Risorse e rilancio della scuola di Massimo Bordignon, La Voce 19.12.2008 I confronti internazionali dimostrano che la scuola italiana ha bisogno di serie riforme strutturali. Non di tagli indiscriminati e politiche pasticciate. Ma il rilancio del sistema scolastico richiede ingenti risorse. Illusorio pensare che si possano trovare somme aggiuntive rispetto a quelle già elevate che vi si spendono. Eliminando le numerose inefficienze gestionali e organizzative del servizio, che producono un elevato rapporto docenti studenti, si potrebbero risparmiare fondi da reinvestire nell'istruzione. Oltretutto con costi sociali limitati. I commenti ricevuti a un recente articolo con Alessandro Fontana sulla questione degli investimenti nella rete scolastica richiedono qualche risposta sui dati e qualche puntualizzazione ulteriore sulle proposte, per evitare fraintendimenti.
I NUMERI DELLA SCUOLA Cominciamo con i numeri. In calce all'articolo, presento quattro documenti: Education at a glance, 2007 (di qui in avanti “Ocse”); il Quaderno bianco sulla scuola, 2007 (“Qb”, un lavoro congiunto ministero della Pubblica istruzione e ministero dell'Economia); il Rapporto intermedio sul Mpi, 2007 (“Ri”) e il Rapporto conclusivo sul Mpi, 2008 (“Rc”), i due rapporti preparati dalla Commissione tecnica sulla finanza pubblica (“Ctfp”), nell’anno in cui è stata operativa, prima che Tremonti la chiudesse. I dati che cito di seguito sono riportati e commentati in queste fonti, mentre le proposte sono indicate e discusse in maggior dettaglio nei due Rapporti della Ctfp, nella quale ho svolto il ruolo del coordinatore del gruppo sul ministero della Pubblica istruzione. Ecco i numeri principali:
SPESA 1) La spesa pubblica sull’istruzione primaria e secondaria in rapporto al Pil è in Italia approssimativamente uguale a quella media Ocse e dei principali paesi europei. Nel 2004 (ultimo dato disponibile) era pari al 3,3 per cento del Pil, mentre la media Ocse era del 3,6 per cento e quella europea del 3,4 per cento (Ocse: Table B.2, p. 208).La spesa per studente per l'istruzione primaria e secondaria è tuttavia più alta in Italia che all’estero (mentre è più bassa quella per l’università), a seguito della sfavorevole situazione demografica. Nel 2004, a parità di potere d’acquisto, era pari a 7.390 dollari per la primaria e a 7.843 per la secondaria, contro, rispettivamente, 5.832 e 7.226 nella media Ocse e 5.778 e 7.236 per la media europea (Ocse: Table B.1, p. 186).In percentuale, l’Italia spende di più per la spesa corrente, il 93 per cento, mentrela media Ocse è pari al 91 per cento (Ocse: Table B.6.2, p. 261). 2) La spesa per il personale copre l’81 per cento del totale della spesa, poco più della media Ocse (Ocse: Table B.6.2, p. 260). Comunque, il Quaderno bianco, riaggregando in modo diverso gli stessi dati per il 2003, raggiunge la conclusione che in Italia la spesa diversa dal personale copre solo il 14 per cento del totale, contro una media Ocse del 18 per cento (e il 23 per cento nel Regno Unito, il 31 per cento in Finlandia, e così via) (Qb: Tavola 1.6, p. 39). Per capirsi, ciò significa che spendiamo proporzionalmente di meno degli altri per l’edilizia scolastica, la dotazione infrastrutturale delle scuole, i servizi agli studenti (mense, trasporti) eccetera.
DOCENTI 3) L’elevata spesa per studente, e l’elevata spesa per il personale sul totale, dipende essenzialmente dal fatto che in Italia ci sono più insegnanti per studente (e personale Ata). In Italia, nel 2005, c’era un docente ogni 10,6 alunni nella scuola primaria e un docente ogni 10,7 studenti nella scuola secondaria. Le cifre corrispondenti per la media Ocse erano 16,7 e 13,4 (14,9 e 12,2 per la media europea) (Ocse: Table D.2.2, p. 260). Si osservi inoltre che i confronti internazionali sono basati solo sulla didattica frontale. Includono per esempio gli insegnanti di religione, ma escludono gli insegnanti di sostegno, che in Italia sono l’11 per cento del totale degli insegnanti. Su dati 2004, il Qb calcola che per 100 studenti ci siano in Italia 9,2 docenti di base, contro una media Ocse di 7,5, che diventano 10,7 se si considerano anche i docenti di sostegno e 11,5 se si considerano le varie figure che per disparate ragioni non insegnano (Qb: tavola 1.7, p. 41).
