Tutto è cominciato quando l’obbligo
scolastico è diventato diritto-dovere.
Scuola, così il governo Berlusconi ritorna Marina Boscaino, da l'Unità del 23.7.2008 La continuità della politica scolastica del governo Berlusconi con il precedente si chiama Valentina Aprea. Apparentemente sconfitta dalla scelta a sorpresa di nominare Gelmini ministro dell’Istruzione, Aprea - ex sottosegretario ai tempi di Letizia Moratti - è oggi presidente della Commissione Cultura della Camera. E in lei è ragionevole individuare uno dei «grandi manovratori» che si nascondono dietro l’inesperto ministro. È stata Aprea a riproporre, assieme alla riforma dello stato giuridico dei docenti, la chiamata diretta degli insegnanti. Ancora lei a difendere l’emendamento alla manovra finanziaria approvato dalla Camera, che rende definitiva la conclusione meno auspicabile della «vicenda» obbligo scolastico: gli studenti potranno iscriversi ai corsi regionali di formazione, assolvendo in tal modo all’obbligo di istruzione. Tutta la questione ha giocato - sin dai tempi della Moratti - sull’ambiguità linguistica. All’attuale sindaco di Milano dovemmo la fantasiosa definizione di «diritto-dovere» contenuta nella legge delega 53/2003, che consentì al ministro (e a tutta la stampa, evidentemente inconsapevole della differenza tra obbligo e diritto-dovere) di parlare di un «innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni». Non irrilevante differenza: scolastico significa all’interno della scuola; l’obbligo, a differenza del diritto-dovere, prevede la coercizione là dove viene evaso; e, contemporaneamente, la necessità che lo Stato si attrezzi per creare le condizioni di esercizio di un diritto esigibile da tutti. Il diritto-dovere della Moratti, viceversa, poteva essere assolto, contraddicendo i proclami, anche all’interno dei progetti e percorsi triennali professionalizzanti organizzati dalle regioni: qualcosa di profondamente differente dalla scuola. La Finanziaria del 2007 - venendo meno a uno dei punti del programma Prodi, che parlava di «innalzamento dell’obbligo scolastico a 16 anni» - prevedeva la permanenza (in via sperimentale e provvisoria) dei percorsi e progetti della Moratti, mutando la definizione in «obbligo di istruzione». Cambiamento profondamente significativo, dal momento che non è difficile immaginare - lo ripeto - la differenza tra un obbligo assolto interamente tra i banchi di scuola e uno in un avviamento professionale. Il cambiamento di rotta era evidentemente motivato dalla necessità di non scalfire un "sistema" economicamente vantaggioso per molti (dai salesiani alle varie associazioni trasversalmente legate a partiti politici e persino a sindacati). La speranza di un mutamento di prospettiva legato al criterio della triennalità della sperimentazione (portata avanti con particolare solerzia da molte regioni di centro sinistra, come il Piemonte o il Lazio) è tramontata definitivamente nei giorni scorsi: ancora una volta saranno le condizioni socio-economiche delle famiglie di provenienza a determinare i destini dei ragazzi. È per questo che, quando Aprea afferma che «occorre andare incontro alle inclinazioni dei singoli studenti, proporre percorsi differenziati che abbiano legami concreti con il mondo del lavoro», riveste con finti ragionevolezza, buon senso e democrazia l’idea discriminatoria e inaccettabile di un percorso di serie A e uno di serie B. Finché infatti il sistema non sarà realmente unitario e lo Stato garante di entrambi i percorsi (quello scolastico e quello «professionalizzante»), il doppio canale non farà che configurare una delle tante discriminazioni che la nostra società celebra, immobilizzando condizioni socio-economiche e resistendo a qualunque promessa di uguaglianza, pari opportunità, mobilità sociale. Sostenere che il provvedimento afferma «la pari dignità dei percorsi, quello dell’Istruzione e quello della Formazione Professionale» significa ampliare il tradizionale divario tra licei e la restante parte del percorso scolastico. L’obbligo «senza se e senza ma» (cioè dentro la scuola dello Stato), inequivocabile scelta di civiltà, significa accordare a tutti, indipendentemente da provenienza e dagli esiti professionali futuri, il diritto a quelle competenze che fanno di donne e uomini cittadini più consapevoli, autonomi, critici: competenze erogate solo dalla scuola dello Stato. Non è differenziando i percorsi che si combatte la dispersione: ma individuando, all’interno della scuola, spazi e strategie di intervento per investire sul futuro, conquistando alla scuola il maggior numero di ragazzi. Sarebbe interessante se da queste considerazioni Veltroni partisse per rivedere scelte precedenti. E per tentare di arginare il processo di arretramento cui il centro destra implacabilmente sta costringendo la scuola.
|