Quando l'ora di religione
viola la Costituzione Italiana.

Della violazione della Costituzione tramite ordinanze ministeriali (con la collaborazione del Consiglio di Stato): il caso dell'ora di religione.

Dott. Marco Croce - Esperto di Giustizia Costituzionale,
da Territorio Scuola del 6/10/2007

 

1. A quasi vent'anni di distanza da una delle storiche, ma insoddisfacenti, sentenze della Corte costituzionale, la n. 203/1989, nel quasi totale silenzio dei mezzi di comunicazione di massa, della classe politica e, purtroppo, della dottrina, si è assistito a un nuovo caso di violazione della Costituzione, e della giurisprudenza costituzionale che ne fa applicazione, per il tramite di una semplice ordinanza ministeriale, con l'avallo del Consiglio di Stato.

Il Ministro della Pubblica Istruzione, Giuseppe Fioroni, che tra le altre cose ha recentemente dichiarato, a proposito dell'art. 29 C., La Costituzione si applica, non si interpreta, denotando così una scarsa conoscenza delle problematiche inerenti all'interpretazione costituzionale, ha emanato il 15 marzo scorso l'ordinanza n. 26/2007 (Istruzioni e modalità organizzative ed operative per lo svolgimento degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore nelle scuole statali e non statali. Anno scolastico 2006/2007): in tale provvedimento, al comma 13 dell'art. 8, si è stabilito che :

"I docenti che svolgono l'insegnamento della religione cattolica partecipano a pieno titolo alle deliberazioni del consiglio di classe concernenti l'attribuzione del credito scolastico agli alunni che si avvalgono di tale insegnamento. Analoga posizione compete, in sede di attribuzione del credito scolastico, ai docenti delle attività didattiche e formative alternative all'insegnamento della religione cattolica, limitatamente agli alunni che abbiano seguito le attività medesime"; al comma 14 che:

"L'attribuzione del punteggio...tiene conto...del giudizio formulato dai docenti di cui al precedente comma 13 riguardante l'interesse con il quale l'alunno ha seguito l'insegnamento della religione cattolica ovvero l'attività alternativa e il profitto che ne ha tratto, ovvero di altre attività, ivi compreso lo studio individuale che si sia tradotto in un arricchimento culturale o disciplinare specifico, purché certificato e valutato dalla scuola secondo modalità deliberate dall'istituzione scolastica medesima. Nel caso in cui l'alunno abbia scelto di assentarsi dalla scuola per partecipare ad iniziative formative in ambito extrascolastico, potrà far valere tali attività come crediti formativi se presentino i requisiti previsti dal D.M. n. 49 del 24/2/2000".

Questo provvedimento è stato impugnato per ottenerne l'annullamento dinanzi al T.A.R. del Lazio da varie associazioni e confessioni, tra cui la Consulta romana per la laicità delle istituzioni, la Tavola valdese, l'Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, la Chiesa evangelica luterana in Italia, che hanno poi presentato in via incidentale domanda di sospensione dell'esecuzione dello stesso.

Il T.A.R. Lazio, con l'ordinanza del 24 maggio 2007, n. 2408, ha accolto la domanda cautelare sulla base dell'art. 309, co. 4, del d. lgs. n. 297/1994, dal momento che la predetta norma configura l'insegnamento della religione come una materia extracurriculare, come è dimostrato dal fatto che il relativo giudizio – per coloro che se ne avvalgono – non fa parte della pagella ma deve essere comunicato con una separata speciale nota; inoltre, ha precisato opportunamente che tale normativa darebbe postumamente luogo ad una disparità di trattamento con gli studenti che non seguono né l'insegnamento religioso né usufruiscono di attività sostitutive. Contro questa decisione il Ministro ha presentato ricorso al Consiglio di Stato che, con decreto del 29 maggio, n. 2699/2007, ha sospeso l'efficacia dell'ordinanza del T.A.R. e ha fissato la trattazione in sede collegiale per il 12 giugno, all'esito della quale ha poi riformato la decisione del giudice di I grado con l'ordinanza 2920/2007 sulla base del fatto che il ricorso di primo grado non appare dotato di sufficiente consistenza e che non si rinvengono i profili di pregiudizio grave e irreparabile in capo agli originari ricorrenti, mentre significativi pregiudizi possono patire i destinatari delle norme impugnate, che non sono neppure parte del giudizio.
 

