Il nostro sistema da vent'anni continua
a peggiorare. E i nostri studenti Processo alla scuola. di Roberta Carlini da L'Espresso dell'1/9/2007
Matematica: sex. Sulle pagelle degli studenti italiani meno bravi si legge ancora il 'sex' inventato nel secolo scorso per evitare che qualcuno trasformasse la i in t e proseguisse contraffacendo un bel 'sette'. Solo che adesso le pagelle sono scritte al computer e poi stampate, per cui una correzione con la biro sarebbe impossibile. Eppure, è rimasto il 'sex'. Per Domenico Starnone, scrittore ed ex insegnante, quella del 'sex' è una metafora potentissima della nostra scuola: della scuola invecchiata che non vuole cambiare, che non si arrende neanche all'evidenza. E che ci consegna, lo dicono i numeri italiani e i confronti internazionali, un sostanziale fallimento educativo. Nonostante tre riforme in dieci anni, nonostante i grandi proclami della politica, nonostante la spasmodica e spesso isterica attenzione delle famiglie, nonostante le agitazioni dei suoi 835 mila insegnanti. O forse proprio a causa loro: della politica, degli insegnanti, delle famiglie. Protagonisti e imputati nel processo alla scuola del 'sex'.
Fallimento in cifre
"Nel Mezzogiorno italiano un quindicenne su
cinque è povero di conoscenze". L'allarme è risuonato fortissimo,
qualche mese fa, non nell'aula del Parlamento, non in un comizio, non
in un'assemblea, e ad ascoltarlo non c'erano studenti né professori né
politici, ma compunti banchieri e uomini d'affari, convenuti in Banca
d'Italia a sentire le 'Considerazioni' del governatore Mario Draghi.
Ennesima bizzarria dell'Italia, ennesima supplenza della sua Banca
centrale? Fatto sta che i dati denunciati da Bankitalia collocano la
nostra scuola al venticinquesimo posto nell'Ocse. Quando sono stati
pubblicati hanno suscitato discussioni e commenti perfino in Germania,
paese nel quale gli studenti mostravano competenze inferiori alla
media, ma superiori a quelle degli italiani, mentre da noi sono
passati quasi inosservati. A quelle evidenze poi se ne sono aggiunte
altre, ma non si può dire che intorno alla scuola sia nato quel clima
da emergenza nazionale che potrebbe forse salvarla.
Dieci anni di riforme Eppure negli ultimi dieci anni la politica le mani nella scuola le ha messe, eccome. Rossi Doria non è sospettabile di simpatie morattiane quando dice alla sinistra: "Smettiamola di imputare tutti i mali della scuola a Letizia Moratti, è una follia pensare di cambiare ogni volta la scuola col cambio di colore dei governi". E di mani di colore ne sono state date tante, negli ultimi dieci anni: le regole sull'obbligo scolastico sono cambiate tre volte, sono stati aboliti e spostati esami, riformati i cicli, fatte e disfatte commissioni e resi autonomi i quasi 60 mila istituti della Repubblica. Senza con questo migliorare la scuola italiana: che resta 'senz'arte ma di parte', come ha sostenuto Luigi Berlinguer all'inizio dell'estate in un articolo sul 'manifesto' in cui denunciava la carenza della cultura scientifica, del metodo sperimentale e della musica nel nostro sistema educativo. Attirandosi lettere infuriate: "Tu dov'eri?", è stata la domanda prevalente, soprattutto da parte degli insegnanti. Berlinguer era al governo, dal '96 al '98, prima che la rivolta del mondo della scuola inducesse il centrosinistra a mandarlo via. Con lui sparì la proposta, impallinata dagli insegnanti, di introdurre criteri di valutazione del lavoro dei docenti. Restò la novità principale: l'autonomia scolastica, con tutto il suo portato di sponsor, progetti, Pof (piani di offerta formativa delle singole scuole). Cosa hanno fatto le 57.557 scuole d'Italia finalmente autonome dal centralismo romano? Basta aprire un sito Internet di un istituto o recarsi a una riunione preparatoria alle iscrizioni per capirlo: un marketing di offerte e progetti di attività aggiuntive, rare novità sugli insegnamenti tradizionali. "L'autonomia è diventata intrattenimento formativo", dice Starnone: "Non ha portato soldi e ha introdotto l'incubo del Pof, burocratizzando ancora di più il lavoro degli insegnanti". Sicché le nostre scuole si sono trasformate in progettifici, senza per questo avere più risorse: i fondi pubblici, a dispetto della sbandierata autonomia, sono rimasti fino all'anno scorso tutti vincolati agli specifici capitoli di bilancio - questo per i cancellini questo per i laboratori - mentre i famosi sponsor si sono visti poco. Assai spesso si chiedono soldi alle famiglie per fare corsi aggiuntivi, mentre i programmi tradizionali restano immutati e i laboratori deserti. Così l'autonomia, che esiste in molti dei sistemi scolastici al top delle classifiche mondiali, in Italia è diventata uno dei problemi, per tanti il problema principale. È successo "perché è stata attuata male, da un corpo docente che non l'ha digerita, e poi vanificata dalla Moratti", sostiene Berlinguer; mentre gran parte del corpo docente, ben rappresentata da Paola Mastrocola, autrice del libro 'La scuola spiegata al mio cane', sogna di de-berlinguerizzare la