I mali della scuola italiana. di Lucio Garofalo, 5.6.208.
Mi piacerebbe
riassumere, se possibile, in una sorta di compendio “manualistico”
abbastanza semplice e schematico quelli che, dal punto di vista di
un insegnante, costituiscono i problemi più gravi che assillano e
condizionano pesantemente la vita e il funzionamento della scuola
pubblica italiana. Probabilmente, nell’immaginario collettivo la
scuola viene percepita e valutata in modo falso e distorto
attraverso una serie di banali e diffusi clichè, ovvero sulla base
di facili e comodi luoghi comuni che è urgente provare a confutare
con argomentazioni intelligenti e persuasive. In genere si vocifera e si ciancia molto degli annosi “mali” che opprimono la scuola italiana, ma le autorità politico-istituzionali deputate a rispondere non si adoperano minimamente a risolvere le questioni in modo incisivo e concreto, ma soprattutto corretto e tempestivo. In ambito politico, ogni tentativo di soluzione non può essere efficace se non è anche giusto e tempestivo: le ingiustizie finiscono per diventare conseguenze peggiori delle cause. Per la serie “quando il rimedio è più nocivo del male”. In politica il decisionismo e l’efficientismo devono essere aggiustati e calibrati mediante criteri di equità sociale, altrimenti rischiano di essere deleteri arrecando danni difficilmente riparabili, che inevitabilmente si sommano ai guai preesistenti. Negli ultimi 15/20 anni i vari ministri che si sono avvicendati e succeduti a capo del dicastero della Pubblica Istruzione (qualcuno ha anche deciso di derubricare l’aggettivo) hanno provveduto solo ad elaborare e varare la propria ipotesi di “riforma” istituzionale per apporre la propria firma, lasciando un segno (infausto e negativo) nella storia.
Insomma, la scuola è
diventata una vera e propria cavia istituzionale sottoposta a
continui e reiterati esperimenti di riforme e controriforme,
applicate oltretutto male. Restando al livello delle alte sfere istituzionali notiamo come, periodicamente, si affacciano schiere di moralisti, predicatori e sputasentenze che, come tanti Soloni saccenti e presuntuosi, sono disposti a crocifiggere i presunti “lavativi” e “pelandroni” che imperverserebbero in massa nel comparto della Pubblica Amministrazione, quindi anche nel settore della scuola pubblica. Come se i "fannulloni" e lo "scarso rendimento" degli insegnanti fossero la principale causa dei mali che affliggono la scuola pubblica italiana. Mentre in quella privata si lavora e si produce senza sosta e senza sprecare né tempo né soldi: forse questo spiega le ragioni per cui i finanziamenti statali, invece di essere destinati alle scuole pubbliche vengono dirottati a vantaggio di quelle private? Come non sembra essere un “infingardo perditempo” il neoministro Renato Brunetta. Il quale, appena insediatosi al vertice del proprio dicastero istituzionale, si è prontamente attivato per promuovere una vasta e martellante campagna anti-fannulloni. Allora, si cominci a dare l’esempio al vertice, a partire proprio dai quadri dirigenti più elevati che hanno dimostrato di essere assolutamente inefficienti e improduttivi. Se non addirittura fallimentari. Penso, tanto per citare il primo esempio che mi viene in mente, ai dirigenti pubblici che hanno affondato e rovinato l’Alitalia. Questi “supermanager” ricevono uno stipendio annuo che si aggira intorno ai 500 mila euro, vale a dire oltre 1300 euro al giorno! Tale cifra è pari, se non superiore al salario mensile (e non giornaliero) guadagnato da un insegnante o un operaio medio… Lascio a voi giudicare liberamente l’iniquità e la sperequazione di questa forbice tra i redditi più alti e quelli più bassi. Un divario che è destinato non a ridursi ma ad allargarsi progressivamente. Come è accaduto negli ultimi anni.
