In margine a "Il rischio educativo"
di Don Giussani.

Gennaro Lubrano Di Diego, da DocentINclasse, 29.2.2008

 

Molto spesso, quando tra gli insegnanti si discute di come si deve impostare una lezione su un argomento verosimilmente controverso e dibattuto oppure di come comportarsi, in classe, di fronte ad una questione culturale, etica, filosofica, storiografica, politica o persino estetica, che chiama in causa un giudizio, un’interpretazione o, come si dice in termini inutilmente troppo tecnici, il conflitto tra diverse prospettive ermeneutiche, inevitabilmente, in mezzo a noi, si trova chi, con tono serioso e non privo di riferimenti anglofili alle moderne “chiacchiere” che il didattichese dominante propina, si impanca a sermoneggiare sulla necessità, per il docente, di mantenersi neutrale, di non entrare nel merito della questione in oggetto, di difendere la pari legittimità dei diversi punti di vista in gioco (anche quando alcuni di questi sono palesemente incongrui e improbabili), di guidare la discussione senza interferire con giudizi di valore, di sollevare dubbi, di alimentare domande, di sparigliare le carte in modo da evidenziare la complessità della problematica in oggetto, di suggerire al più procedure metodologiche e formalistiche.
Intendiamoci, molti di questi suggerimenti sono dettati da una preoccupazione lecita, che è quella di evitare di condizionare eccessivamente la formazione del punto di vista che i ragazzi autonomamente devono elaborare con il peso di un giudizio o di una valutazione, che, provenendo dal docente, soprattutto se stimato e considerato, inevitabilmente determinerebbe una strozzatura della discussione e del libero dibattito. Insomma, si vorrebbe determinare la crescita dei ragazzi senza interferire oltremodo con l’indicazione di valutazioni, modelli, giudizi.

E tuttavia, la mia esperienza ormai quasi ventennale di insegnante mi suggerisce che tutto questo corredo impeccabile del docente politically correct non basta, non è sufficiente e che esso, molto spesso, produce negli studenti una sensazione amarostica di delusione, quasi che costoro avvertissero di essere rimasti a “bocca asciutta” dopo promesse mirabolanti di esaustive chiarificazioni e di approfondimenti esaurienti relativi a problemi vitali.
Non voglio dire che si debba dare loro l’impressione che l’acquisizione culturale non comporti uno sforzo e una fatica inevitabili, che non sia necessaria quella “fatica del concetto” così imprescindibile alla formazione della coscienza; né intendo sostenere che l’insegnante debba, per dir così, togliere loro le castagne dal fuoco e con una decisione improbabilmente sacerdotale stabilire quale punto di vista privilegiare o sostenere. Non è questo.
E’ che, da un po’ di tempo a questa parte (ma questo ha a che fare solo con i tempi lenti della mia maturazione professionale, perché forse le cose sono andate sempre così), mi vado convincendo che i nostri ragazzi – in forme diverse, abborracciate, umorali e inesplicitate in alcuni, più definite, organizzate ed elaborate in altri – cercano risposte non solo alle loro inevitabili ansie, connesse alla loro crescita di adolescenti, ma anche al vuoto di senso e di significato che il nostro mondo sempre più esprime, imbellettando la voragine metafisica del nostro tempo con i lustrini dell’apparenza, dell’edonismo effimero e con i miti di una modernità tendenzialmente idolatrica. Ora, rispetto a tutto ciò un’educazione che si limiti ad illustrare, con lo spirito dell’equidistanza falsamente egualitaria e in maniera indifferenziata, opzioni culturali e gerarchie normative e non, invece, a proporre – attenzione, a proporre, non ad imporre! - modelli educativi organici, sostanziati dall’autorità di una Tradizione e supportati da comportamenti civici conformi a tali modelli, non appare una risposta “debole” all’esigenze valoriali che il nostro mestiere esprime?
Intendiamoci bene, so per certo che le cattedre non sono pulpiti dai quali dispensare certezze dottrinarie oppure palchi dai quali catechizzare le masse spaesate dei nostri giovani; questo mi è chiaro, e nell’esercizio della mia professione cerco di rimanere fedele a questo assunto, tentando, agli occhi dei miei studenti, di differenziare – dichiarendole – le presentazioni dei problemi dai giudizi di valore e dall’indicazione di modelli culturali, alla proposta dei quali pure non mi sottraggo. Eppure, fermo restando ciò, io non dimentico che educare, nel suo senso etimologico, significa dirigere una persona a trovare la sua strada attraverso la proposta di modelli culturali e gerarchie di valori. Se manca la proposta culturale da offrire alla libera determinazione dei ragazzi, quel viaggio che i giovani devono intraprendere alla conquista di sè somiglia – come ha acutamente fatto osservare Paola Mastrocola – più ad un pascolare che ad un cammino di ricerca, orientato da scelte e opzioni di valore.