4) L’elevato numero di docenti
dipende, tra l’altro, dal fatto che i docenti italiani insegnano
meno dei corrispondenti esteri, tra il 10 e il 15 per cento in meno
a seconda del livello
di scuola (Qb: tavola 1.18, p. 63). Tuttavia, ciò non si traduce
proporzionalmente in una maggior spesa, perché gli insegnanti
italiani sono pagati molto di meno che in altri paesi,
approssimativamente il 10 per cento in meno a parità di ora
insegnata (Qb: tavola 1.19, p. 63). In più, la loro carriera
retributiva è straordinariamente piatta e sono assenti, o minimi,
gli elementi di retribuzione aggiuntiva che sono viceversa assai
rilevanti in altri paesi (Qb: tavola 1.21, p. 65). Anche per questo
la femminilizzazione
del corpo insegnante in Italia ha raggiunto livelli più elevati che
altrove, tra il 22 e l’8 per cento in più a seconda del livello di
scuola considerato (Qb: tavola 1.16, p. 61). In termini di
distribuzione regionale, il rapporto insegnanti-studenti è più o
meno uniforme sul territorio, con una presenza maggiore di insegnati
curriculari al Nord, dove il tempo pieno è molto più diffuso (Qb:
figura 1.19, p.45), e di docenti di sostegno al Sud (all’incirca,
c’è un insegnante di sostegno per ogni 2 studenti diversamente abili
al Nord, e un insegnante di sostegno ogni 1,5 studenti diversamente
abili al Sud, mentre la quota di alunni diversamente abili è più o
meno la stessa (Ri: tabelle 14-16, p. 151).
RISULTATI 5) In assenza di un sistema di valutazione nazionale degli apprendimenti, possiamo solo affidarci ai risultati dei test internazionali. Questi ci dicono che la scuola elementare funziona abbastanza bene, ma i risultati per i test Pisa sui quindicenni (Ocse, Qb, Ri: tabella 12, p. 149) sono disastrosi, soprattutto quelli relativo alla matematica, dove siamo al ventiseiesimo posto su ventinove paesi. Ciò è preoccupante, perché tutte le indagini mostrano una forte correlazione positiva tra i risultati di questo test e gli indicatori di sviluppo economico: crescita del Pil, numero di brevetti, capacità di adottare nuove tecnologie, investimenti in R&D e così via. 6) Né ci possiamo consolare sul piano dell’equità. Al contrario, sempre i test internazionali ci dicono che esiste una forte varianza nei risultati dei test per tipologia di scuola, per localizzazione territoriale e per singoli istituti. Nello stesso paese e con un sistema educativo formalmente uniforme sul territorio nazionale, abbiamo Singapore (il Trentino-Alto Adige) e la Thailandia (le due Isole). Più in generale, la distanza Nord–Sud è talmente elevata da risultare sostanzialmente inspiegabile, anche considerando le differenze esistenti nel contesto socio-economico, nelle risorse impiegate e nelle condizioni dell’edilizia scolastica (Rc, tabella 5, p. 223). Né le cose sono migliori in termini di equità sociale. Al contrario, tutte le analisi mettono in evidenza come la scuola italiana tenda a riprodurre, piuttosto che a correggere, le differenze pre-esistenti di classe sociale (Qb: parte 1, capitolo 3, p. 16-28). Per inciso, questo sottolinea anche la miopia di politiche tese a ridurre il tempo pieno nella scuola primaria. Le analisi mostrano come il tempo pieno, e la presenza di personale docente stabile, sia viceversa uno strumento molto efficace nel ridurre l’influenza del background familiare sulle scelte e l’esito degli studi degli alunni, oltre ad aumentare la possibilità di accesso al mercato del lavoro per le donne. Questa, in breve, la situazione. Ma forse la sintesi più efficace è rappresentata dalla figura del rapporto Ocse che mette a confronto il risultato dei test Pisa con la spesa cumulata per studente dai 6 ai 15 anni (Ocse: chart B7.2, p. 265). Mostra come l’Italia sia un chiaro “outlier” rispetto agli altri paesi: spendiamo molto (siamo al quarto posto), ma otteniamo poco (siamo al terz’ultimo posto).