Dopo queste
considerazioni preliminari, voglio provare ad esporre nel dettaglio
le singole questioni problematiche da me ipotizzate. Sulle quali
propongo di ragionare senza quelle difficoltà generate da sciocche
prevenzioni o rozzi schemi pregiudiziali, come possono essere i
soliti, vuoti e sterili discorsi ricorrenti nei bar, derivanti da
grossolane persuasioni comuni che circolano diffusamente
nell’opinione pubblica a proposito dei lavoratori statali. Anzitutto, specie dopo la precedente riflessione, ritengo che il personale docente non sia adeguatamente “valorizzato”. Con tale espressione intendo riferirmi non solo allo scarso rilievo morale e al basso prestigio sociale che ormai la mentalità comune riconosce alla professione docente, bensì mi richiamo anche e soprattutto al temine “valore” in senso marxiano, vale a dire dal punto di vista strettamente economico. Insomma, occorre mettere mano al budget ministeriale per incrementare e migliorare gli emolumenti mensili assegnati agli insegnanti italiani, che sono i meno pagati in Europa. Infatti, mi spieghino come un qualsiasi insegnante che percepisce una retribuzione media che può aggirarsi intorno ai 1200 euro mensili al netto delle imposte trattenute alla fonte, può permettersi il lusso (perché di questo si tratta) di pagare corsi di formazione e aggiornamento professionale, per acquistare libri, materiali didattici e vari sussidi tecnologici quali cd multimediali, programmi ed altre componenti indispensabili al normale funzionamento di un computer (si pensi solo ai costi delle stampanti, delle cartucce per l’inchiostro, ecc.), insomma quanto serve per studiare e aggiornarsi.
Ho citato un caso
dozzinale ma emblematico, che tutti possono valutare mediante un
calcolo matematico approssimativo, per far comprendere cosa
significhi e quante spese comporti lo studio e l’aggiornamento in un
campo professionale come l’insegnamento. Un impegno che non è solo
difficile e faticoso sul piano mentale, ma è altresì assai oneroso
sotto il profilo economico. Per cui non è più alla portata della
maggior parte degli insegnanti italiani. I quali rappresentano i
peggio pagati in Europa. Un altro problema molto serio, avvertito (non solo) dal corpo docente, è senza dubbio quello delle cosiddette “attività aggiuntive” a carattere non obbligatorio, vale a dire gli impegni e le iniziative progettuali di tipo extra-curricolare. Mi riferisco in particolare ai progetti P.O.N. e P.O.R. finanziati con fondi europei, nazionali e regionali. Nel campo della didattica e dell’istruzione scolastica i criteri di quantità e qualità sono in genere difficilmente compatibili tra loro, nel senso che l’una può escludere l’altra. In tal modo le singole istituzioni scolastiche rischiano di diventare veri e propri “progettifici scolastici”. Con inevitabili ripercussioni negative sulla qualità e sul successo della formazione e dell’educazione delle giovani generazioni. Personalmente, non sono contro i "progettifici" per rivendicazioni ideologiche totalmente astratte, ma per ragioni concrete legate alla mia esperienza diretta. Nulla mi impedirebbe di essere favorevole ai progetti di qualità, purché siano attuati sul serio, ma nel contempo sono cosciente che i casi virtuosi sono eccezioni molto rare. Invece, i "progettifici scolastici" si caratterizzano negativamente per vari motivi, anzitutto per una scarsa intelligenza creativa e un’insufficiente trasparenza non solo formale o procedurale, per un livello di inefficacia e inadeguatezza degli interventi, per un’esigua e debole rispondenza alle reali esigenze psicologiche, formative, culturali e sociali degli studenti, mentre obbediscono solo a una logica affaristica e aziendalistica.
Per non parlare dei
continui strappi alle regole, delle reiterate violazioni di norme e
diritti sanciti dalla legge, delle frequenti scorrettezze commesse
all'interno delle singole scuole, derivanti da invidie, gelosie e
rivalità individualistiche, ovvero altre meschinità e grettezze di
origine piccolo-borghese. Veniamo alla questione della scarsa trasparenza nella gestione politico-amministrativa ed economico-finanziaria delle scuole e al tema della democrazia collegiale che ormai versa in condizioni estremamente fragili, critiche e decadenti. Dall’emanazione nel 1974 dei Decreti Delegati che istituirono varie forme e strumenti di democrazia collegiale nella scuola, la partecipazione alla vita e al funzionamento degli organi collegiali si è progressivamente ridimensionata e deteriorata, fino ad essere sancita solo sulla carta. Oggi il potere decisionale detenuto ed esercitato all’interno degli organi collegiali (Consigli di Istituto, Collegi dei docenti, Consigli di classe, interclasse e intersezione) esclude sempre più la maggior parte delle famiglie, degli studenti, del personale docente e non docente. In pratica l’esercizio del potere politico-decisionale nelle singole realtà scolastiche è riservato ad una ristretta cerchia oligarchica formata dal Dirigente scolastico e dai suoi più stretti e fidati collaboratori. Esaminiamo il caso emblematico di un organo collegiale come il Collegio dei docenti. Un tempo il Collegio dei docenti era la sede deputata a discutere gli argomenti più elevati, tematiche psico-pedagogiche e didattiche, per cui gli insegnanti, specialmente i colleghi più aperti, curiosi e motivati, culturalmente preparati e coscienti, avevano modo di confrontarsi e maturare sotto il profilo intellettuale e professionale. Oggi i Collegi dei docenti sono stati ridotti a centri di ratifica puramente formale delle decisioni assunte dai Dirigenti scolastici e dai loro collaboratori. Tale avallo avviene in genere attraverso modalità procedurali assolutamente acritiche ed esautoranti, che negano ed umiliano la dignità e la sovranità dei Collegi stessi.
