Dossier: Quando il Libro Bianco sembra Nero .
a cura di Daniele Checchi da
La Voce del
21/9/2007
INDICE GENERALE DELL'ARTICOLO
pg. 1 |
Introduzione
di Daniele Checchi |
pg. 2 |
Classifiche
dettate dal contesto, di
Massimiliano Bratti, Daniele Checchi, Antonio Filippin
21-09-2007 |
pg. 3 |
Alla scuola
di qualità non bastano le risorse, di Massimiliano Bratti,
Daniele Checchi e Antonio Filippin 21-09-2007 |
pg. 4 |
I conti fatti
senza i bambini stranieri, di Francesco Billari 21-09-2007 |
pg. 5 |
La giostra
degli insegnanti, di Paolo Sestito* 21-09-2007 |
pg. 6 |
Se la
selezione resta fuori dall'aula, di Andrea Ichino
21-09-2007 |
pg. 7 |
Imparare a
ragionare. A Nord come a Sud, di Salvatore Modica
21-09-2007 |
pg. 8 |
Il Quaderno
promuove la valutazione. Con qualche riserva, di Bruno
Losito 21-09-2007 |
|
Il Quaderno
Bianco
Introduzione
di Daniele Checchi
Dopo il libro verde arriva il libro bianco sulla
scuola. A doppia firma del Ministero della Pubblica Istruzione e del
Ministero dell'Economia. Impietosa è la radiografia della situazione
sui risultati. Esiste un divario enorme di competenze tra studenti del
Nord e del Sud Italia, non spiegabile soltanto dal divario di risorse.
Per la pianificazione dell’istruzione pubblica bisogna tenere conto
anche del crescente numero di studenti stranieri. Un aspetto non
irrilevante è legato alla motivazione dei docenti. Meglio un
decentramento delle decisioni in tema di immissioni concorsuali.
Tuttavia nessuna incentivazione credibile è possibile in assenza della
possibilità di valutare il lavoro svolto dagli insegnanti. Nè
d'altronde un sistema di valutazione può essere creato dall'oggi al
domani, specialmente se si vuole affiancare una azione di sostegno
alle scuole in maggiore difficoltà.
torna su
Classifiche dettate dal contesto
di Massimiliano Bratti, Daniele Checchi,
Antonio Filippin 21-09-2007
Il Quaderno bianco
sulla Scuola, pubblicato a cura del
ministero della Pubblica istruzione e del ministero dell’Economia e
delle Finanze, avanza una serie di proposte per il
miglioramento della qualità della scuola
italiana, definita come "il settore
che farà la differenza fra ripresa o stagnazione della mobilità
sociale e della produttività" nel nostro paese.
I divari territoriali nelle competenze e le
classifiche
Lo
stesso Quaderno
osserva correttamente che non si dovrebbe parlare genericamente di
"scuola italiana" perché la sua qualità risulta assai diversificata
sul territorio nazionale. Va qui precisato che la "qualità", a torto o
a ragione, è quella che viene misurata da indagini internazionali
sulle competenze
degli studenti, come l’indagine
Pisa - Programme for
International Student Assessment - gestita dall’Ocse,
o da esercizi di valutazione realizzati all’interno del nostro paese,
come quello dell’Invalsi,
l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di
istruzione e di formazione.
I
divari geografici
risultano particolarmente preoccupanti per la caratteristica
prevalentemente pubblica e centralizzata del nostro sistema di
istruzione, dove ad esempio i meccanismi di allocazione della spesa e
di reclutamento e fissazione delle retribuzioni degli insegnanti, che
potrebbero influenzare la qualità del corpo docente, sono, salvo
rarissime eccezioni, gli stessi su tutto il territorio nazionale. È
allora interessante domandarsi le ragioni dell’esistenza e del
permanere dei divari di competenza, particolarmente ampi tra Nord e
Sud.
Abbiamo cercato di indagare alcuni fattori che risultano
correlati
con le differenze
geografiche nell’indagine Pisa. Lo scopo è individuare alcune
possibili direzioni di ricerca, da approfondire in futuro, per
stabilire se tali fattori possano essere considerati come le
determinanti dei divari.
Vale la pena di ricordare che Pisa ha come soggetto di indagine gli
studenti quindicenni e come oggetto le
conoscenza per la vita.
Si riferisce in sostanza alla capacità di utilizzare le proprie
conoscenze per risolvere i problemi della vita quotidiana
(competenze). Come osservato dall’Ocse, queste competenze non vengono
acquisite solo a scuola, ma in una
pluralità di contesti,
ad esempio in famiglia o nelle interazioni con i pari. Per questa
ragione non tutte le differenze
nei livelli di competenze sono attribuibili al sistema scolastico.
Detto in altri termini, non è
corretto inferire una
classifica dell’efficacia
dei sistemi scolastici regionali (o provinciali) semplicemente
utilizzando i dati grezzi
Pisa. Questi dovrebbero essere depurati da tutti i fattori
individuali, familiari, socio-economici che risultano correlati con le
competenze. Se si considerano le competenze in matematica (mathematical
literacy), il focus principale
di Pisa 2003, vediamo come esse non siano omogeneamente distribuite
nel territorio italiano. (1)
La
figura
mostra la distribuzione per
quintili del punteggio medio Pisa in matematica per le province
italiane, costruita a partire dai dati grezzi: è evidente come i
quintili più alti (quelli più scuri) siano localizzati soprattutto al
Nord. Un rapido colpo d’occhio è sufficiente per osservare che se tale
mappa venisse utilizzata per costruire una
classifica
delle province (o delle Regioni italiane), le province (Regioni) del
Sud si collocherebbero sistematicamente nella parte bassa, facendoci
erroneamente concludere che lì il sistema di istruzione risulta
particolarmente inefficace.
Figura Quintili della distribuzione dei
punteggi grezzi Pisa 2003 in matematica
Lo stesso Quaderno
osserva correttamente che non si dovrebbe parlare genericamente di
"scuola italiana" perché la sua qualità risulta assai diversificata
sul territorio nazionale. Va qui precisato che la "qualità", a torto o
a ragione, è quella che viene misurata da indagini internazionali
sulle competenze
degli studenti, come l’indagine Pisa
- Programme for International Student
Assessment - gestita dall’Ocse,
o da esercizi di valutazione realizzati all’interno del nostro paese,
come quello dell’Invalsi,
l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di
istruzione e di formazione.
I divari geografici
risultano particolarmente preoccupanti per la caratteristica
prevalentemente pubblica e centralizzata del nostro sistema di
istruzione, dove ad esempio i meccanismi di allocazione della spesa e
di reclutamento e fissazione delle retribuzioni degli insegnanti, che
potrebbero influenzare la qualità del corpo docente, sono, salvo
rarissime eccezioni, gli stessi su tutto il territorio nazionale. È
allora interessante domandarsi le ragioni dell’esistenza e del
permanere dei divari di competenza, particolarmente ampi tra Nord e
Sud.
Abbiamo cercato di indagare alcuni fattori che risultano
correlati
con le differenze geografiche nell’indagine Pisa. Lo scopo è
individuare alcune possibili direzioni di ricerca, da approfondire in
futuro, per stabilire se tali fattori possano essere considerati come
le determinanti dei divari.
