Intervista a Salvatore Settis

«Circolare per cancellare i crediti».

Ga.Ja.  Il Corriere della Sera, 9.6.2008

«Arrivo subito al punto: mi pare che la filosofia di questa riforma — del modo in cui è stata fatta e, soprattutto, con cui è stata applicata — sia quantitativa e non qualitativa». Il che, quando da ormai 9 anni si è direttore della Normale di Pisa, la più famosa scuola superiore universitaria del Paese, non è un particolare da poco. Per Salvatore Settis, anzi, è la parte che determina l'esito del tutto.

Però è un fatto, professore, che con la riforma l'età media della laurea si è abbassata.
«Ma l'importante non è tanto abbassare i tempi, quanto creare sbocchi lavorativi. La mia impressione è che in questi anni la possibilità di trovare lavoro si sia, al contrario, ristretta; e allora, la tempistica a che cosa serve? Un ragazzo può anche accumulare 5 lauree, e restare disoccupato».


La moltiplicazione dei titoli, appunto: dai dati AlmaLaurea emerge la tendenza a proseguire gli studi. La laurea non basta più?

«Tutto è da ricondurre all'aspetto quantitativo di cui parlavo poc'anzi. Un orientamento confermato dal proliferare di master, livelli, esami e crediti. Un trionfo della quantità in cui non vedo vantaggi: non si sta traducendo né in una modifica positiva del mercato del lavoro, né in un innalzamento della qualità».
Il nuovo sistema, dicevano, ci avrebbe equiparato al resto d'Europa. Era il famoso «patto» di Bologna, per armonizzare i sistemi di istruzione superiore...

«È stato detto che la dichiarazione di Bologna rappresentava un'imposizione dell'Unione Europea; in realtà era un patto tra atenei di vari Paesi, che si poteva seguire o meno. La Gran Bretagna, per dire, non ha certo modificato il proprio sistema per adeguarsi a noi. Ma l'aspetto più negativo è l'interpretazione "all'italiana" dei crediti: un gioco puramente al ribasso».


Vale a dire?

«Da noi sono diventati una misura quantitativa del lavoro; si suppone che a 10 o a 50 pagine di un certo libro debba corrispondere un credito formativo. Una stupidaggine. Che ha portato varie facoltà, in modo scandalosamente diffuso, a fare qualcosa che la legge non imponeva: individuare per ogni materia un tetto massimo di pagine. Anziché creare un limite minimo per spingere a superarlo, si è fatto il contrario».


C'è chi sostiene che buona parte delle colpe di questa «licealizzazione» vadano addossate alla classe docente.

«Credo anch'io che la colpa principale sul come è stata applicata la riforma sia dei professori. Ma poteva essere un'innovazione positiva, purché graduale; Berlinguer aveva proposto di introdurla in via sperimentale in alcuni atenei, e invece è stata imposta in un anno. E come si fa ad applicare una riforma universitaria che prescinde dalla cultura degli universitari? Neanche in uno Stato totalitario... Quindi, i docenti avranno molte colpe, ma ne ha ancor di più chi ha imposto loro un prezzo che non erano preparati a pagare».


Condivide il giudizio negativo sulla «corsa al master»?

«Lo stesso uso che in Italia si fa di questo termine dimostra che non sappiamo bene di cosa stiamo parlando. Esistono master che durano uno o 2 anni, altri di una settimana o un mese, pezzi di carta dal valore discutibile. Ho l'impressione che siano una specie di parcheggio per disoccupati, in un processo inflazionistico generalizzato».


Cosa può fare il ministro per frenarlo?

«Innanzitutto studiare comparativamente come funzionano gli altri Paesi, e come innovare senza allontanarsi dalla tradizione. Poi, calibrare i titoli di studio sul mercato del lavoro: se con la laurea triennale in Lettere non si fa nulla, allora è inutile averla. Poi, creare un sistema in cui qualità e merito siano centrali, non semplici "incidenti"».


Il 3+2 è da abolire?

«Non dimentichiamoci che di troppe riforme si muore... Tenendo quella griglia, si può ragionare su come farla funzionare. Soprattutto, però, va cancellata la vergogna dei crediti intesi come calmiere, come disincentivo a fare bene. Basterebbe una circolare del ministro».