Questa lunghissima premessa, per dire che a queste cose pensavo dopo la stimolante lettura di quel bellissimo libro di don Giussani, IL RISCHIO EDUCATIVO, Rizzoli editore, a cui ho fatto riferimento in un mio precedente post. Con una prosa densa e irta, che non concede nulla alle vezzosità del letterato, mantenendo una tensione alta e ruvida sulla sostanza delle problematiche analizzate, Giussani va al cuore di alcune emergenze educative, sulle quali rimugino da tempo.
Devo dire che, fino a qualche anno fa, la propaganda laicista da un lato e alcuni atteggiamenti devotamente integralisti di CL e dei seguaci di don Giussani dall’altro, avevano fatto sì che io mi tenessi lontano dalla lettura dei testi del religioso lombardo.
Sbagliavo.
Infatti, le opere di quello che nella galassia del cattolicesimo italiano viene ritenuto l’ispiratore di un movimento ecclesiale vivace e polemico, che non si è fatto scrupolo di brandire provocatoriamente, in un mondo scristianizzato e nichilista, il vessillo della tradizione cristiana e di rivendicare la vitalità della Parola di Cristo, andavano assolutamente lette, senza puzze al naso e idiosincrasie ideologiche che apparivano, a me, sempre più il portato di una presunzione di autosufficienza culturale difficilmente sostenibile. In particolare, andavano lette di don Giussani le opere nelle quali maggiormente si è espresso il suo magistero di educatore della gioventù: un educatore, certo, cristiano, anzi cattolico, ma capace di parlare anche a chi si sente estraneo alla sensibilità religiosa, di interpellare la coscienza inquieta dell’uomo moderno, decifrandone il bisogno di risposte che conferiscano un senso forte alla vita. E’ con questo spirito che ho letto IL RISCHIO EDUCATIVO, perché ho avuto la sensazione che don Giussani ha volutamente giocato la sua esperienza di fede sul fronte dell’educazione e della formazione dei giovani, a contatto, quindi, con il naturale nichilismo del nostro tempo. E questo mi ha incuriosito. Se poi si aggiunge il fatto che da un pò cominciò a riflettere, sotto le illuminanti provocazioni di amici e colleghi, sui limiti di un'impostazione laicista della scuola e sul fondamentale vuoto di qualsiasi proposta culturale unitaria che negli istituti statali si perpetua, naturalmente seguito dal conseguente scetticismo e disincanto, esteriore e nemmeno formalizzato, nella coscienza degli studenti, allora ci si può spiegare la timida e circospetta scoperta che ho fatto di Giussani.
Il libro fa perno su una tesi che funge da apripista ad altre due considerazioni rilevanti; essa esprime la convinzione che “per educare occore proporre adeguatamnete il proprio passato. Senza questa proposta del passato, della conoscenza del passato, della tradizione, il giovane cresce cervellotico o scettico”. Tale considerazione di Giussani coglie un nodo nevralgico dell’insegnamento oggi, in quanto nella scuola superiore statale si è insinuata la convinzione che il tasso della sua laicità si misura dalla capacità del docente di essere “neutro rispetto ai valori”. Il risultato di questa sterilizzazione culturale dell’insegnante, ridotto ad un arbitro nella lotta tra simulacri e muto perché zittito da catele metodologistiche del tutto incongrue, che sottintendono una tacita adesione a modelli culturale relativistici, è che il giovane, privato di un’ipotesi di significato “forte” della vita e della realtà, un’altra ipotesi di lavoro se la inventa, scegliendola senza consapevolezza critica tra i miti del Tempo Presente.
Proporre i tesori della nostra tradizione culturale e spirituale, secondo Giussani, naturalmente non può e non deve essere un’operazione astratta; infatti, “il passato può essere proposto ai giovani solo se è presentato dentro un vissuto presente che ne sottolinei la corrispondenza con le esigenze ultime del cuore”. Che è come dire che la vitalità del passato deve apparire dentro il vissuto presente dei giovani, conferendo ad essi ragioni, valori ed illuminandone la crescita.
Poste queste due condizioni, ha pienamente senso il parlare di “educazione critica”, intesa, però, non come il vacuo blablabla su contenuti vaghi e nemmeno sufficientemente interiorizzati, ma come l’atto attraverso il quale il giovane assume il passato e le sue ragioni, lo mette davanti ai propri occhi, se lo rappresenta, paragonandolo con la sua esperienza, ed infine lo accetta o lo rifiuta. Anche su questo punto le parole di Giussani appaiono illuminanti in relazione ad un modo balordo di concepire l’educazione alla critica, molto in voga nella aule scolastiche, e che presuppone che gli studenti possano avere diritto a discettare di tutto, impancandosi a severi censori del passato - semmai sbarazzandosi goffamente di interi secoli della nostra tradizione culturale - senza nemmeno possedere i “fondamentali” che garantiscano quella serietà necessaria a qualsiasi giudizio.