Vale la pena di ricordare che Pisa ha come soggetto di indagine gli
studenti quindicenni e come oggetto le conoscenza per la vita. Si
riferisce in sostanza alla capacità di utilizzare le proprie
conoscenze per risolvere i problemi della vita quotidiana
(competenze). Come osservato dall’Ocse, queste competenze non vengono
acquisite solo a scuola, ma in una
pluralità di contesti,
ad esempio in famiglia o nelle interazioni con i pari. Per questa
ragione non tutte le differenze
nei livelli di competenze sono attribuibili al sistema scolastico.
Detto in altri termini, non è corretto
inferire una classifica dell’efficacia
dei sistemi scolastici regionali (o provinciali) semplicemente
utilizzando i dati grezzi
Pisa. Questi dovrebbero essere depurati da tutti i fattori
individuali, familiari, socio-economici che risultano correlati con le
competenze. Se si considerano le competenze in matematica (mathematical
literacy), il focus principale di Pisa 2003, vediamo come esse non
siano omogeneamente distribuite nel territorio italiano.
(1)
La figura
mostra la distribuzione per quintili del punteggio medio Pisa in
matematica per le province italiane, costruita a partire dai dati
grezzi: è evidente come i quintili più alti (quelli più scuri) siano
localizzati soprattutto al Nord. Un rapido colpo d’occhio è
sufficiente per osservare che se tale mappa venisse utilizzata per
costruire una classifica
delle province (o delle Regioni italiane), le province (Regioni) del
Sud si collocherebbero sistematicamente nella parte bassa, facendoci
erroneamente concludere che lì il sistema di istruzione risulta
particolarmente inefficace.
I fattori di contesto
Tuttavia, ha senso confrontare i
punteggi grezzi?
La risposta è no. Province e regioni italiane sono contraddistinte da
notevoli differenze in termini di caratteristiche individuali e di
background familiare degli studenti (ad esempio l’istruzione e
l’occupazione dei genitori), delle scuole (dotazione infrastrutturale,
stato di manutenzione degli edifici) e socio-economiche del territorio
(tassi di disoccupazione, estensione dell’economia sommersa). Tutti
questi fattori contribuiscono ovviamente all’acquisizione di
competenze da parte degli studenti e pertanto un confronto geografico
dovrebbe essere fatto solo "a parità di condizioni", o come anche si
dice confrontando gli eguali
(comparing like with like).
Ebbene, quando si tenga conto di tutti questi fattori di contesto, la
figura cambia in maniera radicale, ed emergono
buoni livelli
di competenze anche al Sud. Se questi dati aggiustati venissero allora
utilizzati per redigere una classifica nazionale, il Sud di certo non
sfigurerebbe, mostrando come gli studenti che pure partono da minori
dotazioni individuali e scolastiche e da peggiori condizioni
socio-economiche, facciano forse anche relativamente meglio rispetto
ai loro colleghi del Nord.
Le politiche dell’istruzione
Fatto sta che dal piano della descrizione
dell’evidenza empirica occorre passare poi a quello dell’azione, per
rimuovere o compensare i fattori di contesto che sono all’origine
delle differenze nei punteggi grezzi, ovvero nelle competenze degli
studenti. Tuttavia, prima di cimentarsi in suggerimenti di policy
occorrerebbe a nostro avviso lavorare almeno su un doppio binario: 1)
arricchire Pisa di un questionario
relativo ai docenti: dovrebbe
raccogliere informazioni sulle pratiche e le caratteristiche del corpo
docente, che riteniamo abbia un’importanza centrale nella formazione
delle competenze. Nelle precedenti indagini, informazioni di questo
genere sono state chieste solo ai dirigenti scolastici. 2) Garantire
una più ampia diffusione dell’ottica
della valutazione (e non solo in
ambito scolastico), a partire dalle sperimentazioni scolastiche, che
troppo raramente vengono fatte, o dalle
riforme complessive (sarebbe
meglio dire tentativi di riforma) che si susseguono nel nostro paese,
prima ancora che vi sia stato il tempo sufficiente di applicare,
valutare e giudicare la "bontà" di quelle precedentemente introdotte,
in termini oggettivi e non puramente ideologici.
Per saperne di più
Bratti, M., Checchi, D., Filippin, A. (2007) Da
dove vengono le competenze degli studenti? Bologna: Il Mulino - (forthcoming).
Bratti, M., Checchi, D., Filippin, A. (2007) "Territorial
Differences in Italian Students’ Mathematical Competencies: Evidence
from Pisa 2003", IZA Discussion Paper No. 2603 (February), – Bonn:
IZA.
(1) Le
competenze sono misurate da un punteggio la cui media a livello Ocse è
stata normalizzata a 500 e deviazione standard a 100.
torna su
Alla
scuola di qualità non bastano le risorse
di Massimiliano Bratti, Daniele Checchi e
Antonio Filippin 21-09-2007
Le variabili solitamente utilizzate nella
letteratura economica per approssimare le
risorse investite nella scuola
sono la spesa per studente, il rapporto studenti/insegnanti e la
numerosità delle classi. Il loro ruolo nell’influenzare il rendimento
degli studenti è oggetto di aspre controversie fin dal 1966, quando
negli Usa è stato elaborato il rapporto Coleman per spiegare i
peggiori rendimenti scolastici che caratterizzavano alcune minoranze.
Da allora, si sono susseguiti centinaia di contributi che, basandosi
su metodologie non sperimentali, sono arrivati a conclusioni molto
diverse tra loro. Per questo motivo, alcuni autori hanno scritto
rassegne che avevano l'obiettivo di sintetizzare l'imponente mole di
lavori disponibili. Tuttavia, anche le rassegne hanno raggiunto
conclusioni
opposte,
in base al modo utilizzato per sintetizzare i contributi esistenti.
Tutto ciò la dice lunga su quanto controverso sia il ruolo delle
risorse.
Risorse e risultati
Ci sono anche ragioni teoriche che possono
spiegare il fatto che non si trovi una relazione robusta tra risorse e
risultati. Prendiamo la numerosità
delle classi, ad esempio: una
relazione negativa tra dimensioni delle classi e performance degli
studenti potrebbe essere mascherata dal fatto che l'allocazione degli
studenti in classi grandi o piccole non è casuale. Se gli studenti
"peggiori" risultano concentrati con maggiore probabilità in classi di
dimensioni ridotte, quelle più numerose possono anche risultare
migliori. Recentemente, alcuni studi hanno fornito evidenza
sperimentale sull’argomento e sembra esistere un effetto positivo,
sebbene debole. Nel Tennessee l’esperimento Star ha assegnato
in modo casuale
una coorte di studenti, e i relativi insegnanti, a classi di diverse
dimensioni: i risultati in test standardizzati sono migliorati di
circa il 4 per cento durante il primo anno in cui gli studenti sono
inseriti in classi più piccole, e dell’1 per cento in ciascun anno
successivo. (1)
Pur in presenza di voci a volte molto discordanti, il dibattito in
letteratura avviene in un ambito delimitato da alcuni punti fermi:
1) Un meccanismo automatico che leghi maggiori
risorse investite nella scuola a migliori rendimenti degli studenti è
tutt’altro che ovvio.
