L'INCHIESTA.
Dileggiati e frustrati, benché tutti dicano che dalla scuola dovranno uscire
le future classi dirigenti. E i docenti, invece, sono tra i meno pagati d’Europa.
 Cosicché la professione si sta «femminilizzando»: il 100% nella scuola dell’infanzia.
 Con milletrecento euro al mese s’avanza una classe di nuovi poveri.

Salari bassi, così a scuola
restano solo le donne.

Un fenomeno inarrestabile:
nel 1984-85 il 69% degli insegnanti era donna, nel 1999-2000 il 75,5%

Formalmente le ore medie settimanali lavorate suno 18.
Ma le ore reali sono molte di più. Un lavoro ormai a tempo pieno.

di Marina Boscaino da l'Unità del 5.4.2008

 

«I nostri figli sono in mano ad un manipolo di frustrati che incitano all’eversione». Ricordate l’illuminata riflessione consegnata da Gianfranco Fini al «Corriere della Sera» lo scorso 11 luglio? Un’elegantissima e responsabile definizione dei docenti italiani, che sarebbe bene tenere presente il 13 e 14 aprile. Frustrati perché mal pagati e apologeti dell’eversione (perché "comunisti"). Se la seconda definizione è tipica della folkloristica campagna di insulti e delegittimazione che il centro destra ha riservato da tempo agli insegnanti italiani, la frustrazione è un sentimento reale, che meriterebbe un trattamento differente dal dileggio e dall’ironia dedicati da Fini all’argomento.

Molte più frustrate che frustrati, nella scuola italiana. Secondo i dati del Ministero della Pubblica Istruzione attualmente le insegnanti sono circa il 100% nella scuola dell’infanzia, il 95,6% nella scuola primaria, il 76.5% nella media, il 60.3% nella superiore. Dove la femminilizzazione riguarda soprattutto i licei e le materie letterarie. Distribuita un po’ più omogeneamente la docenza negli istituti tecnici e professionali. Si tratta di un fenomeno a quel che sembra inarrestabile: nell’anno scolastico 1984-85 il 69% degli insegnanti era donna, nel 1999-2000 il 75.5%. Esiste un rapporto diretto tra il fenomeno della femminilizzazione dell’insegnamento e la questione salariale. L’incremento progressivo del livello di istruzione delle donne e il loro conseguente ingresso nel mondo del lavoro ha trovato nella scuola - a partire dagli anni ’60 - un punto di convergenza. A quell’epoca gli stipendi degli insegnanti erano proporzionalmente più consistenti degli attuali: l’entrata massiccia delle donne ha coinciso con un lento abbassamento della considerazione a livello sociale della funzione docente e, contemporaneamente, con un rallentamento della progressione economica. Il patto tacito sembrò allora consistere nell’accettazione di stipendi bassi a fronte di un lavoro limitato a poche ore settimanali, compresi i vari vantaggi che ancora compaiono nell’immaginario dei detrattori della scuola; ma che - nel frattempo, almeno per chi si impegna e crede nella propria funzione - sono definitivamente scomparsi: 3 mesi di ferie, pomeriggi liberi.

L’immagine dell’insegnante donna, moglie possibilmente di un professionista, che lavora la mattina e durante il pomeriggio provvede ai figli e alle cure domestiche o ai propri interessi (parrucchiere e shopping inclusi) è stata soppiantata da quella di tante lavoratrici coinvolte a tempo pieno su fronti differenti, tutti ugualmente impegnativi. Perché, nel frattempo, la scuola è cambiata: formalmente le ore di lavoro sono 18; ma le condizioni di lavoro sono profondamente mutate. La scuola - non per tutti, certamente, ma per molti - rappresenta un impiego a tempo pieno; con l’aggiunta, non irrilevante, che tale impiego si svolge con e per bambini e ragazzi; ed è finalizzato alla formazione, all’educazione, alla creazione di cittadini consapevoli, di autonomia critica. Ridurre le pertinenze di un insegnante alle ore curriculari è sbagliato: nel 1974 - anno di nascita degli organi collegiali - e, dopo, nel 1999 con l’autonomia, si sono aperti, nel bene e nel male, ampi spazi di intervento e di partecipazione (non sempre efficaci) al funzionamento e allo sviluppo di ciascun istituto. Inoltre gli insegnanti di molte discipline dedicano tempo ed energie alla correzione di elaborati; non ultimo, c’è bisogno di tempo - per chi li pratica, dal momento che si tratta di attività non riconosciuta né incentivata - per curare aggiornamento e studio.