LE POLITICHE PER LA SCUOLA I numeri provano al di là di ogni dubbio che la scuola italiana ha bisogno di serie riforme strutturali. Esattamente il contrario di tagli indiscriminati e politiche pasticciate, come quelle tentate dal governo, che oltretutto, come appare già del tutto evidente, non sono in grado di funzionare. In particolare, nel rapporto Ctfp, si propone: 1) l’introduzione di una valutazione universale, oggettiva, e ripetuta delle scuole: senza di questo, non siamo in grado di identificare le scuole in maggiore difficoltà e di intervenire di conseguenza. L’Invalsi ha già predisposto i test relativi, mancano solo i soldi; 2) la restituzione alle famiglie dei risultati delle valutazioni delle scuole, in particolare del “valore aggiunto” attribuito dalla scuola rispetto alla qualità degli entranti, per incentivare il controllo delle famiglie sull’operato delle scuole; 3) il rafforzamento dell’autonomia scolastica, responsabilizzando e valutando sul serio i dirigenti scolastici sulla base dei risultati delle scuole; 4) l’aumento delle retribuzioni dei docenti che sono disponibili a investire di più nella scuola, fino a prevedere l’introduzione di una carriera per gli insegnanti, basata sul merito e la valutazione periodica del loro operato; 5) l’introduzione di politiche tese a attrarre i laureati migliori nell’insegnamento, introducendo contratti formazione–lavoro fino dal momento dell’ingresso nelle scuole di formazione; 6) la ripresa degli investimenti nell’edilizia scolastica sulla base della prevista, ma mai redatta anagrafe nazionale; 7) la ripresa dei programmi di educazione degli adulti, su cui spendiamo cifre talmente basse da essere ridicole, nonostante che la qualità del capitale umano della nostra forza lavoro costituisca un chiaro vincolo alla ripresa dello sviluppo economico.
LE RISORSE PER LA SCUOLA Tutti questi interventi richiedono ingenti risorse. Dove trovarle? Certo, piuttosto che buttare via i soldi per finanziare i debiti di Alitalia o per tagliare l’Ici ai benestanti, era meglio investirli nella scuola. Ma credere davvero che un paese che ha ancora il 104 per cento di debito pubblico sul Pil, una delle più alte pressioni fiscali nel mondo, che non cresce da dieci anni e che oltretutto ha una popolazione composta per il 20 per cento da anziani, possa permettersi di investire ulteriori risorse nella scuola, oltre a quelle che già spende, è una pia illusione. L’unica alternativa è dunque quella di cercare di utilizzare meglio le risorse che già abbiamo. Per esempio, l’elevato numero di docenti per studente, causa principale dell’elevata spesa per studente, è solo in parte il risultato di scelte educative fondamentali del legislatore, quali il tempo pieno alle elementari. In buona misura, è invece il risultato di inefficienze organizzative e gestionali del servizio, come documentato in dettaglio in Qb, Ri e Rc. In particolare: 1) l’assenza di una capacità adeguata di programmazione dei fabbisogni di organico da parte del Mpi; 2) i conflitti e le sovrapposizioni di competenze tra livelli di governo; 3) orari scolastici eccessivamente lunghi, soprattutto nelle scuole professionali; 4) la presenza di incentivi perversi al livello dei dirigenti scolastici; 5) una serie di deroghe sulle dimensioni minime e massime delle classi eccessivamente generose e i cui effetti e benefici nessuno si è mai presa la briga di controllare; 6) una rete scolastica obsoleta, frammentata e inefficiente; 7) la mancanza di controlli adeguati e di verifica dei risultati sulle politiche di tutela per gli studenti diversamente abili. Rimuovendo queste inefficienze con politiche adeguate, come discusso in dettaglio nel Rc, sarebbe abbastanza facile liberare ingenti risorse in tempi ragionevoli. E se di questi temi si potesse ragionare in modo non ideologico, sarebbe anche facile vedere che tutto ciò potrebbe essere ottenuto anche con costi sociali limitati. La popolazione attuale degli insegnanti, e del personale Ata, è infatti molta anziana; l’età media è attorno ai 51 anni. Significa che nel giro di un quinquennio, lo spazio di una legislatura, andranno in pensione tra i 150mila e i 200mila insegnanti, cioè tra il 20 e il 25 per cento del totale. Se con le politiche suggerite, si riuscisse a sostituire solo in parte questo personale, si potrebbero facilmente risparmiare risorse ingenti, dell’ordine dei 4-5 miliardi di euro, per poi reinvestirle nella scuola.
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