2) Anche gli autori che si mostrano più scettici
sul ruolo delle risorse scolastiche non si spingono ad affermare che
investire nella scuola sia inutile.
Il caso Italia
Il primo punto trova in Italia una immediata
conferma. Come ben documentato nel
Quaderno bianco sulla scuola (parte I,
par. 4.2), l’Italia spende per l’istruzione
più della media
dei paesi Ocse. Particolarmente elevata risulta la spesa per il
personale,
in virtù dell’alto rapporto insegnanti/studenti. Ciò è dovuto, da un
lato, al maggior impegno orario degli studenti, particolarmente nella
scuola primaria e in misura minore nella scuola secondaria inferiore.
Dall’altro, alla maggiore incidenza di alcune tipologie di insegnanti:
di sostegno, di religione, e fuori ruolo. Anche al netto di queste
figure, tuttavia, il rapporto è di 9,1
insegnanti per 100 studenti in
Italia, contro una media di 7,5 nei paesi Ocse. Eppure, i risultati
che emergono da indagini standardizzate internazionali, come ad
esempio Pisa, pongono le competenze
degli studenti italiani sistematicamente sotto la media. Anche
all’interno del nostro paese non emerge una correlazione tra quantità
di risorse investite, distribuite abbastanza uniformemente a livello
territoriale, e risultati degli studenti, che mostrano un forte
svantaggio delle regioni centro-meridionali. Inoltre, se la quota di
spesa in conto capitale risulta correlata positivamente con le
competenze degli studenti, non lo è altrettanto la spesa per
insegnanti, mentre quella per altro personale e consumi intermedi
mostra addirittura una correlazione negativa. (2)
L'assenza di sistematiche correlazioni positive tra
quantità di
risorse investite e risultati non esclude che esistano altri effetti
sulle competenze degli studenti che le variabili elencate sopra non
consentono di cogliere. E qui veniamo al secondo punto. Le differenze
tra scuole potrebbero essere in parte spiegate da determinanti di tipo
istituzionale anziché dall’ammontare delle risorse investite. O da
altri fattori che influenzano la
qualità della scuola, come il livello
di preparazione e di motivazione degli insegnanti. La letteratura
evidenzia fra questi la centralizzazione degli esami, il livello di
autonomia scolastica, il livello di autonomia didattica degli
insegnanti, l’esistenza di valutazioni da parte degli studenti e il
livello di concorrenza da parte di scuole private.
In parole povere, la questione non è solo
quanto
spendere per la scuola, ma soprattutto
come. E visto che in Italia la
quantità di risorse investite non è inferiore a quella degli altri
paesi sviluppati mentre sono inferiori i risultati ottenuti, è
obbligatorio ripensare al modo in cui le risorse sono spese.
A proposito del decentramento delle
responsabilità e delle competenze nel
governo della scuola intrapreso in Italia dagli anni Novanta, sempre
nel Quaderno Bianco
(pag. 32) si legge che:
"È mancata l’assegnazione alla scuola di autonomia
economico-finanziaria, ma anche la strumentazione per monitorarla; e,
ancora, l’attribuzione alle scuole di poteri effettivi che consentano
a ognuna di esse di attuare gli interventi necessari al miglioramento
dei propri risultati".
Si tratta di una descrizione coincisa ed efficace di come una
qualunque riforma
sia destinata a rimanere incompiuta,
finché al decentramento non si affianchi l’attribuzione di poteri
effettivi e responsabilità in capo a chi è chiamato a gestire la
fornitura del servizio. Se a questo aggiungiamo la già dimostrata
avversione dei principali attori del sistema scolastico, ovvero gli
insegnanti,
alla loro valutazione e incentivazione su base meritocratica, risulta
abbastanza facile prevedere che eventuali risorse addizionali da
destinare alla scuola non sortiranno effetti di rilievo sulle
competenze degli studenti.
(1) Krueger, A.B. (1999). "Experimental
Estimates of Education Production Functions" Quarterly Journal of
Economics 114(2): 497-532.
(2) Bratti, M., Checchi,
D., Filippin, A. (2007) "Territorial Differences in Italian Students’
Mathematical Competencies: Evidence from Pisa 2003", IZA Discussion
Paper No. 2603 (February) – Bonn: IZA.
torna su
I
conti fatti senza i bambini stranieri
di Francesco Billari 21-09-2007
Quanti saranno gli studenti della scuola nei
prossimi anni? Di quanti insegnanti avremo bisogno, e dove? Non è
semplice rispondere a queste domande, fondamentali per ogni serio
esercizio di pianificazione in un campo cruciale come l’istruzione
pubblica. Nel Quaderno bianco sulla
scuola un modello di simulazione cerca di
farlo, ma sconta il mancato aggiornamento delle previsioni
demografiche e una scarsa considerazione dell’effetto della recente
"rivoluzione demografica" sulla presenza di alunni stranieri.
Demografia e scuola
Chi andrà in
prima elementare nel 2012? La
risposta a questa domanda è potenzialmente banale: a meno degli
anticipi scolastici e di fattori demografici tra oggi e il 2012
(decessi, e soprattutto immigrazioni), alla prima campanella si
presenteranno i nati in Italia nel 2006: 560mila circa. Forse alcuni
tra noi saranno sorpresi nel sapere che i nati nel 2006 sono quasi il
16 per cento in più dei nati di un decennio prima: 484mila.
(1) Insomma,
in questi dieci anni non è continuato il ben noto calo, ma le nascite
sono aumentate.
L’effetto della demografia sulla scuola è sempre stato importante.
Caso da manuale è quanto è successo nella
Romania di
Ceausescu: l’introduzione di una politica improvvisamente pronatalista
(con la proibizione dell’aborto legale) ha fatto quasi raddoppiare le
nascite da un anno all’altro: 274mila nel 1966 e 528mila nel 1967. Non
è un caso così lontano da noi: è successo nel paese che è oggi il
primo per presenza straniera in Italia, in numero superiore a quello
dei nati in Romania del 1966. Ovviamente, la carriera scolastica della
leva romena del 1967 è stata
disastrosa: improvvisamente le scuole
si sono trovate, impreparate, di fronte a una mole doppia di studenti,
con classi di 40 alunni e lezioni fino a tre turni.
(2) Pur
essendo lontani da quell’esempio, è bene ricordare che una
seria programmazione scolastica
(e non solo) non può che poggiare su solide ipotesi demografiche, per
non doversi scontrare con una realtà colpevolmente inattesa.
La scuola italiana tra vent’anni
Dallo sforzo congiunto dei ministeri della
Pubblica istruzione e dell’Economia e delle Finanze è nato il
Quaderno Bianco sulla Scuola.
Contiene un interessante, e ambizioso, prototipo di modello per
prevedere il numero di studenti da qui a vent’anni a livello nazionale
e regionale.