Qualche settimana fa l’Ocse ha collocato il nostro Paese nella classifica dei salari medi netti al 23° posto sui trenta totali. L’Italia occupa posizioni ben arretrate non solo rispetto a Francia, Germania e Gran Bretagna, ma anche a Paesi come Grecia e Spagna. Uno studio della Banca d’Italia, tratto dalla relazione annuale del 31 maggio 2007 - Le condizioni finanziarie delle famiglie e delle imprese - rivela che la crescita degli stipendi è ferma al 2000 e che il livello di impoverimento è in aumento, specie tra i lavoratori dipendenti: che incrementano le proprie retribuzioni dal 2000 al 2006 di uno 0.3% contro il 13.1% degli autonomi. Nel settembre 2007 il Ministero della Pubblica Istruzione ha presentato i dati del Quaderno Bianco: in quell’occasione vennero citate le stime Ocse 2006, secondo le quali - dopo 15 anni di attività - la retribuzione annua pro capite dei docenti italiani della scuola superiore è di 32.169 dollari contro la media di 40.269 calcolata fra Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Inghilterra, Italia, Scozia, Spagna, Stati Uniti e Svezia. Nella secondaria inferiore 31.292 dollari (contro una media di 37.489) e nella primaria di 28.732 (contro 35.100). Solo gli insegnanti greci stanno peggio di quelli italiani. Tra i quali un trattamento particolarmente penalizzante è riservato ai precari, una categoria numerosa, sottoposta a un regime che spesso prevede l’interruzione del servizio, che esclude le ferie; la mancanza di continuità didattica, con frequenti cambiamenti di scuole; sedi disagiate, lontane, con le conseguenze economiche che ne derivano. Gianfranco Pignatelli, presidente del Cip, illustra il salario dei precari di ogni ordine di scuola: un docente di scuola materna ed elementare, percepisce tra i 1130 e i 1231 euro; uno di scuola media tra i 1210 e i 1311, come uno di scuola secondaria superiore, al netto delle ritenute degli enti locali.

L’obiezione che viene normalmente fatta quando si constata il divario è che a salari europei debbano corrispondere orari europei. Come si evince dalla tabella riportata in pagina, gli orari italiani non si discostano di molto da quelli europei, la cui media si attesta a 23 ore settimanali nella primaria, 20 nella secondaria inferiore, 18 e 20 minuti nella secondaria superiore. E si tenga conto che non emerge qui il lavoro sommerso cui si faceva riferimento poc’anzi.

Insomma, quello dei salari degli insegnanti rappresenta un campo in cui sarebbe opportuno intervenire, come viene chiesto da anni. Considerate le cifre sopra indicate, tra i "nuovi poveri" figuriamo a buon diritto anche noi: gli insegnanti. Esercitare questa professione è possibile solo se non si fa parte di una famiglia monoreddito: un lusso, di questi tempi, che non tutti possono permettersi. La irrisorietà dei salari rappresenta uno degli elementi che incentiva una mentalità impiegatizia nel mondo della scuola, che pure esiste; l’afflusso di persone demotivate, talvolta poco preparate, defilate, spente, indisponibili alla partecipazione e all’impegno è incoraggiato dagli stipendi bassi. La scuola continua a camminare sulle gambe di quelli che, incapaci di far ricadere sugli alunni le conseguenze dell’inciviltà del disinvestimento culturale che si è fatto sull’istruzione, interpretano eticamente e politicamente la professione, spesso devolvendo energie, competenze, impegno, passione senza riconoscimento o con incentivi insignificanti e alcuna considerazione sociale.

La legittima frustrazione di chi opera quotidianamente con convinzione e capacità nella scuola italiana meriterebbe parole ben diverse da quelle di Fini. E una riflessione coraggiosa e capace di scardinare luoghi comuni da parte di chi potrà intervenire su questa problematica.