scuola, e vagheggia un ritorno al passato, con tanto latino. E programmi tradizionali dettati da Roma. A proposito di programmi. Nel turbinio delle riforme ci si è dimenticati dell'essenziale: cosa e come si insegna, dove e perché nascono i 'poveri di conoscenze'. Perché la scuola italiana fallisce nell'educare al 'problem solving'? Perché dopo elementari decenti abbiamo il tracollo delle medie? Perché quando si parla di riforme ci si concentra sempre sui licei, mentre più della metà degli studenti frequenta tecnici e professionali? E perché una scuola apparentemente uguale per tutti a Sud tracolla? Mauro Palma, coordinatore dell'area educativa dell'Enciclopedia Treccani e co-autore di uno dei più diffusi manuali di matematica dei licei sperimentali, ha un buon punto di osservazione sull'insegnamento delle materie scientifiche. "Fatte salve le sperimentazioni, nei licei siamo ancora fermi ai programmi dettati nel 1944. Quanto alle commissioni per i nuovi programmi, per anni si è andati avanti con criteri parlamentari: per mediare tra le varie posizioni, mettevano dentro un po' di tutto", racconta. Il passaggio dai programmi alle linee-guida, omaggio all'autonomia scolastica, non ha migliorato le cose. Palma condanna quanto fatto e quanto non fatto sull'insegnamento della matematica: "Bisogna chiedersi perché i bambini, che cominciano a imparare proprio dai numeri, a un certo punto se ne distaccano. E perché la materia più insegnata nella scuola italiana è anche quella in cui andiamo peggio". Secondo la sua diagnosi, il luogo in cui qualcosa si rompe è la scuola media, "quando si perde il riferimento problematico"; molto pesa anche il contesto culturale generale, "per cui una persona colta deve sapere il latino, ma può tranquillamente sbagliare una percentuale senza vergognarsene".
Gli insegnanti Stanchi di Pof e progettifici, malpagati, sempre meno gratificati. Gli insegnanti italiani non se la passano bene. Ce lo dicono persino i loro matrimoni, sostiene il sociologo Antonio Schizzerotto, che nel tipo di nozze di maestre e prof ha rintracciato un declino della desiderabilità sociale della professione. Ma siamo sicuri che siano senza peccato, nella crisi della scuola? Com'è fatta e come si muove la classe insegnante? I dati generali ci dicono che è più anziana della media dei lavoratori (età media 49 anni, nei prossimi sei anni ne andranno in pensione oltre 200 mila) e per i tre quarti fatta da donne. Sono al 60 per cento laureati, lavorano in media 15 ore a settimana meno degli altri. Il numero di precari è enorme: 124 mila su 835 mila. Per un giovane che si avvia all'insegnamento, la probabilità di avere un contratto a termine è 25 volte superiore che in qualsiasi altro settore. È quanto sostiene un lavoro della Banca d'Italia, che sottolinea: in questo caso la flessibilità non aumenta l'efficienza, ma la abbatte. Lo stesso studio dà un indizio decisivo per chi voglia scoprire cosa non va nella scuola: la giostra annuale degli insegnanti. Un dato per tutti: un docente su cinque cambia scuola da un anno all'altro. Una girandola che non è dovuta solo ai precari: le richieste di trasferimento dei prof di ruolo verso la scuola preferita riguardano un terzo del turn-over, 50 mila all'anno. I criteri? Tutti burocratici e anagrafici, niente a che vedere col merito né con i bisogni delle scuole. Così, si assiste ogni anno a esodi continui: prevalgono i movimenti verso Sud e all'interno del Sud; quanto ai tipi di scuola, c'è una fuga da professionali e medie. Dunque, la mappa dei trasferimenti ricalca quella delle zone nere del sistema scolastico: medie, professionali e Mezzogiorno. Non è certo un caso. Può reggere un sistema nel quale ciascuna scuola è autonoma e diversa dall'altra, ma i docenti sono tutti identici, un sistema in cui un professore bravo non ha alcun incentivo ad andare dove c'è più bisogno di lui, cioè una scuola difficile? Rossi Doria, che nei quartieri a rischio di Napoli ci è andato per scelta, dice che no, non può funzionare. Per aumentare l'eguaglianza, dice, dobbiamo accettare le differenze: così come fanno in Francia, dove gli insegnanti che vanno nelle Zone di educazione prioritaria (le Zep) hanno incentivi economici e di punteggio. "Con l'egualitarismo standardizzato finisci per fare una scuola di classe, dove vanno bene solo i licei". Insomma, bisognerebbe costruire un meccanismo, o almeno dare degli incentivi, perché i migliori vadano nelle scuole peggiori: ma quali sono 'i migliori'? Ritorna l'argomento tabù, quello della valutazione: quello su cui, anni luce fa, esplosero Gilda e Cobas, contro i primi timidi tentativi in tal senso. Negli staff tecnici del ministero sono allo studio metodi per valutare l'andamento delle classi, modo indiretto per valutare l'operato dei professori. I quali, dice Rossi Doria, prima o poi qualche cambiamento dovranno accettarlo: "Si considerano dipendenti pubblici, ma sono professionisti del sapere, devono abbandonare una visione rivendicativa, capire che è cambiata la scuola e la società, sono cambiate le famiglie".