Partendo dal numero di studenti, il modello consente di prevedere il
fabbisogno di insegnanti. Non presenta una sola previsione "centrale",
ma una forchetta compresa tra un’ipotesi alta (con più studenti e
insegnanti) e un’ipotesi bassa (con numeri minori).
Quali sono i risultati? In Italia nell’anno scolastico 2006/07 gli
studenti (dalle scuole dell’infanzia alle secondarie superiori) sono
stati 7736 mila. Tra dieci anni
gli studenti sarebbero da 7655 (ipotesi bassa) a 8135mila (ipotesi
alta). Tra venti anni, da 6994 (ipotesi bassa) a 7863 mila (ipotesi
alta). A venti anni,
dunque, il modello prevede un aumento massimo del numero di studenti
dell’1,64 per cento. E nel caso minimo una diminuzione del 9,6 per
cento rispetto a oggi. La diminuzione colpirebbe soprattutto il Sud,
che è in piena crisi demografica,
e si ripercuoterebbe in tempi diversi per livello di scuola. In
generale, per il Quaderno
si prospetta un cambiamento
graduale
e senza rivoluzioni sul numero di studenti per i prossimi vent’anni.
La previsione dell’andamento del numero di studenti si riverbera sul
tendenziale fabbisogno di insegnanti, per i quali è prevista comunque
un’allocazione più efficiente rispetto allo stato attuale (ovvero:
meno insegnanti per alunno). Partendo da 888mila nel 2006/07, il
fabbisogno a dieci anni sarebbe di 853 (ipotesi bassa) oppure 906mila
(ipotesi alta). A venti anni, il fabbisogno sarebbe di 778 (ipotesi
bassa) oppure 875mila (ipotesi alta) insegnanti. Dunque, il
Quaderno prevede in
ogni caso una riduzione del numero di
insegnanti nella scuola pubblica da
qui al 2026-2027.
Ma siamo proprio sicuri?
Il modello prototipo del Quaderno è molto ben
congegnato e delinea in modo trasparente le ipotesi adottate. In
questo senso, è un ottimo esempio di modello utile per le policy, con
uno stile che dovrebbe essere adottato più in generale, come dagli
stessi ministeri quando pensano all’università. La trasparenza ha un
costo: si individuano più facilmente i punti deboli e i rischi insiti
nelle previsioni. Queste previsioni dovranno essere riviste, come già
previsto dallo stesso Quaderno, sperando che il provvisorio non
diventi definitivo senza riflessioni.
Ma quali sono i punti deboli e i rischi della previsione dei ministeri
sulla scuola nei prossimi vent’anni?
Il problema principale è demografico, ma anche squisitamente politico:
la scarsa considerazione di quella che è stata la vera e propria
rivoluzione demografica
degli ultimi anni in Italia, e che si riverbera nell’aumento degli
alunni
stranieri.
Il Quaderno parla pochissimo degli alunni stranieri o di origine
straniera, citati solo otto volte in 246 pagine di rapporto.
Come si fa a parlare del futuro della scuola in Italia senza avere una
grande attenzione verso i nuovi italiani? Nel 2005/06 sono stati quasi
il 5 per cento degli alunni, più dell’8 per cento nel Nord Est, e la
quota è destinata ad aumentare. Sempre nel 2005, il
12,2 per cento dei neonati
in Italia ha una madre straniera, con punte del 28 per cento nella
provincia di Prato e del 25,4 per cento in quella di Brescia e,
all’opposto, l’1,5 per cento in quella Taranto. Inoltre, i nuovi
immigrati portano spesso con sé i figli, andando a incrementare anche
la popolazione nelle fasce di età scolastica. La sfida
dell’integrazione per le seconde generazioni passa, com’è ovvio,
primariamente dalla scuola: nessuna considerazione del potenziale
maggiore fabbisogno di docenti
a parità di studenti nelle scuole con molti alunni stranieri, né in
generale delle nuove sfide generate dai "nuovi italiani" è presente
nel modello. Poca attenzione su questo tema sembra pervadere l’intero
Quaderno. Un atteggiamento molto rischioso.
La questione è ancora più problematica considerando le previsioni
demografiche sottostanti: quelle "ufficiali" Istat del 2003 (ormai
datate, riferite alla situazione pre-censimento 2001, con un numero di
stranieri pari a circa la metà di oggi) e del 2007 (ancora
incomplete). A rischio di sottostima dei numeri è in particolare
l’ipotesi alta del Quaderno, che prevede un
flusso netto di immigrati
pari a 162mila unità
annue nei prossimi vent’anni. Come possiamo pensare che si tratti di
un estremo superiore per la programmazione se il flusso netto di
immigrati è stato 377mila nel 2006, 300mila nel 2005, 558mila (per le
regolarizzazioni) nel 2004, e così via? Insomma: l’ipotesi alta
rischia una sottostima
del numero di alunni nei prossimi vent’anni, soprattutto se i flussi
migratori continueranno al ritmo attuale, contribuendo sia alle
presenze di bambini sia alle nascite.
Il Quaderno mette in guardia verso gli alti costi della non
programmazione "alla Ceausescu" e di un sottodimensionamento delle
strutture e del numero di docenti. Ma proprio per questo l’ipotesi
alta è troppo bassa ed è ben lontana dal rappresentare una
soglia di sicurezza
per la programmazione. In presenza di forti migrazioni, come oggi in
Italia, la proverbiale inerzia della demografia va messa in
discussione: soprattutto per i bambini, tanto può cambiare in poco
tempo.
Le previsioni sulla scuola saranno riviste quando l’Istat rilascerà le
nuove proiezioni demografiche, la cui frequenza è oggi troppo
diradata. Il modello di fondo è valido, ma occorrerà porre maggiore
attenzione al numero di alunni di origine straniera e agli effetti
della loro presenza sulle necessità di docenza.
(1) I dati sono di fonte
Istat per l’Italia (http://www.demo.istat.it/), Eurostat per la
Romania (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/).
(2) Si può vedere ad
esempio: Manuela Lataianu, The 1966 Law Concerning Prohibition of
Abortion in Romania and its Consequences. The Fate of one Generation,
Euresco Workshop "The Second Demographic Transition in Europe", Bad
Herrenalb, 2001 (http://www.demogr.mpg.de/Papers/workshops/010623_paper25.pdf).
torna su
La
giostra degli insegnanti
di Paolo Sestito* 21-09-2007
Il Quaderno bianco
sulla scuola costituisce un’importante
presa d’atto dei problemi e delle difficoltà del
sistema scolastico italiano.
La sua importanza è per più versi accresciuta dal suo essere un
documento congiunto del ministero di spesa settorialmente competente e
del ministero di controllo della spesa. In quanto tale, ben potrebbe
rappresentare il punto d’avvio d’una
riflessione sulla efficacia ed
efficienza del sistema scuola in Italia. Riflessione tanto più
opportuna alla luce del fatto che il nostro paese, anche nel confronto
internazionale, spende tanto, in rapporto al numero di studenti, a
fronte di risultati, in termini di competenze raggiunte dai nostri
studenti, in media poco soddisfacenti e molto iniquamente distribuiti,
con un forte divario tra Nord e Sud e tra scuole diverse, anche
all’interno dello stesso ordine di scuole.
