Chi forma e chi deforma . . . di Rita Bortone da Educazione & Scuola, aprile 2008 Quando il governo Prodi entrò in crisi provai il desiderio un po’ amaro di scrivere qualcosa che urlasse: “Chiunque vada, lasci in pace la scuola!”. Nei materiali che portavo nelle scuole per illustrare le Indicazioni per il curricolo, cambiai la prima slide e vi scrissi a grandi caratteri: “Crisi di governo: cosa cambierà ancora?”. Avvertivo il rischio che gli insegnanti, già stanchi delle precedenti riforme e faticosamente coinvolti nella interpretazione critica delle Indicazioni, cadessero in uno sconforto disfattista o in un rifiuto combattivo. Le Indicazioni per il curricolo, ragionavo con gli insegnanti, indirizzano ad una ricerca culturale, pedagogica e civile che va oltre la singola riforma, e che la società stessa, non un ministro, chiede alla scuola. Se la nostra ricerca - dicevo – si ferma alla superficie della richiesta politica e all’enfasi posta nei “distinguo”, ci sembra di essere sballottolati da una parte all’altra: unità didattica o d’apprendimento, curricolo o piano di studi personalizzato, educazione o educazioni, cittadinanza o convivenza civile, obiettivo specifico o formativo…. Ma se la ricerca è diretta ai problemi di fondo, il lavoro diventa continuo, senza fratture, e il patrimonio pedagogico, psicologico e tecnico che si accumula è strumento utile per interpretare, con un proprio background culturale, qualsiasi riforma. Le richieste più profonde rivolte oggi alla scuola – dicevo - sono quelle che provengono dal sociale: la politica le interpreta attraverso i diversi punti di vista dei diversi governi che si alternano, ma a chi le legga senza lenti ideologiche appaiono chiare. La necessità di prendersi cura della globalità della persona, il messaggio di OCSE Pisa e l’urgenza di competenze, la necessità di rifondare il patto formativo tra società e scuola e di avvicinare gli insegnamenti alla realtà, la necessità di una cittadinanza attiva e planetaria, il bisogno di cooperazione e di senso per superare la liquidità della vita, la ineluttabilità e la molteplicità delle interazioni, il desiderio diffuso di una ricostruzione etica del futuro… Quale ministro – ragionavo con gli insegnanti – può togliere alla scuola una ricerca educativa che percorra queste strade, che provi a superare le emergenze culturali e morali del Paese? Il “senso del possibile” e l’idea di un “futuro aperto”, ragionavo richiamandomi a Popper, a Bruner, a Bauman, non promuovono forse nella scuola responsabilità culturali, politiche ed etiche indipendenti dai ministri che si avvicendano? E il curricolo: può forse togliercelo un ministro o un suo consigliere? Non è forse sulla base di un curricolo di scuola (quello previsto dal dpr 275!) che si può poi personalizzare un piano di studi senza perdere di vista direzioni e obiettivi condivisi e validi per tutti gli allievi? Certo, le norme non vanno mai disattese, da qualunque parte vengano, ma un’interpretazione significativa della norma non può prescindere dalla cultura dell’interprete. Così ragionavo. E così ragiono ancora. Ma dentro di me so che è importante la cultura non solo di chi interpreta la norma, ma anche di chi, la norma, la fa. Ed oggi, raccontando agli insegnanti di nuovi paradigmi della scienza, di contestualità e relatività della ricerca, di rigori metodologici pur nella pluralità dei punti di vista possibili, mi sentivo più cauta e meno convincente nel minimizzare la gravità dei cambiamenti possibili. Inespresso ma persistente, nei miei pensieri si aggira uno spettro: scherzava, vero, quel signore che in campagna elettorale ha promesso tra gli applausi la riscrittura dei testi di storia e la cancellazione della Resistenza? Che ha additato come eroe chi è stato processato e definitivamente condannato dalla magistratura per mafia? Le Indicazioni che i due ultimi governi hanno dato alla scuola ci invitano ad accompagnare i giovani in una “ricerca di senso” che guidi le personali scelte esistenziali: il Paese non ha forse bisogno anche di una “domanda di senso” da parte della politica? I messaggi mediatici “formano” oggi più della stessa scuola. E la politica, mediaticamente raccolta da giovani e meno giovani, incide oggi sul Paese non solo attraverso le scelte economiche e sociali, ma attraverso i messaggi culturali che lancia alla popolazione. Con le sue parole, con i suoi atteggiamenti, la politica – tutta la politica - oggi forma o de-forma la cultura del Paese. Quale il “senso” del chiedere alla scuola molteplicità di punti di vista e interazione fra diversi, se la negazione delle parti può diventare argomento intorno a cui raccogliere il consenso delle masse? E quale il “senso” del chiedere alla scuola l’educazione alla legalità, se la ricerca del consenso può percorrere le vie dell’offesa alla dignità stessa delle leggi?
Cari Ministri, la scuola di responsabilità ne ha
tante, ma la formazione dei giovani non dipende solo dalla scuola. E
i semi piantati per far crescere il pensiero plurale e la
solidarietà, il confronto e la cooperazione, la legalità e la
cittadinanza, l’accettazione degli altri e la riflessione
scientifico-critica, non avranno mai crescita fino a quando cadranno
in una terra bruciata dalle stesse Istituzioni. |