sul peso della tradizione in questi nostro paese e sul primato del pressappochismo che sembra connotare la nostra cultura scolastica. Più interessante è invece l'interrogativo: come se ne esce. Quindi mi limito ad alcune considerazioni molto schematiche che propongo, senza un preciso ordine logico, sotto forma di scaletta: - La certificazione delle competenze, legate al titolo di studio (indirizzo), da affidare ovviamente ad una commissione mista, va assunta come il vero punto di snodo dell'intera operazione. - La valutazione del percorso scolastico e della formazione generale - e quindi l'attribuzione del credito - va affidata esclusivamente alla scuola. - L'attuale formazione docente non basta però a realizzare una qualsivoglia riforma sensata. Né basta la buona volontà. - Non si può rinnovare senza garantire le condizioni di fattibilità. Nessun cambiamento è possibile senza adeguato sviluppo professionale di docenti e dirigenti. - Si può partire anche dalla fine, quando si vuol mettere mano ad una situazione critica (nel nostro caso dalla riforma degli esami finali). Non mi straccerei le vesti. Ci potrebbero essere buone ragioni. Partire dall'obiettivo finale può orientare gli sforzi della didattica e generare effetti domino a ritroso. Ovviamente non dovrà mancare un disegno di generale riordino. - Questioni centrali sono le strategie, le coerenze, l'organicità del disegno e la sua fattibilità. Che rinvia alle risorse e agli investimenti. - Parliamo pure di emergenza formativa (che effettivamente c'è). Colpevolizzare però gli studenti non solo non coglie la profondità del problema, ma soprattutto non aiuta. - Semplificare, snellire. - Evitiamo in questa fase di mettere in discussione il valore legale del titolo di studio. Troppo complicato. - Le tre prove scritte ce le ha ordinate il dottore? A me sembra indispensabile solo una prova scritta nazionale sulle competenze legate all'indirizzo, a impostazione pluridisciplinare (una tematica "da area di progetto"). - Prevedere, a completamento, un colloquio sulla prova scritta e su un progetto, presentato dal candidato, sempre legato alle competenze di indirizzo - e da gestire con prioritaria attenzione alla dimensione tecnico-pratica e dimostrativa - è una ipotesi di lavoro che presenta molti punti di forza.
Tutto questo, tanto per lanciare una pietruzza nello stagno.
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