(1)
I suggerimenti del Quaderno
La spesa è elevata soprattutto a causa di un
elevato rapporto insegnanti/alunni,
non per via di un’elevata retribuzione unitaria degli insegnanti. Il
Quaderno
sembra voler rappresentare una sterzata rispetto ai dibattiti abituali
sulla scuola, molto centrati - soprattutto in questa stagione
dell’anno, alla vigilia della predisposizione della legge Finanziaria
- sulle quantità degli input (gli aspiranti insegnanti a cui trovare
un contratto stabile) e poco sulla qualità dell’output - gli
apprendimenti, alquanto differenziati tra scuole, nonostante
l’uniformità di regole e trattamenti.
La direttrice suggerita per superare questo stato di cose sembra
essere quella fornita dal combinato disposto di maggiore
autonomia delle scuole
(quella che viene definita l’attuazione di una "riforma già fatta") e
maggiore capacità di governo e
monitoraggio centrali del sistema (in
termini di programmazione dei flussi di personale e di valutazione
degli apprendimenti e quindi delle scuole da parte dell’Invalsi). La
direttrice in questione pare in linea con le evidenze disponibili a
livello internazionale, che nel binomio autonomia (e flessibilità
operativa) e valutazione (omogenea e quindi in qualche misura
centralizzata) vedono un’accoppiata vincente, l’una cosa senza l’altra
rischiando di produrre più danni che benefici. Naturalmente, molti
aspetti di dettaglio richiedono ulteriori precisazioni e
approfondimenti, l’obiettivo del Quaderno
sembrando esser proprio quello di aprire in proposito un vivace
dibattito. Senza entrare nel merito delle proposte più specifiche
contenute nel documento, qui ci si limita a sintetizzare alcune
evidenze significative sul come regole omogenee e meccanismi
centralizzati di allocazione del personale finiscano col produrre
risultati fortemente differenziati. La centralizzazione, ancor prima
che il loro non affidarsi a meccanismi programmatori pluriennali
(quali quello esposto nel Quaderno),
sembra infatti fonte di inefficienze.
Le scuole più desiderate
In Italia molti
degli insegnanti annualmente incaricati presso le diverse scuole sono
precari,
con incarichi fino al termine delle attività didattiche o fine al
termine dell’anno scolastico. Gli incarichi, circa il
15 per cento
delle posizioni annualmente in essere, sono definiti annualmente
ripercorrendo l’ordine in graduatoria di chi aspira a un contratto
permanente da insegnante. (2) Di per sé, la natura
centralizzata e amministrativa degli incarichi annuali porta a un
notevole turnover del corpo docente delle singole scuole: anche se la
gran parte dei precari con incarico annuale in un dato anno è poi
occupata anche nell’anno scolastico successivo, molto spesso ciò
accade in una scuola diversa.
Il turnover
effettivo è poi ulteriormente innalzato da quegli insegnanti che, pur
avendo un contratto a tempo indeterminato, si muovono, su loro
richiesta, da una scuola all’altra. Nel complesso, ogni anno circa
un insegnante su cinque
è un nuovo arrivato nella specifica scuola in cui si trova a operare.
L’indicatore in questione, peraltro, sottovaluta l’instabilità del
corpo docente perché considera la situazione assestata degli incarichi
annuali, senza tener conto del fatto che spesso le assegnazioni
definite a settembre vengono poi mutate nel corso dell’anno. Ma il
fenomeno è plausibile fonte di difficoltà nello svolgimento e nella
programmazione dell’attività didattica. La programmazione didattica è
del resto in Italia affidata più al
collegio dei docenti
(e ai singoli docenti) che alle scuole in quanto tali, che in questo
"va e vieni" di docenti sono un elemento alquanto passivo, non potendo
"scegliersi" gli insegnanti. Il turnover, oltre a variare molto tra
scuole, appare negativamente correlato con i risultati (nelle scuole
secondarie superiori) dell’indagine Pisa.
* Le opinioni qui espresse sono esclusivamente
personali e non necessariamente impegnano l’Istituzione di
appartenenza.
(1)
Il divario rispetto ad altri paesi in termini di
competenze, per come misurato dall’indagine Pisa, sembra più marcato
di quello in termini di conoscenze (le prime essendo definibili in
termini di capacità di utilizzo delle seconde). Ciò potrebbe in parte
discendere da un orientamento culturale più "scolastico" e
tradizionale della scuola italiana, non ben rappresentato da misure
originatesi in prevalenza nel mondo anglosassone. Più discusso è se
ciò rifletta un problema – connesso ad esempio al rischio che la
nostra scuola sottovaluti l’empirismo, la scienza e la tecnologia
moderne. L’opinione di chi scrive è che, almeno in parte,
nell’orientamento culturale della nostra scuola vi siano dei tratti
problematici. Il punto che però qui più interessa è che una scarsa
qualità media degli apprendimenti degli studenti italiani è comunque
confermata anche da altre misure (ad esempio Pirls e Timms) una volta
che si effettuino confronti su base omogenea con gli altri paesi. Se
dal confronto tra le diverse indagini una conclusione deve trarsi è
semmai che i ritardi degli studenti italiani crescono al procedere del
corso degli studi, segnalando le difficoltà della scuola, in
particolare di quella media inferiore. Soprattutto, quelle misure (e
quelle definite dall’Invalsi a livello esclusivamente nazionale)
confermano il pattern delle differenze interne all’Italia.
(2)
Essi non esauriscono l’universo del precariato,
in cui vanno anche ricompresi i soggetti incaricati per periodi più
brevi. Sono le cosiddette supplenze
brevi, definite dalle singole scuole, la cui effettuazione poi
consente, in assenza di qualsivoglia concorso e meccanismo di verifica
di attitudini e capacità, di entrare nelle liste degli aspiranti al
ruolo da cui sono anche tratti i docenti con incarichi annuali.
Correlazione tra mobilità dei docenti e
risultati del test Pisa 2003
(a livello di scuola)
Fonte: Gianna Barbieri, Piero
Cipollone e Paolo Sestito: Labour market for teachers: demographic
characteristics and allocative mechanisms, mimeo, luglio 2007
torna su
Se la
selezione resta fuori dall'aula
di Andrea Ichino 21-09-2007
Il
Quaderno bianco
potrebbe essere ancora più esplicito, ma il messaggio per il ministro
Fioroni nelle pagine dedicate all’organizzazione delle
risorse umane
è chiarissimo: "le caratteristiche dell’attuale assetto vanno in
direzione difforme da quella suggerita dalle evidenze internazionali
oltre che dal buon senso".
È infatti in primo luogo il buon senso, oltre che una sconfinata mole
di ricerca teorica ed empirica nell’area della "Personnel economics",
a suggerire che la gestione delle risorse umane nella scuola italiana
sia un fallimento in entrambi i suoi pilastri fondamentali: la
selezione
e l’incentivazione
del personale. Così come attualmente
strutturati i due pilastri potrebbero funzionare solo se gli
insegnanti fossero tutti santi, missionari e dotati naturalmente di
caratteristiche perfette e inossidabili per fare il loro lavoro.
