Dai cellulari alle minigonne
la battaglia dei divieti.

 La Stampa del 17/9/2007

 

ROMA
Il giro di vite sui comportamenti ’non Corretti degli studenti, rinvigorito dalle diverse iniziative del ministro della Pubblica istruzione Giuseppe Fioroni, dal divieto dei cellulari in classe alle al piano antibullismo, non è una novità per gli studenti italiani che, a più riprese, hanno fatto i conti con una lunga serie di divieti a volte anche inconsueti, decisi dai singoli istituti.

Sul banco degli imputati sono finiti prima di tutto i capi d’abbigliamento più amati dai giovani: dai pantaloni a vita bassa, alle minigonne, dai jeans strappati ai bermuda, al piercing o canottiere troppo corte e magliette «nude look». Non solo, insieme ai vestiti all’ultima moda, spesso sono stati banditi anche accessori e gadget colpevoli di essere “fonte di distrazione” per gli studenti: dalla gomma da masticare, alle figurine, fino appunto al cellulare.

Nel campo degli indumenti il più incriminato è stato senza dubbio la minigonna. Il rivoluzionario capo introdotto da Mary Quant nel 1964 torna prepotentemente di moda in Italia negli anni Novanta. Le ragazze la indossano senza problemi anche nelle aule scolastiche, e i presidi non ci stanno. Fa scalpore il caso dell’Istituto professionale per il commercio e turismo di Sanremo, dove il preside Fillo Copelli approva un regolamento che vieta agli studenti di indossare abiti “sconvenienti”: minigonne, ma anche magliette «nude look», pantaloni con gli strappi e scollature eccessive. E nel suo decalogo aggiunge anche il divieto di masticare la gomma americana, di affiggere sui muri manifesti o volantini e di usare il telefono pubblico della scuola .

Gli studenti, in maggioranza ragazze, rispondono con tre giorni di sciopero. Ma il gesto del preside finisce addirittura in Parlamento. Per l’esponente dei Verdi, Athos De Luca, la circolare “viola la libertà di costume”, così il senatore presenta al ministro della Pubblica Istruzione un’interrogazione in cui chiede “in base a quali criteri il preside abbia effettuato questa opera di censura nei riguardi di usi e costumi delle nuove generazioni, ormai accettati da tutti”. Era il 1996.

Condannano la minigonna anche i presidi di alcune scuole di Genova e Potenza, che scatenano una campagna contro l’abbigliamento “balneare” tra i banchi. Secondo la preside della scuola media “Piero Sentati” di Castelleone, in provincia di Cremona, l’indumento sarebbe colpevole di catalizzare l’attenzione dei ragazzi durante le lezioni. E così anche lei, nel maggio del 2001, la mette al bando insieme a “pantaloncini troppo corti, magliette tipo canottiera, piedi senza calze”. E chi non rispetterà la richiesta, sarà rifornito di “abbigliamento di recupero”, vestiti d’emergenza pronti per l’occasione.

Stessa polemica anche in Sardegna, qualche anno dopo, a Sardara, in provincia di Cagliari, la preside dell’Istituto comprensivo “Giuseppina Miceli” rivolge un aut-aut alle studentesse: basta con l’abbigliamento sexy durante le ore di lezione. Stesso copione anche a Senigallia, dove il preside del Liceo Scientifico “Medi” firma una circolare invitando gli studenti a «fare un corretto uso della moda nel rispetto dell’istituzione».

Non va meglio agli studenti maschi. Soprattutto a chi predilige l’abbigliamento alternativo. Ad aprile del 2003 il preside del liceo artistico “Ferrari” di Morbegno, in provincia di Sondrio, firma una circolare che impone ai ragazzi di “presentarsi con acconciature e abiti formali”. Chi arriva a scuola con “jeans strappati, creste colorate e piercing eccessivi” rischia infatti di non essere ammesso in classe. Alla Scuola Media Statale “Palazzeschi” di Torino l’abbigliamento dei ragazzi è oggetto di un regolamento interno, che invita gli alunni a presentarsi a scuola “vestiti in modo semplice e ordinato, conforme alla serietà dell’ambiente scolastico”.

In particolare sono vietati “calzoncini corti, canottiere, minigonne succinte, jeans volutamente sfrangiati o strappati e, per i maschi, capigliature lunghe e disordinate”. Anzi, agli studenti è vivamente consigliato “l’utilizzo della divisa scolastica”. Inoltre, la disposizione vieta ai ragazzi di masticare chewing gum all’interno della scuola . Anche a Quartu, in provincia di Cagliari, il preside di un liceo Artistico vieta agli studenti look troppo estroversi: anellini sull’ombelico, pantaloni a vita bassa, capelli «a punta», trucco eccessivo. I ragazzi scioperano per un giorno, rifiutando per un periodo interrogazioni e dialogo con i docenti.