2. Prima di esaminare le scarne motivazioni delle decisioni dei giudici amministrativi e valutarne la compatibilità con i principî costituzionali, pare opportuno richiamare gli esiti della giurisprudenza costituzionale che ha ritenuto non illegittimo costituzionalmente, a determinate condizioni, l'insegnamento nelle scuole pubbliche dell'ora di religione. Con la s. n. 203/1989, la Corte costituzionale, dopo aver tratto dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 C. il principio di laicità dello Stato e aver specificato che sulla base degli artt. 3 e 19 è vietato che i cittadini siano discriminati per motivi di religione e che il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non professare alcuna religione, sanciva con estrema chiarezza le condizioni di compatibilità con il sistema costituzionale dell'insegnamento della religione nelle scuole pubbliche: La previsione come obbligatoria di altra materia per i non avvalentisi sarebbe patente discriminazione a loro danno, perché proposta in luogo dell'insegnamento di religione cattolica, quasi corresse tra l'una e l'altro lo schema logico dell'obbligazione alternativa, quando dinanzi all'insegnamento di religione si è chiamati ad esercitare un diritto di libertà costituzionale non degradabile, nella sua serietà e impegnatività di coscienza, ad opzione tra equivalenti discipline scolastiche. Lo Stato è obbligato, in forza dell'accordo con la Santa Sede, ad assicurare l'insegnamento di religione cattolica. Per gli studenti e per le loro famiglie esso è facoltativo: solo l'esercizio del diritto di avvalersene crea l'obbligo scolastico di frequentarlo. Nella successiva s. n. 13/1991 il giudice delle leggi, chiamato a pronunciarsi sull'incostituzionalità delle disposizioni in materia di orari scolastici nella parte in cui l'insegnamento della religione era collocato nel novero delle ore obbligatorie, pur continuando a utilizzare il meno efficace strumento dell'interpretativa di rigetto, specificava ulteriori aspetti che erano rimasti in ombra nel caso precedente: richiamando la s. n. 203/1989 specificava che la ratio della stessa consisteva nella negazione dell'equivalenza e dell'alternatività tra l'insegnamento di religione cattolica ed altro impegno scolastico, per non condizionare dall'esterno della coscienza individuale l'esercizio di una libertà costituzionale, come quella religiosa, coinvolgente l'interiorità della persona. Da queste sentenze si deduce chiaramente che l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche è compatibile con i principî costituzionali in materia di libertà religiosa solamente se l'ora di religione viene configurata come insegnamento facoltativo ed extra-curriculare tale da non comportare nessuna deminutio, né in termini di obbligo supplementare di permanenza all'interno dell'istituto, né in termini di disagevole collocazione nell'orario scolastico (essa dovrebbe essere collocata o alla prima o all'ultima ora), né in termini di assegnazione di crediti scolastici, per chi scelga di non avvalersene (sembrerebbe comunque incostituzionale anche la stessa presentazione della richiesta di decidere se avvalersi o meno dell'insegnamento, cosa che si traduce in una pressione indebita sulla coscienza dell'individuo e di chi ha il diritto-dovere di educarlo, mentre l'onere di richiederlo dovrebbe gravare solo su chi vuole usufruirne). Come ebbe a dire all'epoca di queste decisioni Paolo Barile, chi vuole avvalersi di quell'insegnamento deve fare uno sforzo in più, un'ora in più degli altri, fuori orario, senza che agli altri venga causato il danno di dover rimanere a scuola perché i primi possano essere indottrinati in una materia che i secondi hanno diritto di rifiutare.

È evidente l'incostituzionalità dell'ordinanza n. 26/2007, che costringerebbe chi rifiuta l'ora di religione e gli insegnamenti alternativi, esercitando un suo diritto, a frequentare altri corsi extra-scolastici per non vedersi attribuire minori crediti, rispetto a chi frequenta l'ora di religione o le ore alternative, spendibili all'esame di maturità.
 

3. Le decisioni richiamate nel primo paragrafo hanno motivazioni stringatissime, per ciò solo inadatte a persuadere in una materia che riguarda diritti costituzionali fondamentali, e non richiamano minimamente né la Costituzione né la giurisprudenza costituzionale che ne ha fatto applicazione in materia, denunciando così una preoccupante carenza di cultura costituzionale da parte di giudici che spesso sono chiamati a verificare l'incostituzionalità di disposizioni sottratte al sindacato della Corte costituzionale; ma mentre quella del T.A.R. Lazio è sicuramente compatibile, nel merito, col nostro sistema di garanzia dei diritti fondamentali, quella del Consiglio di Stato si pone in insanabile contrasto con lo stesso: il T.A.R., accogliendo l'istanza cautelare, accanto al vizio di violazione di legge (a essere violato era l'art. 309 del d. lgs. 297/1994 che prevede l'ora di religione come extra-curriculare) richiamava anche quello di eccesso di potere, evidentissimo, dal momento che l'ordinanza Fioroni era del mese di marzo 2007 e interveniva su scelte compiute all'inizio dell'anno scolastico, quindi nel 2006, quando i soggetti chiamati alle scelta non potevano sapere che la stessa avrebbe comportato l'assegnazione di un numero maggiore o minore di crediti.