Se il ministro concorda sul fatto non ci si possa attendere dagli
insegnanti di avere queste caratteristiche, i due pilastri vanno
ricostruiti ex novo.
Selezione del personale
I lavori di Hanushek
e altri, citati dal Quaderno bianco, mostrano in modo
inequivocabile che ci sono caratteristiche individuali e persistenti
nel tempo degli insegnanti, in virtù delle quali chi è "bravo" lo è in
qualsiasi scuola e con qualsiasi gruppo di studenti, mentre è poco
frequente il caso di insegnanti "bravi" in un contesto e non in un
altro. Chiamatelo come volete, ma l’evidenza empirica (e anche le
esperienze personali) suggeriscono che esista un "talento del
saper insegnare"
che non tutti hanno in ugual misura. E ben poco può fare la
formazione professionale
per sopperire alla mancanza di talento, poiché serve a poco versare
acqua dove nulla può crescere.
Questo è vero per molte professioni, e non a caso la selezione del
personale è forse il problema più difficile da risolvere nella
gestione delle risorse umane, ma ciò che qui importa è che il sistema
dei concorsi pubblici è palesemente incapace di evitare l’assunzione
di persone che non dovrebbero fare gli insegnanti. Prima ancora
che un problema di incentivazione, gli "insegnanti fannulloni" di cui
tanto si parla sono il sintomo di una selezione sbagliata del
personale all’inizio della carriera. Se un appunto può essere fatto al
Quaderno bianco, è che sul problema dei concorsi e del
reclutamento dice troppo poco.
In particolare, il Quaderno non mette in luce il motivo
strutturale che impedisce ai concorsi pubblici italiani di selezionare
in modo efficiente gli insegnanti. Che è semplice: chi sceglie, ossia
la commissione concorsuale, non subisce le
conseguenze di una scelta sbagliata.
Nella migliore delle ipotesi, si limita alla verifica di requisiti
burocratico-formali che spesso non garantiscono l’esistenza di una
reale "capacità di insegnare", guardandosi bene dal prendere in
considerazione ben più rilevanti caratteristiche sostanziali, per il
timore di accuse di arbitrarietà discriminatoria. Nell’ipotesi
peggiore, ma purtroppo frequente, l’arbitrio della commissione viene
mascherato sotto il velo della correttezza burocratico-formale non per
selezionare il meglio, ma solo al fine di far passare i raccomandati
di turno.
In questo come in altri settori della pubblica amministrazione, è
necessario sostituire il sistema concorsuale con un sistema in cui le
decisioni di assunzione vengano prese da chi sopporta le conseguenze
di decisioni sbagliate, ossia in primo luogo dai
presidi
di ciascuna scuola. Chiamiamoli pure concorsi locali e stabiliamo con
chiarezza e trasparenza quali requisiti formali oggettivi i candidati
debbano avere, ma lasciamo anche spazio per una valutazione del "non
misurabile" da parte dei presidi: non ci saranno rischi di corruzione
se la valutazione
di performance delle scuole (su cui il Quaderno opportunamente
fa numerose dettagliate proposte) verrà utilizzata per premiare i
presidi che facciano scelte giuste. E anche in assenza di questo, ci
saranno i genitori e gli studenti a premere perché i presidi non
facciano errori. E la pressione va benissimo per questo e altri
problemi, purché ai presidi vengano dati gli strumenti giusti per
governare le risorse umane a loro affidate.
Incentivazione del personale
È di nuovo il buon
senso prima ancora che la teoria economica a suggerire che solo dei
santi possono essere disposti a dare il massimo senza ricevere alcun
compenso per il loro impegno. È giunta l’ora di mettere in soffitta
l’ipocrisia di chi ritiene che l’insegnamento sia una missione da non
svilire abbinandola a problemi di "vil denaro".
I fatti sono chiarissimi nelle tabelle del Quaderno bianco: non
è che gli insegnanti italiani siano pagati drammaticamente meno che
negli altri paesi in termini di retribuzione oraria o annua. Anche
senza questa evidenza, basterebbe a dimostrarlo il fatto che i
concorsi hanno un numero di candidati largamente superiore ai posti
disponibili. Quindi per molti, a conti fatti, la carriera
dell’insegnante è attraente proprio perché
paga relativamente bene
per quanto concretamente
richiesto dal datore di lavoro.
Il vero problema è che la retribuzione e la progressione di carriera
degli insegnanti sono interamente determinate dall’anzianità
di servizio
o da incarichi particolari, e
completamente indipendenti dall’impegno profuso e dai risultati
ottenuti, comunque misurati. Per gli insegnanti non esistono nemmeno
promozioni tra livelli, ancorché meramente contrattuali, come invece
accade in altri settori della pubblica amministrazione.
La soluzione è una sola ed è urgente: le retribuzioni e le carriere
degli insegnanti devono dipendere in misura maggiore dalla
performance, misurata almeno a livello di scuola e possibilmente anche
al livello di ogni singolo lavoratore. È ipocrita nascondersi dietro
il dito della difficoltà di misurare l’input e l’output. Il
Quaderno bianco è pieno di suggerimenti interessanti a questo
proposito e avrebbe potuto farne altri ancor più coraggiosi.
Ma soprattutto è bene chiarire che questo è un terreno in cui, per
trovare la soluzione migliore, è necessario sperimentare combinazioni
di meccanismi di incentivazione, mentre è del tutto inutile discutere
quale essa sia su un piano ideologico di principio. Ha ragione chi
dice che il lavoro degli insegnanti non può essere misurato solo in
termini di input,
ad esempio giorni di presenza. Così come non può essere valutato solo
sulla base di indicatori misurabili di
output,
ad esempio, la performance degli studenti in livello o variazione o i
giudizi dei genitori. Ha anche ragione chi sottolinea l’esistenza di
componenti della valutazione di un insegnante non riducibili a numeri
e che devono avere una rilevanza anche se suscettibili di dipendere in
modo arbitrario dalle opinioni dal valutatore. Il mix giusto può
essere trovato solo sperimentalmente e deve essere individuato da chi
sopporta le conseguenze della scelta di un mix sbagliato. Ancora una
volta dovrebbe toccare ai presidi la sperimentazione e la scelta della
soluzione più adatta alla loro scuola, nell’ambito di linee guida
molto generali stabilite dal ministero. Questo a condizione che ai
presidi, e via via a chi sta sopra di loro, siano stati indicati gli
obiettivi da perseguire
e gli incentivi corrispondenti.
Al vertice della piramide ci sta il ministro: tocca a lui cominciare
dai suoi collaboratori.
torna su
Imparare a ragionare. A Nord come a Sud
di Salvatore Modica 21-09-2007
Il
divario di competenze
fra Nord e Sud si può riassumere più o meno in questi termini:
problemi che al Nord sanno risolvere la metà dei ragazzi, al Sud
vengono risolti da uno su cinque.
