Lo scrittore francese confessa nel nuovo romanzo da oggi in libreria
i suoi problemi scolastici: «Ero un pessimo alunno, le domande mi terrorizzavano.
Per questo, da insegnante, ho cercato di guarire i ragazzi dalla paura» .

Daniel Pennac, il successo del somaro.

Somari Coraggio, non tutto è Perduto.

di Francesca De Sanctis da l'Unità del 21.2.2008

 

C’è speranza anche per il più somaro della classe. Per chi colleziona sfilze di 2 in matematica e per chi ha sempre preso zero assoluto nel dettato. Se perfino Daniel Pennac - sagace autore di fortunati romanzi che ruotano attorno alla figura di Benjamin Malaussène - andava male a scuola, non vale davvero la pena strapparsi i capelli davanti ad una pagella disastrosa. In fondo anche l’idiozia può trasformarsi in qualcosa di buono. E lo dice uno che da Pennacchione è diventato Pennac... come ci è riuscito? «Semplice - ammette lo scrittore francese -. Col tempo si evolve, si cresce, si matura».

«Io ho impiegato un anno intero per imparare la lettera a, ma mio padre continuava a ripetermi: “non ti preoccupare, a 26 anni saprai tutto l’alfabeto!”». Un uomo simpatico e molto ironico il padre di Pennac. Più scettica la madre: «Non si è mai ripresa dal fatto che il terzo dei suoi quattro figli andasse male a scuola». Perfino anni dopo la scuola dell’obbligo, nonostante i libri pubblicati, le lezioni all’università e i convegni, le domande della madre, come per tutte le madri, sono sempre le stesse: che cosa fai nella vita? Ce l’hai una casa?

Della sua infanzia da somaro in Diario di Scuola (Feltrinelli, pagine 252, euro 16,00), da oggi in libreria, Pennac racconta aneddoti divertenti, vicende personali che come in una partita di ping pong rimbalzano dal banco alla cattedra e viceversa, intrecciando il punto di vista di un bambino con quello di un insegnante. «Eppure all’inzio mi applicavo - scrive nelle prime pagine del libro -, rifinivo le lettere meglio che potevo, ma piano piano le lettere si trasformavano in quegli esseri allegri e saltellanti che se ne andavano a folleggiare altrove, ideogrammi della mia sete di vivere». Sono gli stessi omini che oggi disegna generosamente sulle copie dei libri da autografare. Del resto, in una delle sue pagelle scolastiche, alla voce «Arte e immagine», la sua insegnante aveva scritto: «disegna ovunque, tranne che in classe». Almeno da questo punto di vista le cose non sono cambiate! Ma perché scrivere un libro sulla scuola dal punto di vista dei «somari»? «Da tempo volevo scrivere qualcosa sulla sofferenza del non capire - spiega -. Ho impiegato quattro anni per farlo. Naturalmente è un libro molto autobiografico, io ero un pessimo alunno. Una volta raggiunta la maturità, a 20 anni (mentre la media è di 17-18), e sono diventato professore, ho cercato di capitalizzare questi miei fallimenti scolastici. Mi sono detto: come mai un alunno, anzi un bambino, perché l’essere alunni è una ragione sociale, prova tanto dolore a mantenere questo suo ruolo sociale? La mia risposta è semplice: la paura. Di cosa? Delle domande che gli possono essere rivolte. Tutta la nostra identità si gioca nella risposta. E non esistono domande elementari per un bambino. Ecco, il mio status scolastico di somaro era legato al terrore assoluto nel quale mi gettava la minima domanda. Da insegnante, ho capito che la prima cosa da fare era aiutare i ragazzi a guarire dalla paura. Si trattava di aprire parecchie porte, ma questo è il nostro mestiere. Amen...».

Visto che la nostra identità si gioca nelle risposte, ecco che per i politici evitare una domanda può significare «adeguare l’identità vera all’immagine che va proiettata sul pubblico» osserva lo scrittore. «Di solito investono molto nella seduzione. Sarkozy lo ha fatto al 100%, ma della sua relazione con Carla Bruni non mi interessa. Se un politico è poco seducente significa che è onesto». Pennac preferisce non parlare delle nostre vicende politiche, ma dice di aver conosciuto Walter Veltroni: «Mi è sembrata una persona piena di energia». E anche sulla scuola italiana si limita a dire che la situazione non è molto diversa da quella francese: «Il vero problema dei professori non è la formazione, ma la concorrenza che viene fatta dalla società consumistica e mercantile. I nostri ragazzi sono fin dalla nascita e fino alla fine degli studi, prima di essere bambini e alunni, clienti. Sono clientelizzati da una società che da subito fa passare il desiderio di consumismo come un bisogno fondamentale. Oggi l’amore dei genitori viene misurato con il metro del regalo ricevuto. L’insegnante, dunque, si trova di fronte questo costante desiderio vissuto dal bambino come un bisogno fondamentale, mentre egli si rivolge al loro bisogno reale: leggere, scrivere, contare, ragionare». In fondo qual è il lavoro dell’insegnante? «Infondere nei bambini il desiderio di imparare, infrangere lo schermo creato dalla società e risvegliarlo. In altre parole aprire la mente - oddio sembro sempre di più un pastore protestante!». La scuola, aggiunge, è come YouTube, dipende tutto da come la usi: «io stesso mi metterei lì ad usare YouTube solo per il gusto di fuggire via». La scuola, continua, «è fatta di insegnanti bravi e non bravi. Se è riempita di buoni contenuti allora il suo utilizzo è fondamentale. Perché in fondo sono gli insegnanti che possono salvare i ragazzi dalla scuola stessa, dalla famiglia e da una società consumistica che ne condiziona i bisogni. Per quanto riguarda gli insegnanti delle scuole superiori credo che debbano seguire degli stage presso le scuole elementari con una frequenza costante... In Francia, ma penso anche in Italia, cerchiamo sempre un capro espiatorio nella scuola. La frase “gli mancano le basi” significa “non è colpa mia, ma dell’insegnante precedente”. Sarebbe salutare che gli insegnanti frequentassero corsi di aggiornamento a tutte le tappe della scolarizzazione».

Ma cos’è che manca davvero in questa società? «Ad essere sincero, quello che tragicamente ci manca - dice Pennac - è più intimità, silenzio, solitudine, riflessione, sogno, lentezza e gratuità».