GLI ANNI DELLE PROMESSE MANCATE.
IL GOVERNO PRODI E LA POLITICA UNIVERSITARIA.

di Giliberto Capano 19.2.2008.

 

I due anni del governo Prodi II sono stati davvero malinconici per l’università italiana. A fronte di tante promesse, e di tante speranze, ben poco è stato realizzato. Come mai? Non si è trattato di assenza di idee e di soluzioni, perché queste, condivisibili o no, cerano. Semplicemente non si è riusciti a perseguire e a concretizzare un elemento essenziale per ogni strategia di governo delle politiche: mettere le persone giuste (politici e dirigenti amministrativi) al posto giusto. Senza questo elemento imprescindibile è stato impossibile affrontare con successo la percezione sociale, largamente condivisa, che l’università serva a poco.

 

La vittoria del centro-sinistra nel 2006 aveva acceso molte speranze in tutti coloro che continuano a credere che sia possibile salvare il sistema universitario italiano dal baratro nel quale lentamente sta sprofondando. Il programma elettorale proponeva alcuni punti importanti: arrivare a 10 miliardi di euro di finanziamento all’università nel corso della legislatura, a fronte dei 7 miliardi scarsi di partenza, nuove regole per i concorsi universitari, l’implementazione delle procedure di valutazione, una legge sull’autonomia universitaria, la correzione della riforma del 3+2, finanziamenti di livello europeo per il diritto allo studio, e altro ancora: al di là della retorica era un buon programma (forse una delle parti migliori e meno evanescenti delle 281 pagine del "mitico" programma dell’Unione). Quali gli obbiettivi raggiunti nei due anni che il governo Prodi ha potuto sopravvivere? Scarsi, decisamente.

Tra le poche cose fatte vi sono certamente la conclusione del percorso di formulazione normativa del dm 270/04 (la riforma della riforma del 3+2), la definizione del quadro normativo per la costituzione dell’ANVUR (l’agenzia per la valutazione del sistema universitario e della ricerca) e il regolamento sulle nuove modalità da ricercatore (merita osservare però che l’attuazione dell’ANVUR e delle regole per nuovi concorsi per ricercatore è, di fatto, demandata al prossimo governo…). Per il resto qualche briciola (un paio di migliaia di posti da ricercatori aggiuntivi per il triennio 2007-2009), qualche buona azione (uno stop alle università telematiche), tante buone idee (come quella di rilanciare il dottorato, ad esempio) e basta. A fronte di questi scarsi successi, abbiamo avuto una avvilente debacle sul fronte delle risorse: la finanziaria 2007 ha tagliato di 300 milioni il finanziamento alle università, la finanziaria 2008 prometteva qualcosa (550 milioni di euro) e alla fine, forse, ne darà un paio di centinaia. I Progetti di Interesse Nazionale (cioè a dire i progetti che finanziano la ricerca di base universitaria) per il 2007 sono partiti con sei mesi di ritardo (si erano persi i soldi…) e ancora ne attendiamo l’assegnazione. Ad agosto 2007 i ministri Padoa Schioppa e Mussi avevano proposto un patto all’università, in cui si promettevano risorse aggiuntive legate ad una valutazione seria. Non è successo nulla, ma si sa, la politica ad agosto ama cicalare. Che dire poi dei concorsi per le fasce professorali? Bloccati da due anni perché la legge 230/05 fatta approvare dal ministro Moratti presenta notevoli problemi di attuazione: bene, ma se è una legge è mal fatta la si cambia. E invece niente. La riforma della riforma del 3+2, poi, se si caratterizza per tentare di porre dei limiti alla fantasia creativa, e conservatrice, di noi professori universitari, al tempo stesso mostra una particolare propensione alla smania normativa, alla regolamentazione minuta di qualsiasi aspetto delle attività didattiche. Ma si sa, quando non si è capaci di governare si legifera, si norma, si regola.

Insomma, si tratta di un bilancio davvero poco significativo, ai limiti del risibile. Le grandi promesse sono svanite nel nulla. Tante energie spese da parte di alcuni individui (pochi per la verità) con ruoli istituzionali, totalmente vanificate. Come è stato possibile? Credo che una riflessione sull’inconcludenza del governo Prodi sull’università sia importante e necessaria, a futura memoria, per imparare.