Chiaramente, anche ammesso che tale ordinanza fosse stata compatibile con la Costituzione e con il d. lgs. 297/1994 (il che palesemente non è), essa sarebbe stata comunque illegittima in quanto irragionevole, perché non dava modo di scegliere consapevolmente, provocando, per l'appunto, postumamente una disparità di trattamento con gli studenti che non seguono né l'insegnamento religioso né usufruiscono di attività sostitutive nonché un'ingiustizia manifesta.

L'ordinanza del T.A.R. raggiungeva quindi un risultato compatibile col nostro sistema costituzionale, anche se sarebbe stato doveroso basare la decisione innanzitutto sulla Costituzione, dal momento che a essere violati erano, prima del d. lgs. 297/1994, gli artt. 3 e 19 C. come interpretati dalla giurisprudenza costituzionale che ne ha fatto applicazione.

A questo punto però interveniva il Consiglio di Stato: con decreto sospendeva l'ordinanza del T.A.R., fissando la camera di consiglio per il 12 giugno, a scrutini già avvenuti e a crediti scolastici già assegnati, frustrando così la ratio della tutela cautelare (sarebbe stato doveroso non far svolgere gli scrutini sulla base di una normativa fondatamente sospettata di incostituzionalità e illegittimità), e decideva poi motivando in maniera francamente inaccettabile sia nella forma che nella sostanza, ritenendo, senza argomentare e senza richiamare né la Costituzione né la giurisprudenza costituzionale, che il ricorso in primo grado non appare dotato di sufficiente consistenza e che neppure si rinvengono i profili di pregiudizio grave e irreparabile in capo agli originari ricorrenti, mentre significativi pregiudizi possono patire i destinatari delle norme impugnate.

Non è pregiudizio grave e irreparabile vedersi attribuire minori crediti rispetto ad altri sulla base di un'ordinanza che viola patentemente la Costituzione? È significativo pregiudizio non vedersi attribuire incostituzionalmente dei crediti scolastici? Agli amministrativisti il cómpito di valutare i vizi in procedendo e in iudicando dal punto di vista della giustizia amministrativa eventualmente presenti in questa vicenda. Di certo però, tramite una semplice ordinanza ministeriale si è assistito a una lesione dei diritti costituzionalmente garantiti agli individui dagli artt. 3 e 19 C., e, attraverso una decisione di un giudice amministrativo, a una lesione del ruolo della Corte costituzionale nel nostro ordinamento.
 

4. Qualche interrogativo e alcune considerazioni finali su una delle zone d'ombra del nostro sistema di giustizia costituzionale, che va sempre più configurandosi come una zona franca, sembrano a questo punto ineludibili: è uno Stato costituzionale di diritto quello Stato il cui organo garante della costituzionalità degli atti dei pubblici poteri vede limitata la sua giurisdizione alle leggi e agli atti aventi forza di legge, senza che nemmeno sia contemplata la possibilità di un ricorso diretto dell'individuo contro i regolamenti dell'esecutivo e le ordinanze ministeriali incostituzionali, quando i giudici chiamati a garantirlo non facciano il loro dovere?

Il problema è reso ancora più serio a causa del fatto che molte di queste controversie, anche in tema di diritti costituzionali fondamentali, finiscono per essere decise dal Consiglio di Stato, giudice sia strutturalmente, si pensi a come vengono designati i consiglieri di Stato, che funzionalmente, si pensi alla contiguità tra funzioni consultive e funzioni giurisdizionali, sospettabile di non piena imparzialità: non è un caso che in materia di libertà religiosa (si veda anche la affine vicenda dell'esposizione del crocifisso), in cui rientra il caso esaminato, in luogo della doverosa applicazione dei principî costituzionali, così come specificati dalla giurisprudenza costituzionale, in quegli àmbiti normativi che rimangono preclusi alla giurisdizione del giudice delle leggi, il Consiglio di Stato prenda decisioni sulla base di una propria dottrina che si basa sul Parere n. 63/1988 della sez. II.

Dinanzi a situazioni come quella analizzata in questo breve scritto, pare dunque rafforzarsi l'esigenza di colmare questa lacuna del nostro ordinamento: nell'attesa di una eventuale modifica dell'art. 134 C., è lecito chiedersi se non sarebbe opportuno che la Corte costituzionale tentasse di estendere la propria giurisdizione sviluppando le impostazioni teoriche che già da molto tempo autorevole dottrina aveva proposto (basti pensare alle soluzioni date al problema da Mortati o da Esposito).

In alternativa, una soluzione forse meno traumatica potrebbe essere quella di un'ordinanza di inammissibilità, qualora la Consulta venga chiamata nuovamente in causa, che miri a instaurare un dialogo in materia con i giudici amministrativi, attraverso un chiaro monito agli stessi affinché applichino i principî costituzionali così come specificati dalla giurisprudenza del giudice delle leggi negli àmbiti normativi preclusi alla giurisdizione dello stesso.