La famiglia Intorno alla scuola invecchiata senza crescere, alla scuola del sex in pagella, è cambiato tutto, a partire da studenti e famiglie. "La divisione degli studenti non passa semplicemente tra figli di poveri e figli di ricchi", constata Starnone: "A scuola arriva anche un ceto svantaggiato culturalmente, che però dal punto di vista materiale ha tutto. E allo stesso tempo i figli del ceto medio colto, quelli che una volta gratificavano gli insegnanti, sono esposti come tutti a violenza, alcol, droga. La violenza a scuola c'è sempre stata, persino in 'Cuore' Garrone, che era uno buono, andava a scuola col coltello: solo che se prima c'era una rissa tra due, il terzo interveniva per separarli, adesso si ferma per filmarli". Ma se la scuola è impreparata a tutto ciò, non è che le famiglie l'aiutino a migliorare. Sborsano sempre più soldi, dai libri ai corsi aggiuntivi ai materiali, e sono più presenti di prima; ma spesso arrivano come clienti a guardare la vetrina della scuola e quando qualcosa non va, protestano violentemente o vanno dal giudice. "Vale nella scuola quello che vale fuori: chi batte i pugni sul tavolo vince", dice amaro Starnone. "Le famiglie spesso delegano, non costruiscono più il super Io, ma poi se la scuola impone delle regole severe, molti si infuriano", commenta Rossi Doria. La famiglia-cliente non mette sotto processo pubblico la scuola, si limita a difendere il proprio discendente, a suon di pugni o di ricorsi legali.
C'è poi un altro effetto-famiglia, ed è quello
antico: nonostante tutti i cambiamenti, resiste il fenomeno per cui il
background familiare ha un peso decisivo negli esiti scolastici. Nei
paesi nei quali la scuola è migliore, diventano meno decisivi il
reddito o l'istruzione di papà e mamma: anche qui, numeri e studi sul
fenomeno mettono l'Italia in posizione svantaggiata. L'economista
Daniele Checchi ha scandagliato la relazione tra i sistemi scolastici
e peso dei background familiari, tra scuola e promozione sociale: vien
fuori che, se negli anni tutti hanno avuto qualche opportunità in più,
non è cambiata la mappa delle diseguaglianze. Lo si vede anche nelle
macro-differenze, quelle tra Nord e Sud: il 5 per cento dei genitori
di quindicenni del Sud ha al massimo la licenza elementare, il 32 per
cento si ferma a quella media. Nel Nord Est, le stesse percentuali
scendono all'1,6 e al 19,8 per cento. Insomma, la famiglia e il
territorio continuano a fare la differenza nella scuola pubblica
italiana. Nel bene e nel male. n
Retrocessi agli ultimi banchi
Fonte: Ocse. Punteggi medi dell'indagine 'Pisa' per tipo di competenza
(anno 2003)
Privato e pure bocciato 'Più soldi alle private'. In passerella a Rimini, il ministro Giuseppe Fioroni ha annunciato ai ciellini festanti (ma un po' scettici) il suo favore all'aumento degli stanziamenti per le scuole private. Che, dall'introduzione della parità scolastica (centrosinistra) ai buoni scuola regionali (centrodestra) non sono mai state dimenticate, senza però mai decollare davvero. Nell'anno scolastico 2005-2006 gli iscritti alle scuole superiori paritarie erano 79.200 (1.904 in meno rispetto all'anno precedente): il 4 per cento del totale, concentrati a Nord. In parte sono scuole a pieno titolo, in parte sono quei diplomifici che hanno dato pessimo spettacolo agli ultimi esami di maturità, spedendo ragazzi che avevano pagato fior di quattrini a sostenere gli esami di Stato da privatisti anche laddove, in base a regole note da mesi e mesi, non potevano sostenerli perché c'era un tetto numerico. Quanto al rendimento, i dati 'Pisa' dell'Ocse dicono che in Italia la scuola privata non è affatto d'eccellenza. Anzi: le competenze in matematica di un quindicenne in un istituto privato sono, nella media, pari a quelle del suo collega nella scuola pubblica (cioè basse). Altrove, specie nei contesti anglosassoni, si evidenzia invece un divario netto, a favore della scuola privata: ma solo a causa di una autoselezione basata sul reddito. Depurati dall'effetto-background (cioè dal peso del contesto familiare e sociale), ecco che anche i bei risultati delle scuole private inglesi non brillano più tanto. Quanto all'Italia, depurati dall'effetto-background, i risultati della scuola privata crollano, e quella pubblica sale in vantaggio (sempre nei test ai quindicenni) di 27 punti.
