Difendere l'Università Italiana soprattutto se la difesa
viene fatta da un professore universitario, o un barone
come sbrigativamente veniamo chiamati, può essere una missione impossibile.

Difendere l'Università

Massimo Amaniti, la Repubblica 17.12.2008

Difendere l'Università Italiana soprattutto se la difesa viene fatta da un professore universitario, o un barone come sbrigativamente veniamo chiamati, può essere una missione impossibile. Che si siano verificati o si continuino a verificare, gravi episodi di malcostume nei concorsi universitari soprattutto, ma non solo, negli Atenei del Sud è davanti agli occhi di tutti ed oggetto di indagini giudiziarie. Un sistema diffuso di favori reciproci, di collusioni, di accordi sottobanco che privilegia le parentele o anche semplicemente le appartenenze di scuola e che mortifica i talenti dei giovani, rendendo impossibile una competizione che premi l'impegno e la capacità.

Non si può eludere questo problema, anche se tutta l'Università Italiana non è solo quella di parentopoli, dei concorsi truccati, dei dissesti dei bilanci. Ci sono grandi risorse che potrebbero essere liberate se si creasse un contesto normativo e di regole di comportamento che possano facilitare questo cambiamento. Va aggiunto che spesso l'informazione sullo stato dell'Università è stata imprecisa. E che altrettanto spesso disinformazioni sulla stampa sono state invece volutamente tendenziose, come ad esempio quelle relative agli stipendi dei professori ordinari che raggiungerebbero i 10.000 euro al mese, mentre sono molto al di sotto dei livelli europei. Basti pensare che lo stipendio di ingresso di un ricercatore universitario, che ha vinto un concorso, si aggira intorno ai 1100 euro.

Dopo questa premessa passiamo a considerare le responsabilità del mondo accademico. In primo luogo si è verificata una gestione fallimentare delle risorse economiche con grandi sprechi: moltiplicazioni ingiustificate delle sedi universitarie, proliferazioni incontrollate dei corsi universitari senza un adeguato numero di studenti che li frequentano e che d'altra parte non garantiscono un profilo professionale adeguato ed uno sbocco nel mercato del lavoro. A questo va aggiunto che si è verificato un assalto alla diligenza in seguito all'introduzione, voluta dai precedenti governi, delle norme concorsuali che prevedevano oltre al professore vincitore del concorso, ulteriori professori idonei che venivano chiamati da altre Università, contribuendo in questo modo ad aumentare i costi per il personale e a creare un'inflazione di professori a discapito del reclutamento di giovani ricercatori. Le conseguenze sono davanti agli occhi di tutti, numerose università spendono per il personale praticamente quanto ricevono dal fondo statale, superando il tetto prefissato del 90%. Tutto per il personale e poco, molto poco per la gestione dell'Università. Ci si può chiedere che cosa hanno fatto i Consigli di Amministrazione delle Università, che in molti casi gestiscono una grande impresa senza contenere la spesa, con la convinzione che il governo in ogni caso avrebbe ripianato il deficit. Gli organi di gestione dell'Università rispondono più a criteri di rappresentatività delle varie categorie dei lavoratori e molto poco a criteri di gestione amministrativo-economica. E' probabile che la proposta del Governo di trasformare le Università in Fondazioni avesse lo scopo di renderne più razionale la gestione ed attrarre i fondi e le donazioni da parte di privati e dalle industrie. Non dimentichiamo che la gestione amministrativa attuale è estremamente farraginosa e scoraggia le iniziative imprenditoriali di ricerca e di formazione delle Università. Se si devono spendere 200 o 300 euro per una collaborazione di ricerca con una persona esterna all'Università occorre preparare un bando, affiggerlo, istituire una commissione di concorso con 3 docenti universitari, fare l'esame e predisporre un verbale di esame. Tempo perso che viene sottratto alla docenza e all'attività di ricerca e nello stesso tempo viene scoraggiata ogni iniziativa dei docenti, letteralmente schiacciati da norme burocratiche.

Ma passiamo ad un altro argomento scottante, quello dei concorsi che non garantiscono, soprattutto secondo le norme più recenti, una valutazione adeguata delle capacità dei candidati, lasciando ampi margini di discrezionalità ai Commissari. Le norme più recenti danno alle varie Università l'opportunità di fissare la fisionomia scientifica del professore che dovrà essere assunto e designare il Commissario interno che ha un ruolo decisivo nella procedura del Concorso. Questo ruolo affidato ad ogni singola Università sembra ricalcare le procedure americane, ma mentre lì la scelta e la designazione di un professore risponde alla sua capacità di attrarre studenti e di avere importanti grant di ricerca per la sua statura scientifica, qui si è trasformato in un boomerang perché nei Concorsi italiani vince inevitabilmente il candidato locale premiando la sua sottomissione e l'appartenenza e molto meno il merito. In questo campo c'è molto da fare ed attualmente vi è un gran fermento nel mondo universitario, spero per trovare criteri più rispondenti alle esigenze del rinnovamento dell'Università che non per limitare i possibili danni introdotti dalle future norme. Occorre ritornare ad una valutazione nazionale dei candidati con una lista di idonei in cui le Università locali possano scegliere il professore da chiamare. E per quanto riguarda la Commissione di Concorso questa dovrebbe essere designata attraverso un sorteggio dei Commissari, eventualmente integrandola con un Professore straniero, opzione questa spesso praticata anche nelle Università americane. E i criteri dei concorsi? Si è discusso dell'importanza di introdurre quello che viene chiamato l'"impact factor", ossia la valutazione del curriculum scientifico del candidato sulla base dell'importanza scientifica delle Riviste internazionali in cui sono comparsi i suoi articoli scientifici. Va aggiunto che poche riviste italiane hanno un "impact factor" e che in alcuni settori disciplinari non vale questo criterio. Si può scegliere l'impact factor o altri criteri, ma che garantiscano in ogni caso che il curriculum scientifico del candidato sia in qualche modo certificato dalla comunità scientifica internazionale ed anche nazionale da riviste che siano indicizzate e utilizzino criteri rigorosi di valutazione. Questa sarebbe una vera rivoluzione in molti settori dell'Università perché le valutazioni internazionali tengono conto dell'innovazione della ricerca, della metodologia adottata, della discussione dei risultati che vanno confrontati con la produzione scientifica e la letteratura più recente. Questo obbligherebbe l'Università a sottoporsi a quei criteri scientifici condivisi internazionali, come d'altra parte è successo quando siamo entrati nell'area dell'euro per cui abbiamo dovuto rispettare i vincoli del patto di Maastricht. Se da soli non siamo in grado di garantire scelte rigorose dobbiamo far riferimento a quei paesi in cui vi è una consolidata tradizione di verifica e di valutazione seria.

Serviva questo scossone all'Università italiana, siamo tutti in una situazione di emergenza ma sono convinto che la maggior parte dei professori universitari è disponibile a fare la propria parte, se le regole siano chiare e non lascino spazio ad ambiguità e sotterfugi.