(1)
Secondo Bratti-Checchi-Filippin (2007), il 70 per cento del divario è
dovuto al contesto (famiglia, legalità, servizi pubblici,
infrastrutture) e il 30 per cento a problemi interni al governo della
scuola. (2)
Dunque, il divario è profondo, e solo in parte dovuto a carenze
interne del sistema scolastico. D’altra parte, l’impegno politico sul
problema è serio: nei programmi 2007-2013 di politica regionale per lo
sviluppo ci sono 4,2 miliardi
di euro destinati ad
interventi sull’istruzione, a fronte di 1 miliardo nel 2000-2006 (www.dps.tesoro.it/qsn/qsn.asp).
Dal sapere al saper fare
Il governo sembra
aver fatto proprio l’obiettivo del passaggio "dal sapere al saper
fare" che è oggi il punto di riferimento degli standard internazionali
di misurazione della qualità
dei sistemi scolastici: è necessario sapere la regola di risoluzione
di un’equazione algebrica, ma è importante capire quando un problema
non algebrico si risolve con quell’equazione. Perché a questo
"imparare a ragionare" si riferisce, da un lato, il ministero della
Pubblica istruzione quando pone l’accento sull’importanza della
matematica e dell’italiano; e dall’altro, il ministero dello Sviluppo
economico, quando inserisce nel Programma sull’istruzione 2007-2013
obiettivi "vincolanti" definiti in termini di variabili misurabili, in
particolare la frazione di studenti che acquisisce competenze
superiori al primo livello Pisa.
Sull’aspetto fondamentale della realizzazione dei programmi del
governo, il Quaderno bianco sulla scuola propone alcuni passi
da attuare già nella attuale fase di avvio. In particolare:
(1) Costruire quanto prima una base ampia di informazioni sulle
competenze degli studenti, sfruttando possibilmente i risultati di
Pisa 2006 che arrivano a dicembre, oltre che sul contesto, al fine di
orientare gli interventi in funzione delle
necessità reali del territorio.
(2) Stabilire nei singoli istituti scolastici un collegamento diretto
con l’Invalsi,
che fornisca supporto nell’analisi della situazione e nella ricerca
delle direzioni di miglioramento. A tal proposito, di grande utilità
sarebbe a nostro avviso una "banca test" gestita dall’Invalsi
contenente esercizi, problemi e test disciplinari che le scuole
possano utilizzare quotidianamente.
(3) Sperimentare forme di
incentivi
agli istituti e ai docenti basati sui
risultati ottenuti in termini di competenze, utilizzando i fondi
addizionali 2007-2013.
Aggiungeremo qui un paio di considerazioni che assumono particolare
rilevanza nella realtà del
Mezzogiorno in cui bisogna
produrre una discontinuità. Ma va premesso che il ministero ha senza
dubbio individuato le criticità principali del sistema:
infrastrutture, autonomia scolastica, contenuti dell’apprendimento,
valutazione dei risultati, centralizzazione (almeno parziale) degli
esami, tempo pieno, infanzia.
Autonomia, misurabilità, incentivi
È largamente
confermata da ricerche empiriche, citate anche nel Quaderno,
l’idea che la qualità della scuola dipende in larga misura dal
lavoro degli insegnanti,
ai quali va garantita autonomia di gestione in un contesto di
misurabilità dei risultati ottenuti (nel caso italiano, con funzioni
manageriali dei dirigenti scolastici e di supporto dell’Invalsi). Il
discorso è chiaro: la decentralizzazione delle scelte operative
permette di sfruttare meglio l’informazione in possesso degli agenti
locali, ma perché il sistema nel suo complesso si attesti su livelli
accettabili occorre poter misurare i risultati raggiunti nei diversi
centri di decisione. Altrettanto chiaro è però che la misurabilità dei
risultati induce comportamenti volti a massimizzarli
soltanto
se questi vengono
adeguatamente
premiati.
Nel Quaderno,
la necessità della presenza di forti incentivi agli insegnanti non
sembra essere sottolineata, forse per motivi "politici", con
sufficiente fermezza. (3)
Infanzia e tempo pieno
Su entrambi i fronti
il governo sta già intervenendo, il problema riguarda
l’ordine di priorità.
A nostro avviso, queste non sono due fra le mille cose che devono
essere fatte: sono le più importanti. Perché se il divario di
competenze è dovuto per il 70 per cento al contesto, una buona parte
delle risorse dovrebbe servire a far vivere i bambini e i ragazzi
svantaggiati in ambienti migliori di quelli
familiari e sociali di provenienza.
Si noti che per quanto riguarda l’infanzia, importanti ricerche
indicano che una parte significativa del differenziale di capacità
cognitiva fra figli di genitori con diverso grado di istruzione si
determina prima dei cinque anni.
(4)
Il tempo pieno,
poi, è essenziale e uno sguardo alla figura 1.19 del Quaderno
dà un’idea dei termini del problema nelle scuole primarie. Tuttavia,
resta da chiarire cosa si va a fare a scuola di pomeriggio.
L’obiettivo di "favorire l’ampliamento dell’offerta formativa e un
pieno utilizzo degli ambienti e delle attrezzature scolastiche"
(5)
è ambiguo, laddove è fondamentale sfruttare il servizio addizionale
precisamente per quel passaggio dal sapere al saper fare che permea
tutto il programma. In altre parole, di pomeriggio si dovrebbero
fare esercizi.
Con il tutoraggio di
insegnanti bravi che in tal modo potrebbero essere adeguatamente
ricompensati.
Governo e opposizione
I processi di cui
stiamo discutendo hanno orizzonti temporali lunghi, non si può pensare
che il paese possa fare passi avanti se ogni governo disfa quello che
il precedente ha realizzato. Quello attuale, in materia di
istruzione, non sembra avere un
atteggiamento disfattista
verso chi l’ha preceduto, ma
ha la responsabilità di non aver ancora aperto un confronto
approfondito sulla questione. Per esempio, al centro del quadro
tracciato nel Quaderno bianco si trova un Invalsi trasformato in un
alto centro di competenza e ricerca, punto di riferimento di tutto il
sistema: un soggetto di questo tipo o è di tutti o dura poco. E se
dura poco è un guaio grosso.
(1)
Vedi i dati dell’indagine Pisa, Programme for International Student
Assessment, che nel 2003 si è incentrata sulle competenze in
matematica.
(2) Bratti, M., Checchi, D., Filippin, A. (2007) "Territorial
Differences in Italian Students’ Mathematical Competencies: Evidence
from Pisa 2003", IZA Discussion Paper No. 2603 (February).
Per il divario Nord-Centro, le quote sono rispettivamente 25 e 75 per
cento.
(3) Per inciso, se alcuni insegnanti vanno pagati più di altri,
dove si prendono i soldi quando finiscono i fondi addizionali? Una
risposta possibile è: dalle paghe dei docenti universitari.
Considerando lo sviluppo del nostro sistema universitario, che sarà
sempre più marcatamente suddiviso in due livelli – uno inferiore delle
lauree brevi, uno superiore che produce conoscenza –, viene subito da
chiedersi perché un bravo insegnante di scuola debba guadagnare la
metà di un docente universitario che ha prodotto ricerca mediocre e
che da un certo punto in poi fa solo didattica elementare.