Tradizione, vissuto presente e critica costituiscono le coordinate fondamentali del discorso educativo di Giussani, maturate, naturalmente, nella pastorale educativa dell’uomo di fede, ma utilmente trasferite anche sul piano dell’azione pedagogica nella scuola, dove la fede viene proposta – conformemente alla densità teologica della dottrina cattolica – come alleata della ragione, anzi suo esito ultimo e coronamento.

Al di là di questi ultimi aspetti più specificamente spirituali, ciò che interessa e coinvolge nelle pagine del testo di Giussani è l’attacco esplicito al residuo fondamentalmente nichilista del razionalismo moderno che, sul piano educativo si esprime nella pretesa di negare l’evidenza del reale a tutto vantaggio di una concezione prometeica e solipsistica del soggetto, svincolato da qualsivoglia confronto con criteri a lui trascendenti. Per Giussani, questo indirizzo di pensiero produce delle conseguenze gravissime sui giovani perché li sollecita a camminare senza un indirizzo preciso, producendo dispersione e incertezza. E il risultato di tutto ciò è “quell’indifferenza e quel disamore, quella tremenda carenza d’impegno con la realtà che assume così spesso aria di smarrita o amaramente distaccata derisione per ogni serio invito a quell’impegno”.

Non poteva mancare, nel discorso di Giussani, un esplicito riferimento all’influsso della mentalità laicistica nella scuola - si badi “laicistica” e non laica – cioè una mentalità che oggi definiremmo relativistica, in quanto essa “non si cura di offrire aiuto per l’effettiva presa di coscienza di un’ipotesi esplicativa unitaria” del reale. Nota Giussani, infatti, che “la predominante analiticità dei programmi abbandona lo studente di fronte ad un’eterogeneità di cose e a una contradditorietà di soluzioni che lo lasciano, nella misura della sua sensibilità, sconcertato e avvilito d’incertezza”; così, lo scetticismo diventa l’humus su cui si forgia l’anima dello studente. Di fronte a queste considerazioni, elaborate qualche decennio fa, in una fase nella quale la scuola manteneva ancora un suo profilo di ricercato rigore, siamo indotti a pensare che cosa avrebbe detto Giussani dell’attuale scuola dell’autonomia, nella quale l’eclettismo e il sincretismo più spinti appaiono come la malattia estrema di quel vizio scettico allora appena emerso.