In pratica i Collegi
dei docenti (o, volendo ricorrere a una formula dissacrante ma
efficace, intrisa di amaro e osceno sarcasmo, i "Collegi degli
indecenti") sono diventati il luogo più alienante e passivizzante in
cui al massimo si dibatte di questioni di ordine prettamente
economico-finanziario, ma senza la necessaria e dovuta trasparenza
informativa, ovvero senza fornire tutte le informazioni e i dati
relativi al budget effettivo di spesa delle scuole. Insomma, i
Collegi dei docenti avallano senza neanche conoscere fino in fondo
l'oggetto reale sottoposto all'attenzione degli organi collegiali,
vale a dire somme, fondi e finanziamenti, in alcuni casi cospicui,
che vanno a beneficiare e sovvenzionare un'esigua minoranza di
colleghi, coincidente quasi sempre con la ristretta cerchia composta
dal cosiddetto "staff dirigenziale". Da oltre 15 anni la scuola pubblica italiana assiste ad un graduale e inarrestabile declino e indebolimento della democrazia partecipativa, in modo particolare dell’agibilità democratica e sindacale e degli spazi di libertà e legalità vigenti al suo interno. Tale processo di logoramento e di involuzione in senso autoritario e antidemocratico, è dovuto ai colpi letali inferti, senza soluzione di continuità, dai governi sia di centro-sinistra che di centro-destra. Nel caso specifico, le principali responsabilità politiche di tale decadimento sono da rinvenire in due momenti storico-legislativi assai importanti e determinanti: l’istituzione della legge sulla cosiddetta “autonomia scolastica” e l’applicazione della legge n. 53/2003, meglio nota come "riforma Moratti". Negli ultimi anni è stato possibile sperimentare come l’avvento della tanto decantata "autonomia scolastica" e l’attuazione della succitata "riforma Moratti", non hanno sortito esiti apprezzabili in termini di apertura della scuola verso le reali esigenze del territorio. La mera formulazione giuridica della "autonomia" non ha stimolato le singole scuole ad esercitare un ruolo davvero incisivo e trainante, di intervento critico-costruttivo e di promozione culturale rispetto al contesto socio-economico e politico di appartenenza. In molti casi, le istituzioni scolastiche ribattezzate come "autonome", hanno assunto una posizione subalterna verso i centri di potere vigenti nelle realtà locali, e mi riferisco anzitutto alle Pubbliche Amministrazioni, assolutamente incapaci o restie a supportare finanziariamente un arricchimento della qualità dell’offerta formativa delle scuole.
A tutto ciò si
aggiunga un progressivo imbarbarimento dei rapporti interpersonali,
sindacali e politici tra i lavoratori della scuola, in quanto questa
è diventata il teatrino di sempre più estese e laceranti
conflittualità. Questi fenomeni di disgregazione sono una
conseguenza prodotta proprio dalla tanto osannata "autonomia", nella
misura in cui tale provvedimento normativo non ha generato un
assetto organizzativo stabile, equo ed efficiente, ma in moltissimi
casi ha generato solo confusione, contrasti, assenza di certezze,
violazione di regole e diritti, sia sindacali che democratici,
favorendo e incentivando comportamenti furbeschi, autoritari ed
arroganti, esasperando uno spirito di arrivismo e di accesa
competizione per scopi prettamente venali e carrieristici. |