Nel caso della politica universitaria ritengo che siano solo parzialmente rilevanti i fattori strutturali che hanno reso "debole" il secondo governo Prodi. La frammentazione della coalizione, la sua debolezza parlamentare, la flebile leadership sono stati elementi "lontani", di "sfondo". A contare sono stati altri fattori. Tra questi i più rilevanti sono almeno tre:

  1. La sostanziale irrilevanza sociale dell’università e il discredito di cui essa gode all’esterno. Piaccia o non piaccia l’università italiana non è considerata dai cittadini e dalla sua classe politica come un’istituzione utile. Non è un fattore di mobilità sociale. Quindi a che serve? D’altra parte quando si tratta di recuperare risorse finanziarie (come nel caso dell’ultima legge di bilancio in cui, dovendo "pagare" le pressioni degli autotrasportatori, si sono sottratti 30 milioni dal capitolo università), questa percezione dell’irrilevanza del settore universitario emerge con indiscutibile evidenza. A questo proposito mi sia consentito di rammentare una piccola vicenda personale che considero assolutamente significativa. Nell’autunno del 2006 ebbi l’occasione di poter rivolgere alcune domande sul disegno di legge finanziaria-2007 al ministro Padoa Schioppa. Gli feci osservare quanto fossero poco condivisibili le norme sull’università che esso prevedeva (lacci, laccioli, vincoli di spesa, ecc.). Lui mi rispose con grande durezza e con evidente convinzione: "Caro professore, lei ha ragione. Queste norme sono rozze. Ma non è colpa nostra se le università non sono capaci di governarsi". Io pensai che se anche una persona che stimo immensamente, di grande cultura e senso dello Stato come Padoa Schioppa mostrava un tal disprezzo per l’università, la situazione era davvero irrecuperabile.

  2. La pessima scelta del personale politico messo a capo del ministero. Mettere insieme il ministro Mussi e i sottosegretari Modica e Dalla Chiesa sarà servito alle alchimie della coalizione, ma di certo ha creato un mix assai male assortito. Un ministro certamente intelligente ed abile retore, ma assai poco interessato a "governare" e più interessato a "fare politica" (come non ricordare che Mussi ha prospettato in almeno un paio di occasioni le dimissioni a causa di una disattenzione del governo alle esigenze finanziarie e che queste dimissioni non si sono mai concretizzate nonostante, di fatto, nessuna delle richieste avanzate fosse stata accettata). Un sottosegretario assai esperto di tematiche universitarie con il difetto di appartenere sì allo stesso partito del ministro, ma ad una corrente diversa. Un altro sottosegretario, peraltro professore universitario, al quale sono state assegnate deleghe marginali. Non poteva funzionare. E per rompere la cappa di sfiducia collettiva rispetto all’università e riuscire a indirizzare un’azione efficace c’era bisogno che a capo del ministero vi fosse un gruppo di politici competenti, motivati e coesi.

  3. Un apparato dirigenziale del ministero caratterizzato da una cultura amministrativa tradizionale, legata ad una concezione formalista e legalista del ruolo. In casi di questo tipo se la dirigenza apicale degli apparati non viene immediatamente sostituita essa costituisce uno dei principali vincoli all’azione dei decisori politici. Non avere il coraggio di procedere in questo senso si è rivelata dimostrazione di inadeguatezza a governare.

Si possono avere belle idee per cambiare la politica universitaria, si possono fare tante promesse, ma per cambiarla davvero è necessario disegnare e perseguire un’azione strategica di ampio raggio, individuando politici capaci (di trattare con i propri colleghi, di costruire strategie negoziali con gli attori esterni) e dirigenti competenti, leali ed orientati al cambiamento. Ed è necessario che i governi non prendano solo atto delle difficoltà che le università hanno nel governarsi, ma anche che abbiano la voglia e il senso di responsabilità di cambiare questo stato di cose.

Senza questi elementi qualsiasi promessa per l’università sarà sempre una promessa mancata.