L'utopia del merito
tra autonomia ed antiscuola

Paolo Mazzocchini da DocentINclasse, 6.12.2008

Mentre, con una mano, cala pesantissima la falce sui finanziamenti alla scuola, la ministra Gelmini tiene alto, con l’altra, il vessillo del merito e della qualità.

Cercherò di dimostrare nella maniera più breve e più concreta possibile che i due obiettivi sono tendenzialmente incompatibili. Cioè che la realizzazione coerente del primo (i tagli e la razionalizzazione selvaggia) finirà per impedire quella del secondo (la valorizzazione del merito di alunni e docenti) se non si adotteranno delle opportune contromisure.

La diminuzione drastica dei già scarsi finanziamenti alla scuola pubblica produrrà infatti, tra le altre prevedibili conseguenze (taglio delle cattedre, licenziamento di migliaia di precari – compresi molti giovani meritevoli -, megaclassi ingovernabili), anche una accelerazione del processo della cosiddetta ‘autonomia’ degli istituti.

In effetti una delle poche certezze (oltre ai tagli) emerse dalle varie esternazioni della ministra è che l’autonomia, lungi dall’essere ridimensionata, verrà ulteriormente rafforzata: vale a dire – sic stantibus rebus - che i presidi saranno manager plenipotenziari di scuole-fondazioni sempre più dipendenti da sponsor privati locali; che i pochi docenti neoassunti saranno reclutati per cooptazione discrezionale dai presidi stessi; che le varie scuole di un territorio si faranno sempre più guerra, le une contro le altre armate, per accaparrarsi iscritti a suon di dispendiosi battage pubblicitari e di offerte formative le più scintillanti e appariscenti possibili.

Insomma: il triste scenario cui l’autonomia ci ha abituato negli ultimi anni non solo non verrà rimosso ma si farà sempre più plumbeo e tetro.

Perché - va detto senza perifrasi - proprio la tanto decantata autonomia è stata in realtà una delle maggiori cause, se non la principale, del disastro culturale ed educativo della nostra scuola recente.

Tra gli altri mali, l’autonomia ha partorito in particolare nel grembo della scuola italiana quel mostro (ancora poco noto all’opinione pubblica) che io chiamo Antiscuola.

Per Antiscuola intendo tutto ciò che dentro la scuola viene oggi praticato, paradossalmente ma sistematicamente, a scapito anziché a vantaggio dell’istruzione e dell’educazione degli studenti.

Il mostro dell’Antiscuola ha molteplici teste: dalle varie attività autopromozionali (orientamenti, progetti, iniziative extra- e paracurricolari) che la scuola autonoma è costretta ad attivare per attirare iscritti, alle varie tattiche di imbonimento-intrattenimento che è indotta ad inventarsi (con vario dispendio di inutili energie e spreco di ore sottratte alla didattica vera) per mantenerseli.

Ma su questa varia teratologia non vorrei dilungarmi perché ne ho già parlato abbastanza nei miei pamphlet, soprattutto in Studenti nel paese dei balocchi.

Per dimostrare la contraddizione gelminiana di cui parlavo all’inizio basterà qui puntare l’attenzione su di un paio di ‘teste’ dell’Antiscuola più mostruose delle altre e figlie naturali ed inseparabili dell’ autonomia scolastica vigente e ventura.

La prima mostruosità è la resistenza insuperabile che una scuola ‘autonoma’ oppone naturaliter all’innalzamento della qualità culturale dell’insegnamento e al rigore della valutazione. Perché insegnare a livelli qualitativamente più alti costa più fatica agli studenti (e agli insegnanti) e valutare con serietà comporta una perdita di consensi che scoraggia le iscrizioni e indebolisce la competitività di un istituto nel suo territorio.

La seconda è che insegnanti dipendenti da un preside-manager dotato di poteri assoluti sulle loro assunzioni e sulle loro carriere non potranno – neanche volendolo- curare prioritariamente la qualità e la serietà del loro mestiere. Essi saranno altresì privati dell’autentica libertà d’insegnamento e – molto più di adesso- costretti a supportare e ad assecondare i dirigenti nella ricerca spasmodica della customer satisfaction. E saranno a loro volta valutati e ‘premiati’ non per la loro qualità didattica ma per la loro disponibilità a tenere in piedi, con varie attività logistiche e promozionali, l’immagine e l’appeal dell’istituto.

Rafforzando tout court l’autonomia non si attuerà, insomma, nessuna rivoluzione virtuosa in direzione del merito e della qualità, ma solo il peggioramento indefinito dell’esistente.

La scuola autonoma potrebbe teoricamente evitare questa china rovinosa solo grazie a robusti contrappesi normativi: programmi didattici nazionali; riduzione drastica e rigida regolamentazione delle attività promozionali, progettuali e paracurricolari; seri ed equilibrati criteri di valutazione qualitativa del docente, in entrata ed in itinere, da affidarsi non al preside ma a una qualificata commissione mista; separazione totale della funzione cosiddetta ‘strumentale’ (cioè del docente-collaboratore a vari titoli del preside in mansioni organizzative) da quella propriamente didattica; esclusione tassativa degli sponsor dai consigli di istituto; e infine, ratio extrema non del tutto indolore ma forse ormai difficilmente eludibile, abolizione del valore legale del titolo di studio.

Ma di tutto questo non v’è traccia, a quanto mi risulta, nelle parole e nei programmi dell’attuale ministra. E poi, diciamola chiara, non vi sono nozze decenti che ministra possa celebrare con i fichi rinsecchiti di Tremonti.