Voto in condotta o voto elettorale? Benedetto Vertecchi da l'Unità, 30.8.2008 In queste ultime settimane si è assistito alla ripresa di simboli collegati all’educazione da tempo dimenticati nelle soffitte delle scuole. Di fronte alla gravità della crisi che, in varia misura, sta investendo i sistemi scolastici dei Paesi industrializzati si sono richiamati aspetti marginali del funzionamento delle scuole, come l’uso del grembiule o l’espressione numerica dei voti. Alle manifestazioni di rifiuto della disciplina scolastica, fra le quali le più rilevanti sono quelle che sfociano in episodi di bullismo, si oppongono solo misure repressive, come se bastasse agitare lo spauracchio di un sette in condotta per ridurre a più miti consigli gli allievi meno inclini ad accettare le regole della convivenza e dell’impegno nella scuola. Di per sé i cambiamenti introdotti sono di scarsa entità, o del tutto marginali, come nel caso del ritorno all’espressione numerica dei giudizi di valutazione. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la teoria valutativa sa, infatti, che un voto è un giudizio comparativo, che non esprime quantità, ma solo la posizione relativa dell’allievo al quale tale giudizio è assegnato rispetto agli altri presi in considerazione. Pertanto non c’è differenza fra la scala dei voti numerici da uno a dieci ora di nuovo introdotta nelle scuole elementari e medie e quella preesistente centrata su aggettivi e altre formulazioni verbali. In altri Paesi si usano lettere dell’alfabeto (per esempio, negli Stati Uniti il giudizio più positivo è indicato con la lettera A e quello più negativo con la E), scale numeriche più limitate (in Russia i voti variano da uno a cinque) oppure più estese (in Francia il voto più elevato è venti). Quel che conta non è come si esprime il voto, ma quali sono gli elementi sulle base dei quali si perviene a formularlo: si avrebbe un cambiamento effettivo se le scuole fossero messe in condizione di adeguare la loro cultura educativa alle nuove esigenze che si presentano nel lavoro educativo. Sarà bene riflettere sulla confusione che non potrà non seguire all’uso del voto in chiave repressiva (com’è nel caso della condotta). È dubbio che la repressione sia efficace, ma è molto probabile che costituisca il punto di partenza per una contaminazione nel giudizio di valutazione fra aspetti cognitivi, affettivi e di socializzazione. È questo che si vuole? Probabilmente no. Tutto fa pensare che i cambiamenti appena introdotti non siano prevalentemente rivolti a migliorare le condizioni dell’educazione scolastica, ma debbano essere intesi come segnali rassicuranti rivolti a quella larga parte della popolazione che conserva la memoria autobiografica dei voti numerici (o del grembiulino, o del maestro unico). In altre parole, si rispolverano simboli capaci di trasmettere tranquillità ai genitori e ai nonni, ma del tutto irrilevanti per i bambini e i ragazzi che saranno direttamente investiti dalle nuove norme. Non solo: l’assunzione di un ruolo repressivo da parte della scuola libera la società civile (anche le famiglie) dalle responsabilità che pure dovrebbero essere avvertite circa le tendenze negative che si osservano nell’evoluzione dei profili di bambini e ragazzi. Eppure ci si dovrebbe chiedere che parte hanno nel manifestarsi di tali tendenze i messaggi attraverso i quali la società esercita il proprio potere di condizionamento sui comportamenti di bambini e ragazzi. La scuola sollecita all’impegno nell’apprendimento in un contesto in cui tutto sembra spingere nella direzione contraria, nel quale la cultura non costituisce un valore particolarmente apprezzato e nel quale la maggiore enfasi è posta sulla disponibilità di beni di consumo e sul conseguimento di un successo che richieda un minimo di produttività mentale.
In altre parole si suggerisce l’idea di una
soluzione semplice per problemi che invece sono estremamente
complessi. L’azione educativa che si esprime attraverso l’uso
repressivo della valutazione interviene post factum, liberando dalla
necessità di rivedere criticamente le scelte effettuate sia dalle
famiglie, sia dalle scuole. Del tutto trascurata è poi l’incidenza
che sui comportamenti indesiderati può aver avuto la proposta
ossessiva di squallidi lustrini che raggiunge i bambini e i ragazzi
attraverso i mezzi di comunicazione. Rassicurare i genitori e i
nonni, evitando che si avvii una riflessione critica sui problemi
dell’educazione che potrebbe sfociare nella richiesta di scelte
politiche volte a produrre un’innovazione reale (alla quale non
potrebbe non corrispondere la disponibilità di risorse adeguate)
dovrebbe preparare il terreno ai cambiamenti nell’assetto
istituzionale della scuola che si incomincia a profilare e che sarà
segnato da un progressivo disimpegno dello Stato dall’istruzione. |