Prima che il gallo canti. Ovvero, senza citare Pavese: esprimersi, prima che si formi il governo di Claudio Cereda, da ScuolaOggi del 27.4.2008 Non sappiamo ancora con sicurezza chi sarà il nuovo ministro; sappiamo con sicurezza che nei mass-media e tra i politici non ci sono né passione né interesse per la scuola al punto che l’Istruzione viene spesso dimenticato nell’elenco dei ministeri da coprire nonostante sia tra quelli di grande spesa corrente (o forse per quello). Tra qualche giorno molti di quelli che tacciono, udito cosa bisogna dire, inizieranno a declinare la linea, (versione di maggioranza e versione di opposizione) sui temi della scuola. Spero che non sia così, o meglio mi dò da fare perché non sia così e per questa ragione mi fa piacere vedere sulla nostra rivista qualche discussione vera tra persone di orientamento politico diverso. Angelo Salvo ha posto sei temi che condivido completamente in termini di analisi e largamente in termini di proposta: a) la laurea ci vuole ma non basta b) il docente deve assomigliare sempre più ad un professionista che sappia lavorare in squadra e sempre meno a un impiegato c) il docente instaura un rapporto positivo con la famiglia (rapporto tra educatori)
d) il docente pianifica, si autoverifica e
ricorda di operare con uomini in formazione f) il docente è un esperto di docimologia e sa dosare la valutazione tra i due poli del giudicare e del formare. Per me è pacifico che quanto sintetizzato qui sopra abbia bisogno di un DS dotato di poteri e responsabilità come primo interlocutore ed attore. E’ anche ovvio che il DS non basta, ma da qualche parte bisogna incominciare e se abbiamo in mente la scuola della autonomia è lì che bisogna puntare, è lì che le norme devono focalizzare gli interventi. In alternativa al DS si dovrebbero impiantare altri carrozzoni destinati a dilatare i tempi e la spesa. Si obietta che siamo agli inizi, che tutti i vecchi Presidi e Direttori sono stati promossi sul campo, che forse non hanno le competenze, che la valutazione dei Dirigenti non è decollata… Qualunque fase di trasformazione profonda ha questi problemi e se noi vogliamo che la trasformazione sia profonda dobbiamo avere il coraggio di osare. Detto questo ci sono però diverse domande (o proposte) che rivolgo a Salvo e a coloro che si apprestano a reggere il timone dell’Istruzione.
Sarò un inguaribile materialista ma penso che finché permane l’equivoco per cui la carriera del docente procede per anzianità (gradini e gradoni), senza valutazioni in ambito professionale, il docente assomiglierà più a un postelegrafonico (non me no vogliano quelli bravi) che a un professionista della educazione chiamato a lavorare in team. Per questa ragione bisogna dire basta a tutte le forme di stipendio accessorio distribuito con il FIS cui non fanno riscontro valutazioni di efficacia (non basta fare ore in cui si produce il quasi-nulla). I due canali di approfondimento della professionalità docente (quello didattico e quello organizzativo) devono diventare percorsi di carriera nei quali il lavoro viene retribuito per i risultati e non con criteri orari in base ai quali chi lavora meno bene prende di più perché ci mette più tempo (come accade molto spesso). Sul versante didattico si diventa esperto di formazione, tutor dei giovani docenti in formazione, si produce materiale didattico spendibile verso l’esterno, si promuove il lavoro di rete, si coordinano i dipartimenti di area disciplinare, si fa il tutor, si definiscono gli standard medi e minimi della propria scuola, si tiene aperta la porta della progressione di carriera verso l’università. Sul versante della organizzazione si lavora sulla ottimizzazione delle risorse, si ragiona di bilanci, ci si occupa di procedure, di standard di qualità, si opera in team con il DS che decentra e delega una quota del proprio potere, si tiene la porta aperta verso il passaggio al lavoro di DS attraverso l’apprendistato, la formazione in servizio, l’acquisizione di competenze sul campo. Ma, si obietta, la maggioranza dei docenti, finite le 18 ore non vuol fare altro. A parte che non è così nella maggioranza dei casi, cosa ci sarebbe di scandaloso nell’ipotizzare un rapporto a tempo parziale per chi lo vuole così e si accontenta di 1'500 euro e un rapporto full-time per chi ha scelto la scuola pensando di fare un lavoro vero, bello e impegnativo (e retribuito di conseguenza)? A proposito, che senso ha l’attuale part-time a 9 ore? Cosa tutela e rappresenta?