In questa contestazione della scuola “laicistica” e della sua mentalità, Giussani fa valere il meglio del suo talento di polemista, in quanto attacca il sancta sanctorum del “laicismo” e cioè l’idea che “per la libertà del singolo ragazzo occorra che esso da solo si formuli la sua unitaria concezione delle cose” e che a questo fine sia preziosa la pluralità e la diversa impostazione ideologica degli insegnanti. Giussani obietta a quello che sembra a tutt’oggi un principio fondamentale della scuola laica che “l’esperienza insegna che il risultato del prematuro confronto con contrastanti idee sui problemi fondamentali dell’interpretazione della vita disorienta il giovane”, “lo butta allo sbaraglio”, inducendone pericolose derive scettiche, oppure determinando altrettanto pericolosi rinculi integralistici, risultato di una perversa reazione ad una condizione di dispersione spirituale.

Su questo piano, al di là del giudizio critico che Giussani propone sull’esperienza di pluralismo ideologico della scuola laica, quello che colpisce il lettore attento e privo di pregiudizi ideologici risiede nell’incontestabile effetto di spaesamento che, spesso, sui giovani produce la polifonia culturale sottesa ai vari insegnamenti impartiti nella scuola; noi, a differenza di Giussani, non sappiamo se sia corretto caricare ciò sulle responsabilità della scuola laica; quello che notiamo, come operatori della scuola, è che, talvolta, la scuola “neutra ai valori”, perché fondamentalmente relativistica, produce pericolosi effetti qualunquistici e nichilistici nei giovani.

Il discorso di Giussani, in questo preziosissimo libro, si chiude con un riferimento all’attualità, nella scuola, dei concetti di Autorità e Comunità. A sgombrare il campo da qualsiasi sospetto reazionario, don Giussani sottolinea che “l’esperienza dell’autorità sorge in noi come incontro con una persona ricca di coscienza della realtà; così che essa si impone a noi come rivelatrice, generando in noi novità, stupore, rispetto”. All’Autorità è delegato il compito della proposta culturale e dell’indicazione di un orizzonte di valori, ad essa si rivolge il giovane nel processo della sua educazione, che è paragone continuo con le posizioni altrui. La conseguenza di questa valorizzazione educativa dell’Autorità consiste nel richiamo, rivolto agli educatori, veicolo principe dell’Autorità, alla coerenza, essendo questa un fattore indispensabile di credibilità.

Infine, per cio che concerne la nozione di Comunità, Giussani sembra prevederne lo stato di collasso che essa vive all’interno delle istituzioni della scuola di Stato. Infatti, egli dice che “la scuola neutra, nella sua assenza di preoccupazione ideologica unitaria, è incapace di generare vere comunità: col che priva il giovane di una struttura capitale per la sua stessa personale ricerca”. Ora, noi non abbiamo la solida tempra spirituale di Giussani e non sappiamo cosa possa essere sostituito alla scuola nella quale lavoriamo; tuttavia, quello che sappiamo, perché lo sperimentiamo ogni giorno, è che l’eccessivo eclettismo culturale, così come il rifiuto di una proposta educativa organica che faccia riferimento a valori condivisi, ha determinato nel tempo, all’interno della scuola pubblica, una difficoltà a fare comunità, la quale difficoltà è riempita con un’ideologia comicamente aziendalistica che non è strutturalmente in grado di venire incontro a quella domanda di significati da cui una scuola nasce. E ciò se può apparire un problema irrilevante per chi crede che la scuola debba formare consumatori e utenti inebetiti, è invece un colpevole delitto per chi ritiene che la scuola debba continuare ad essere comunità educante