(4) Vedi Heckman, J.J., "The New Economics of Child Quality",
2007. E "Millennium Cohort Study", Center of Longitudinal Studies,
www.cls.ioe.ac.uk
(5) Comunicato stampa del ministero dell’Istruzione del 31 agosto
2007.
torna su
Il
Quaderno promuove la valutazione. Con qualche riserva
di Bruno Losito 21-09-2007
Il Quaderno
bianco sulla scuola attribuisce una notevole rilevanza alla
valutazione,
sia nella prima parte di analisi, sia nella seconda, dedicata alle
proposte di intervento e alle condizioni per la loro realizzazione. Si
tiene conto di diverse prospettive teoriche e delle evidenze empiriche
disponibili, delle esperienze realizzate a livello internazionale e
nazionale, delle principali posizioni emerse nel dibattito su queste
prospettive e su queste esperienze. Dalla lettura del testo e dal
confronto tra le due parti emergono alcuni
nodi critici,
che richiedono ulteriori approfondimenti e specificazioni.
Ricerca valutativa ed
educativa e attività di valutazione
Il
Quaderno
sottolinea l’esigenza e l’importanza di una distinzione tra
ricerca valutativa e attività
di valutazione, sostenendo
l’opportunità di rilanciare la prima "in luoghi autonomi da quelli
della sua finalizzazione esecutiva" (p. X). Si tratta di un punto
qualificante della analisi e della proposta, perché riguarda una delle
cause più importanti della scarsa diffusione di una cultura valutativa
nel nostro paese, da cui deriva anche una certa dipendenza dalle
indagini internazionali, soprattutto per quanto riguarda i modelli di
riferimento e le metodologie adottate.
Nella parte dedicata agli interventi da realizzare nel breve e nel
medio-lungo periodo, però, questa raccomandazione viene soltanto in
parte sviluppata e rimane sullo sfondo. Vengono individuati in modo
articolato gli ambiti in cui sviluppare la ricerca, ma poche sono le
indicazioni relative ai "luoghi" all’interno dei quali collocarla. Ne
vengono esplicitamente menzionati alcuni (Cnr, università e altri enti
pubblici e privati), ma non vengono formulate
proposte
concrete.
Probabilmente questo è in parte dovuto alle caratteristiche del
Quaderno,
ma la mancanza di indicazioni e la non individuazione delle possibili
risorse su cui far leva e dei passaggi da compiere, rischia di
privilegiare di fatto,, –le attività di "servizio" a scapito della
ricerca.
Va detto che non è comunque facile formulare proposte in questo senso
in un paese come il nostro, in cui la ricerca in campo educativo
(accademica e non) è in forte ritardo rispetto a quanto avviene
altrove, anche per responsabilità del mondo dell’educazione, ancora
largamente ancorato a una concezione della riflessione educativa di
tipo filosofico, parzialmente di tipo storico, ma sostanzialmente poco
attenta alla ricerca empirica e sperimentale.
Il ruolo dell’Invalsi
La scelta che il
Quaderno sembra suggerire per la realizzazione delle attività
valutative è quella della loro concentrazione in un unico istituto,
l’Invalsi, per il quale vengono indicati nuovi compiti, un nuovo
status giuridico, una nuova articolazione organizzativa. All’istituto
vengono assegnate molteplici
responsabilità: la
valutazione degli apprendimenti degli studenti, la valutazione delle
scuole, la valutazione dei dirigenti scolastici, la realizzazione
delle indagini internazionali di tipo valutativo. Oltre a una funzione
di sostegno al ministero e alle scuole per le attività di
miglioramento.
I problemi
che sembrano delinearsi sono
più di uno. Il primo
riguarda l’opportunità di affidare a un unico soggetto questa
molteplicità di funzioni. Altri paesi in cui la ricerca e le attività
valutative hanno una tradizione molto più consolidata hanno operato
scelte in direzione contraria.
Un secondo
problema riguarda la opportunità/possibilità di individuare sempre
nell’Invalsi la "casa" (per usare la terminologia del Quaderno)
delle attività di sostegno e supporto alle scuole, a seguito degli
esiti delle attività valutative. Il Quaderno stesso sostiene la
necessità di garantire una forte
separazione
tra le due linee di
attività. (1)
È un punto che richiede una attenta riflessione e una approfondita
discussione. Anche perché coinvolge le scelte da compiere nei
confronti di ciò che ancora rimane del
servizio ispettivo,
rispetto al quale a più riprese nel Quaderno si ricorda la
raccomandazione di potenziamento formulata in sede Ocse.
Un terzo
problema è in che misura i compiti di ricerca e attività valutative
tornano a essere compresenti all’interno dello stesso "luogo": al
futuro Invalsi si riconosce esplicitamente anche una funzione di
ricerca valutativa negli ambiti "statistici, econometrici,
docimologici, e di valutazione delle pratiche pedagogiche" (p. 150).
Evidentemente la questione richiede ulteriori approfondimenti e la
necessità di sciogliere nodi ancora abbastanza aggrovigliati.
La costruzione dei "team di
supporto" alle scuole
Nel
Quaderno
si fa costante riferimento all’intreccio tra valutazione e
miglioramento delle scuole, tra valutazione e autovalutazione, in una
prospettiva di integrazione e di reciproca complementarietà. Viene
anche ipotizzata una struttura di supporto alle scuole e vengono
indicati tempi e modalità per la costruzione dei "team" che dovrebbero
svolgere questa attività. Al problema della loro collocazione
istituzionale si è già fatto cenno. Quanto al
processo di costruzione
e alla loro composizione, sono forse da mettere in conto, al di là
della qualità e della quantità delle
risorse
che vi si vorranno investire,
tempi meno brevi per
realizzare quanto il Quaderno propone. Le competenze e le
figure richieste per un’attività di questo tipo sono molto articolate
e complesse, così come lo sono quelle necessarie per la loro
formazione. Non è chiaro dove queste competenze possano essere
effettivamente costruite e sviluppate nei tempi relativamente brevi
che vengono prospettati.
Lo status e la direzione
dell’Istituto nazionale di valutazione
Nel
Quaderno
viene sottolineata la necessità di una maggiore
autonomia
dell’Invalsi, per il quale si propone la trasformazione in "Autorità,
che riferisce del suo operato direttamente al Parlamento" (p. 150). Si
indicano anche alcuni "requisiti" che dovrebbero contraddistinguere i
componenti del comitato direttivo, per i quali si prospetta un impegno
a tempo pieno: "qualificazione scientifica assai elevata, evidente
prestigio internazionale, forte personalità e capacità di indirizzo,
conoscenza riconosciuta dei sistemi di istruzione e valutazione in
Italia e all’estero" (p. 151). Si tratta di indicazioni di cruciale
importanza visti i compiti che attendono questo organismo, soprattutto
in una prima fase di costruzione.
Allo stesso tempo, però, il loro numero e la distribuzione di compiti
e responsabilità prospettati sembrano riflettere l’attuale situazione
di commissariamento
dell’istituto e non risulta chiaro come possano conciliarsi con
l’organizzazione interna che in prospettiva lo dovrà caratterizzare.
(1)
Nella forma di due diverse direzioni «separate da una appropriata
"muraglia cinese"», p. 145.