Lo ho già scritto in uno dei pezzi
pre-elettorali dedicati al Partito Democratico: il sogno veltroniano
delle scuole belle ed aperte di pomeriggio e di sera si realizzerà
il giorno in cui le scuole saranno normali luoghi di lavoro aperti
di pomeriggio in via ordinaria (così come avviene per il resto della
società), in cui esistono aule che si possano trasformare in uffici
di lavoro dei docenti, luoghi con un arredamento non squallido con
strumenti di lavoro decenti e adeguati strumenti di archiviazione e
documentazione. Si può sperimentare un sistema che consenta ai bravi di avere una prospettiva prima dei 30 anni e ai meno bravi di lasciare il posto a chi lo merita? E’ pensabile un sistema più flessibile, meno garantito e più premiante? Andremo verso la regionalizzazione del baraccone del personale? Daremo la possibilità ai DS di usare, almeno in parte, la chiamata diretta?
I processi di apprendimento seguono sia strade
sequenziali sia percorsi in parallelo e nei 10 anni di istruzione
obbligatoria le differenze tra gli individui si accentuano: sono
diverse le intelligenze, gli stili cognitivi, il contesto famigliare
(in qualche casa, non necessariamente di basso reddito, ci sono più
televisori e riviste di gossip che libri). Salvo nel suo “spiritello e la valutazione del merito” riprende un tema caro al modello pedagogico morattiano di riforma: questi problemi non si affrontano con risorse aggiuntive ma cambiando modo di far scuola e le finalità della stessa. Sono gli insegnanti a dover imparare a lavorare in parallelo sulle diverse unità omogenee presenti nella classe. Pare di leggere le utopie sul comunismo non dissimili dalla parabola evangelica dei talenti: a ciascuno secondo i suoi bisogni da ciascuno secondo le proprie potenzialità. La faccenda mi intriga da tempo e mi pare praticabile quando ragiono in astratto. Ma diventa, come minimo, irrealistica quando penso alla scuola concreta con la campanella del cambio d’ora, i quadrimestri, gli scritti e gli orali, il registro di classe e quello personale (che tutto sono meno che strumenti di lavoro), il problema della equità nei giudizi, il Regio Decreto…. Supponiamo pure di disporre dei migliori insegnanti del mondo (preparati, entusiasti e motivanti) e di averli dotati di tutte le risorse strumentali necessarie: la faccenda può reggere solo su un pezzo di percorso scolastico (quello iniziale) e non è un caso che la scuola elementare funzioni decisamente meglio della media dove compaiono le materie e si diversificano molto le figure di riferimento. Mi sbaglio o il problema della media è un generale abbassamento di livello legato alla necessità di tirar dietro tutti che diventa poi accontentarsi? Alle superiori il quadro migliora perché si verifica una canalizzazione che nulla ha a che fare con ipotesi professionali o diversificazione delle attitudini: se sei bravissimo ti dicono di andare al classico, se ti piace la matematica c’è lo scientifico (ottimo o distinto) e poi giù giù a scendere; altro che unità dell’intero sistema (centrosinistra) o doppio canale licei e professionali (centro destra): parole, parole, soltanto parole … Nei primi anni 80 ho visto a Monaco di Baviera un sistema alternativo: profilo liceale unitario, diversificazione degli insegnamenti tra livello forte e livello debole, propedeuticità tra gli insegnamenti, disaggregazione delle classi in stile universitario, didattica per competenze, eliminazione della farsa del debito e del finto superamento del medesimo perché si passava alla classe successiva tranne per gli insegnamenti rimasti pendenti che rimanevano tali, carriere e compiti diversificati tra i docenti.
Alle superiori la riflessione sulla competenze
chiave di cittadinanza e la didattica per competenze è largamente da
inventare. I ritardi non sono solo culturali: manca un chiaro
indirizzo di riforma e mancano gli strumenti materiali e giuridici
per applicare le belle idee del regolamento sulla autonomia a quasi
10 anni dal parto. |