Il quindicenne? È un bel problema Le pagelle del fallimento ce le danno gli organismi internazionali e sono quelli dell'indagine 'Pisa' dell'Ocse. Sono i voti dati ai quindicenni italiani dopo test specifici sulle competenze in lettura, matematica, scienze e problem solving: la capacità di risolvere i problemi, il ramo più secco del nostro sapere. Ma i numeri del fallimento li abbiamo anche in casa, e ci dicono che il disastro si concentra nel Mezzogiorno e nella scuola media. I dispersi Sono i giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno lasciato la scuola senza un diploma superiore né una qualifica professionale. Hanno solo la licenza di terza media. L'obiettivo europeo è portarli entro il 2010 sotto quota 10 per cento. In Europa sono intorno al 15, in Italia il 20,6. Vale a dire: un giovane su cinque è uscito da scuola senza un titolo utile, né sta facendo formazione in alcun modo. La Sicilia ha il record negativo, con il 30,4 per cento di giovani fuori da ogni formazione, pur avendo il record degli enti di formazione professionale: 2.700 (contro i 600 della Lombardia). Le medie Alla fine delle elementari, i bambini in ritardo sul regolare corso di studi sono il 4,2 per cento. Alla fine del terzo anno delle medie la percentuale dei ritardi è salita all'11. E ben il 37,3 ottiene la licenza di terza media per un soffio, con il voto 'sufficiente'. Nella stessa direzione vanno le indagini internazionali sulle competenze dei ragazzi: una comparazione dei dati Iea e Ocse, contenuta in una ricerca fatta degli economisti Piero Cipollone e Paolo Sestito (Ufficio studi di Bankitalia), mostra che alle elementari i bambini italiani ne sanno quanto gli altri, mentre dalle medie si evidenzia un forte calo, soprattutto in matematica e scienze. Il non fatto delle medie si svela alla fine del primo anno delle superiori: un iscritto su cinque lascia e il 35 per cento è promosso con almeno un debito formativo. Le conoscenze I punteggi conseguiti dai quindicenni italiani ci collocano al venticinquesimo posto nell'Ocse. Sulla base di tali dati, la ricerca di Cipollone e Sestito ha tracciato una mappa dei 'poveri in conoscenze': studenti che pur sapendo leggere non sono capaci di utilizzare la lettura per apprendere cose nuove, ragazzi che pur sapendo far di conto non sanno fare il cambio di una moneta. La quota di quindicenni 'poveri di conoscenze' nel Nord non supera il 5 per cento, nel Centro è sull'8 e nel Sud va dal 14 al 22. Insomma, a Nord siamo 'bravi come gli altri', per citare il titolo di uno studio curato da Luciano Abburrà che mette a confronto Lombardia, Veneto, Piemonte e Toscana con altre regioni Ue. Le medie superiori In parallelo alle differenze Nord-Sud, corrono quelle tra istituti. Tutti i dati della ricerca migliorano nei licei, peggiorano negli istituti tecnici e soprattutto nei professionali. Quella dei professionali è un'area critica anche nel Nord, è qui che si concentrano le competenze più basse. Ma è qui che si concentra anche la maggior parte degli studenti: nei licei, anche dopo il recente boom, va un terzo dei ragazzi, il 32,5 per cento. Più della metà si divide tra tecnici e professionali.
La spesa La spesa pubblica per istruzione e
formazione, in Italia, è scesa dal 4,75 al 4,66 per cento del Pil in
dieci anni. A tirarla giù, nei confronti internazionali, è soprattutto
l'università: nella scuola primaria e secondaria la spesa pubblica per
studente (pari nel 2004 a 6.136 euro) è superiore alla media europea.
Tale spesa è all'85 per cento statale. La parte affidata agli enti
locali fa la differenza: si va dai 1.536 euro per studente del
Trentino Alto Adige ai 537 della Puglia. |