Al liceo Visconti di Roma e in diversi istituti di Milano, scatta il divieto di tenere l’ombelico in vista. Una crociata che viene portata avanti anche in una scuola di Rimini, città notoriamente aperta alle trasgressioni della moda. Nel maggio 2003, il vicepreside dell’istituto tecnico per il Turismo «Marco Polo» con una disposizione letta in tutte le classi vieta alle studentesse di entrare in aula con la pancia scoperta. L’ombelico fa scandalo anche all’Università. A Salerno, la preside della Facoltà di Lingue invita le sue studentesse ad evitare pance scoperte e finto-invisibili bretelline al silicone. A giugno del 1996, al liceo scientifico «Enriquez» di Ostia, in provincia di Roma, viene vietato l’ingresso a una decina di studenti, sia maschi che femmine, che si presentano a scuola in bermuda o calzoncini corti.

Niente abbigliamento da mare anche all’Itc «Mario Pagano» di Napoli, dove la preside in persona controlla l’ingresso della scuola passando in rassegna gli indumenti degli studenti. E rimanda a casa chi non si presenta con «pantaloni lunghi e pancia coperta». Stessa storia in un istituto tecnico commerciale di Ancona, dove il preside vieta ai ragazzi di indossare i bermuda. A maggio 2003 anche la dirigente di una scuola superiore di Imperia tuona contro bermuda e canottiere, considerate inadeguate al decoro scolastico.

Ma a scandalizzare presidi e professori non è solo l’abbigliamento di tendenza. Con una circolare del 25 agosto 1998, il ministero dell’Istruzione vieta l’uso dei cellulari in classe. Il provvedimento, in realtà, è rivolto agli insegnanti, che all’epoca erano i più assidui utilizzatori del telefonino. Ma quando la nuova moda conquista i ragazzi, il divieto viene esteso anche a loro. Nel 2001 i Comunisti Italiani hanno addirittura presentato un progetto di legge alla Regione Lazio per introdurre una multa nei confronti di chi usa il telefonino in classe.

Nel febbraio 2002, il preside dell’Istituto professionale di Rimini, «Luigi Einaudi», dirama una circolare per vietare ai ragazzi di servirsi del telefonino in aula. Non è proibito portarlo a scuola , ma è vietato farlo funzionare in orario di lezione. In una scuola media di Budrio, in provincia di Bologna, il padre di un alunno denuncia la preside che ha sequestrato il telefonino del figlio. Anche se lo studente lo utilizzava durante le ore di lezione, contravvenendo a una precisa circolare del responsabile d’Istituto.

Al liceo scientifico statale «Francesco Severi» di Frosinone vengono incriminati soprattutto gli sms, che distraggono gli alunni e possono essere usati per scambiare informazioni durante i compiti in classe. All’Istituto Comprensivo Statale di Bussolengo, in provincia di Verona, il regolamento della scuola dice che gli alunni devono presentarsi a scuola «vestiti in ordine e puliti». Ma vieta anche di portare tutti gli oggetti non strettamente pertinenti alla vita della scuola tra cui cellulari e walk-man.

E persino alle scuole primarie è guerra aperta contro il nuovo «gioco». Il direttore didattico della scuola elementare «Mazzini»di Castelletto, in provincia di Genova, ordina a tutte le maestre di far scrivere sui diari degli alunni un messaggio rivolto alle famiglie: vietato andare a scuola con il cellulare che «ha ormai preso il posto dei videogiochi portatili o del tamagochi». La raccomandazione, comunque, vale anche per le maestre.

I divieti scolastici hanno colpito anche gli oggetti apparentemente più innocenti. Nel 2001, in una scuola elementare di Bergamo vengono vietati gli scambi di figurine, anche nei momenti liberi dall’attività didattica. Non si discute una serie piuttosto che un’altra, ma il fatto stesso dello scambio, che a detta della circolare scolastica «faceva smarrire ai piccoli la bellezza dello stupore e della creatività personale».

Nello stesso anno, il dirigente scolastico del quinto circolo didattico di Treviso ingaggia una battaglia particolare contro le figurine Pokemon, che sarebbero diventate un’ossessione per gli studenti. Così, il divieto di possesso e di scambio viene esteso anche fuori degli orari di lezione, con tanto di sequestro del corpo del reato che verrà riconsegnato solo alla fine dell’anno scolastico.

Chi tuona contro gli abiti succinti degli studenti, spesso poi auspica il ritorno del grembiule. Fece scalpore l’iniziativa dell’assessore alla Pubblica istruzione della Regione Sicilia, Fabio Granata, che nell’estate del 2001 diffuse una circolare che imponeva l’utilizzo del grembiule nelle scuole. Ma l’autonomia scolastica vanificava di fatto l’iniziativa, delegando la scelta al singolo istituto.

A fine Ottocento, l’Italia è stata una delle prime nazioni a seguire l’esempio francese introducendo i grembiuli nelle scuole. Ma nel nostro Paese, in realtà, non è mai esistito un obbligo ufficiale della divisa. Il Regio Decreto del 4 maggio 1925 parlava di in generico «obbligo morale» ad un abbigliamento consono all’ambiente scolastico. Lo Statuto degli studenti e delle studentesse della scuola secondaria, del 24 giugno 1998, invita al rispetto formale dell’istituto ma non nomina grembiuli o divise.

Oggi spetterebbe alle singole scuole reintrodurli nel proprio regolamento. Ma se l’abitudine è frequente nelle materne e nelle elementari, nella maggior parte delle scuole medie e alle superiori la divisa è scomparsa negli anni ’60. Resiste solo, ormai, in alcune accademie femminili o nelle scuole militari.