Università: Anna Carola Freschi* La Stampa, 1.12.2008 Un aspetto per niente rassicurante dell’approccio con cui i problemi dell’università vengono affrontati in Italia, da governi di opposti schieramenti, è la carenza di analisi su cos’è e come è cambiato il lavoro dentro questa organizzazione nell’ultimo quindicennio. Nessuna riforma seria di una qualsiasi organizzazione complessa – tantomeno quando è finalizzata a produrre beni pubblici e comuni – può essere fatta senza un’analisi accurata del lavoro che vi si svolge, dei soggetti, delle funzioni, dei processi e dei rapporti organizzativi, quindi di potere, che li collegano. L’analisi del lavoro dentro l’università non si può però ridurre alla contabilità formale dei ruoli accademici inseriti a pieno titolo nelle strutture (quanti ricercatori, quanti associati, quanti ordinari). Così come non può ridursi alla conta di studenti, crediti, laureati, e forse neppure di pubblicazioni che dicono poco, per esempio, del rapporto fra risorse investite e risultati ottenuti, fra risorse e innovazione prodotta, fra investimenti immediati e risultati di medio termine, fra risultati diretti e risultati indiretti. Proviamo qui ad attirare l’attenzione su due elementi: per primo la forma di lavoro e quindi l’esistenza di una vera e propria università sommersa, fatta di lavoro precario;per secondo la trasformazione dei contenuti del lavoro accademico. I ‘ricercatori precari’ sono stimati tra i 40-60.000, a seconda dei criteri definitori. Qui ne parliamo come figure di lavoratori ‘full-time’ con contratti diversificati: assegnisti, borsisti, collaboratori, (parte dei) docenti a contratto, la stragrande maggioranza dei quali ha completato la sua formazione con un dottorato di ricerca. Il loro lavoro (ben diverso da quello dei professionisti prestati all’accademia, che offrono prestazioni circoscritte, per quanto preziose) sembra sfuggire alla ‘contabilità’ ufficiale: nessun soggetto istituzionale ha mai pubblicizzato dati accurati su questo fenomeno, difficile da analizzare proprio per la varietà contrattuale che copre mansioni simili. Nella valutazione della produttività scientifica delle strutture in cui operano, raramente rientra quella del lavoro di questi precari che invece avrebbe ragione di trovare spazio. Riforma e rilancio credibili dell’Università pubblica richiedono di tener conto anche dei forti cambiamenti intervenuti nei contenuti del lavoro accademico. L’enorme crescita delle funzioni gestionali legate alla riforma della didattica è per esempio entrata in conflitto con i bisogni della ricerca e dello stesso insegnamento. A proposito di quest’ultimo si è diffusa l’idea che si tratti di un processo di mero travasamento di nozioni in pillole dal docente ad un ‘tot’ di studenti, e con questa idea anche quella secondo cui il docente lavora solo quando fa lezione in aula. Il fatto che l’attività in aula è il prodotto di un lavoro preparatorio specifico e più generale, di studio e di ricerca, e di un’esperienza in continua evoluzione è del tutto trascurata. Per un docente universitario anche tenersi informato sull’attualità è un dovere connesso al suo lavoro, che gli permette di calare nella realtà ciò che propone agli studenti. La crescente scarsità di risorse pubbliche, un vincolo in sé, richiede poi una sempre più intensa attività nel reperimento di fondi sul mercato che, a seconda dei settori di ricerca, è costituito prevalentemente da imprese e da altri attori pubblico-istituzionali (come l’amministrazione centrale e locale), committenti con un’agenda di ricerca loro, raramente coincidente con quella dei ricercatori, in particolare quando si tratta di ricerca pura, di base e non applicata, né embedded. Ciò tende a ridurre il potenziale di innovazione ad ampio raggio per schiacciarsi sui bisogni immediati del committente. Anche il contributo dello sviluppo tecnologico al lavoro di ricerca andrebbe valutato con maggior attenzione: nuovi vincoli emergono accanto a nuove risorse. Gli investimenti strumentali infatti sono maggiori e quindi più forte il peso dei dislivelli di opportunità relative fra gruppi di ricerca; si assiste poi ad una frammentazione del lavoro cognitivo. Restano invece poco sfruttate le opportunità di condivisione delle risorse e di flessibilizzazione dei processi di lavoro (piuttosto che dei contratti). A tutto questo si aggiunga che oggi è ancora più importante comunicare fra molti ricercatori e che dirigere i risultati della ricerca verso il pubblico è diventato rispetto al passato ancora più necessario. Buone basi di conoscenza sono ormai un requisito essenziale per l’esercizio effettivo dei diritti di cittadinanza.
In questa situazione, pensare che gli stenti – redditi insufficienti
e instabili, mancanza di mezzi tecnici – stimolino la produttività e
l’innovazione appare un’idea alquanto inadeguata. Sotto una certa
soglia di disponibilità di risorse, la competizione diventa
maledettamente opportunistica e non certo virtuosa, a danno del
riconoscimento del ‘merito’ e del consolidamento di un’etica
professionale. Lo scadere progressivo della qualità delle relazioni
di lavoro incide sulla produttività di medio termine, impedendo di
sedimentare il capitale umano di cooperazione e sapere, necessario a
promuovere lo sviluppo della società e dell’economia della
conoscenza. Con la “corrosione del carattere” – per riprendere
l’efficace espressione di Richard Sennet sugli effetti della
flessibilizzazione – si impongono al ricercatore, sempre più
atomizzato, nuove pratiche predatorie, individualizzate ed
opportunistiche, attivabili in virtù di relazioni privilegiate che
non perdono affatto il loro peso per il fatto di operare su risorse
cognitive-immateriali-relazionali. I processi di valorizzazione
accademica della ricerca non seguono regole così diverse da quelle
della valorizzazione economica, simbolica o politica
dell’innovazione, ben note a imprenditori, editori e policy maker.
Si tratta anche qui di un processo molto sensibile alla
concentrazione del controllo delle risorse strategiche in gioco.
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