La scuola corta di Sarko: Marina Boscaino da l'Unità del 3/10/2007
La media delle ore di lezione frequentate da un alunno delle scuole primarie in Europa è di 800. Per adeguarsi a tale numero, dal prossimo anno i bambini francesi vedranno decurtato di circa 100 ore (da 958 a 864) il monte ore annuale; in Italia siamo a quota 980. La scelta del governo Sarkozy di mandare a scuola i propri bambini 4 giorni a settimana su 7 ha scatenato interventi e discussioni, spesso improntati a letture (e interessi) divergenti. Sorprende (per modo di dire) ad esempio, il giudizio di Attilio Oliva - presidente di «TreeLLLe» e gran consigliere di Confindustria per l’istruzione - che, dopo aver insistito sul precocismo dei bambini italiani (quanti danni sono stati già fatti, ahimé, proprio in nome e con la lusinga del precocismo, lusinga alla quale pochi genitori sanno resistere quando si tratta dei propri figli) plaude all’iniziativa; ma la ritiene impraticabile nel nostro paese, dove «i sindacati pensano ad una scuola per gli insegnanti, non per gli studenti». Che modo di pensare ai bambini è, però, quello che li tiene lontani dalla scuola 3 giorni su 7? Ferme restando le diverse forme di assistenza a disposizione dei francesi rispetto a noi italiani, è evidente che Oliva, da par suo, pensa ai rappresentanti di quella generazione di piccoli presi in carico da pazienti baby sitter extracomunitarie o da mamme a tempo pieno (per scelta, non per mancanza di lavoro o per lavoro interinale o precariato cronico); un esercito pronto ad assecondare ogni fantasia e a organizzare proposte degne della più eccitante Valtour, tra una lezione di Taekwondo, piuttosto che di danza moderna; tra un corso di viola da gamba e un brunch (qui a Roma, nei quartieri bene, usa molto; così, per far stare insieme i bambini e fare quattro chiacchiere tra amici). Felipe, un carissimo amico di mio figlio, filippino, ha 12 anni. La mamma - una donna piena di dignità e di sorrisi - lavora a ore, alternandosi tra le ville di un quartiere alto borghese. Il padre è a Londra, con un lavoro umilissimo che raramente gli consente di raggiungere la famiglia. Felipe fa parte di quel 27% di bambini italiani che frequenta il tempo pieno. Quando finisce la scuola, la mamma lo va a prendere e lo porta con sé per concludere i suoi turni di lavoro; e così fa il sabato. Felipe fa parte, inoltre, di quell’enorme numero - crescente di anno in anno e ora straripante nelle scuole medie - di nuovi piccoli italiani, che hanno trovato nella scuola il luogo dell’accoglienza, della cittadinanza, dell’intercultura, specialmente al Nord, dove il fenomeno è più diffuso. Ma - al di là del pur doveroso riferimento all’eterogenea realtà che ormai caratterizza il nostro Paese, nonché alla sua drammatica mancanza di luoghi alternativi alla scuola per l’intrattenimento, seppur ludico, dei bambini - l’iniziativa francese lascia perplessi perché fa ragionare sull’idea di scuola che essa configura: un luogo di costrizione che riflette una cattiva pedagogia, che - quella sì - rischia di non tenere in sufficiente conto i tempi dei bambini, la loro necessità di ritmi distesi. E, d’altro canto, ignora completamente alcune fondamentali pratiche sulle quali la moderna pedagogia e la migliore scuola si è esercitata negli ultimi anni: lì dove apprendimento cooperativo, compresenze, attività laboratoriali, pluridisciplinarità rendono la scuola - là dove funzionano - un luogo di crescita reale e di rispetto profondo delle persone che i bambini sono e saranno. Evadendo dalla trasmissione reiterata, datata e diseducativa di contenuti che in quel tipo di trasmissione perdono la loro importanza fondante (il richiamo alle tabelline e ai nomi dei fiumi, in questo senso, è sin troppo facile).
Nessuna divaricazione è più odiosa di quella
portata avanti ai danni dei più piccoli, dei più giovani: il sistema
alla francese suggellerebbe in maniera ancor più definitiva nel nostro
Paese - nella sua immaturità sociale, nella sua ancora arretrata
consapevolezza rispetto al ruolo e alla funzione della scolarizzazione
di massa - la differenza tra chi può e chi non può. Chi può, ad
aumentare elitariamente le possibilità (a pagamento) che il mercato
fornisce copiose; chi non può ad abbrutirsi davanti alle Tv,
desiderando (ma non potendo ottenere) le offerte che quel mercato
stesso propina in maniera suggestiva soprattutto ai più piccoli, ai
più indifesi. O alimentando velleità di cosce lunghe, successi
immeritati, cialtronerie acritiche e diffuse. E sottraendo
ulteriormente alla scuola un ruolo che ancora, credo, possa e debba
rivendicare a pieno titolo: quello di luogo dell’accoglienza, delle
pari opportunità, della crescita della capacità critica. Dove
l’aumento della quantità - delle ore, degli insegnanti - con un
investimento culturale oltre che economico diventi realmente crescita
e rispetto verso chi ha il diritto di vivere in un ambiente in cui la
propria, eventuale marginalità - così come la propria, eventuale
integrazione - sociale, economica, religiosa, culturale possano
trovare cura, sollecitudine, impegno da parte di personale
qualificato, formato adeguatamente e pagato dignitosamente. E - mi si
perdoni la malizia - al diavolo ogni tentazione di risparmio sulla
scuola, sugli insegnanti e - soprattutto - sui bambini italiani.
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