Scuola

Sindacati contro Brunetta:
discriminati sono gli uomini

Al personale maschile non consentito andare pensione a 60 anni

ApCOM, 16.12.2008

Roma, 16 dic. (Apcom) - Il mondo della scuola si trova in disaccordo, seppure con diverse sfumature, sull'idea del ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, di equiparare la pensione delle donne italiane a quella degli uomini: l'indicazione, espressa a seguito di una recente sentenza della Corte di Giustizia Europea, viene osteggiata da sindacati ed associazioni.

Oggi sulla questione è voluta intervenire la Cisl Scuola, attraverso Paolo Bonanno, dell'ufficio legislativo del sindacato guidato da Francesco Scrima: "l'eventuale discriminazione - sostiene Bonanno - potrebbe essere riconosciuta come esistente nei confronti del personale maschile, al quale non è consentito utilizzare un'analoga facoltà".

Per l'esperto sindacale la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 13 novembre scorso, richiamata dal ministro Brunetta, si rifarebbe su "un evidente equivoco, un vero e proprio "cortocircuito" nell'individuazione della materia del contendere e del significato delle disposizioni in contestazione".

"La Commissione - continua il legale della Cisl - nel contestare l'operato della repubblica italiana, ha ritenuto che il regime pensionistico gestito dall'Inpdap costituisca un regime discriminatorio contrario all'art. 141 Ce in quanto fissa l'età pensionabile a 60 anni per i dipendenti pubblici di sesso femminile, mentre la stessa è fissata a 65 anni per i dipendenti pubblici di sesso maschile. E ciò costituirebbe una condizione di sfavore per le donne, che maturerebbero in tal modo un trattamento pensionistico deteriore rispetto al personale maschile.

Che ne pensano allora le dirette interessate? Maristella Curreli, presidente nazionale dei Comitati italiani precari, interpellata da Apcom, sostiene che "il problema posto da Brunetta è corretto. Peccato che, come tutti nel suo governo, si richiami alle indicazioni europee per opportunismo e non per opportunità sociale o funzionale".

Al leader dei Cip non è piaciuta, in particolare, l'affermazione del ministro Brunetta che descrive le donne italiane "discriminate nella carriera per l'interruzione legata alla fase riproduttiva: sono discriminate - aveva detto Brunetta - nelle pensioni più basse legate all'aver smesso di lavorare prima".

"Il termine 'riproduttivo', al suo posto, me lo sarei risparmiato - sostiene Curreli - ma il personaggio, si sa, è capace di peggio, e lo abbiamo visto. Però, diciamolo, se ha ragione nell'analisi ha torto nel rimedio. Se fossi in lui, mi preoccuperei di sanare il maltolto. In primo luogo, favorendo la progressione di carriera anche a chi 'riproduce la specie' (anche per evitarne l'estinzione), oppure, e già sarebbe tanto, impedendo che possa essere discriminata o, peggio, licenziata".

"In secondo luogo, equiparando i livelli pensionistici tra uomo e donna, pur lasciando la facoltà-diritto di un collocamento a riposo precoce. A mio avviso, questo è dovuto quale compensazione-riconoscimento per il duplice impegno assolto dalle donne impiegate a lavoro e in casa".

 

Se, invece, il ministro Brunetta si volesse allineare ai trattamenti riservati alla donne in Europa bisognerebbe "farlo per davvero e per tempo - sottolinea il presidente dei Comitati italiani precari -: in primo luogo appoggiando la maternità attraverso congrui periodi di astensione dal lavoro, senza alcuna decurtazione retributiva ma con incentivi economici".

"In secondo luogo - conclude Curreli - attraverso una adeguata dotazione di servizi di assistenza all'infanzia che favorisca il sereno rientro in servizio della madre. In tal caso si può pensare di equiparare l'età pensionabile tra uomo e donna".

Da un punto di vista prettamente 'tecnico', l'esperto di normativa pensioni sta della Cisl Scuola, Paolo Bonanno, sostiene che per dirimere la questione aperta dalla Corte di Giustizia Europea sarebbe bastato un "semplice chiarimento prospettato" dalle nostre istituzioni.

"Ciò avrebbe probabilmente evitato una condanna che, in sostanza, è dipesa dalla circostanza - ipotizzata dalla Corte - che le norme in contestazione violassero il principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore".

Secondo Bonnanno, quindi, "la violazione sarebbe palese se le dipendenti pubbliche di sesso femminile fossero costrette a cessare dal servizio al compimento del 60° anno di età, mentre l'esercizio di una facoltà (e, quindi, una scelta individuale) dipende dalla volontà del lavoratore, che può ben mettere in conto la prospettiva di percepire una pensione più bassa a fronte di vantaggi di altra natura (familiare, sociale e molti altri)".