Chi paga i corsi di recupero?

Umberto di Raimo da DocentINclasse, 23 ottobre 2007

 

«Ma il maggior fraintendimento riguarda la sopravalutazione del ruolo del recupero: non si era arrivati ad abolire il sistema della riparazione e degli esami settembrini per poter creare i corsi di recupero. Era già implicito, perfino nella Costituzione, il principio di fornire gratuitamente strumenti integrativi a chi si trova in difficoltà»

[Gaspare Barbiellini Amidei, Carosello di Riforme inutili, Il Resto del Carlino, 14 luglio 1996, p. 1].

Per sbaragliare il dannosissimo errore contenuto in queste parole riportiamo il testo di un discorso che un docente di nostra conoscenza ebbe a pronunciare – di fronte ai suoi colleghi riuniti a collegio – il 15 febbraio 1996. Il pezzo, composto alcun tempo dopo che era stato convertito in legge il decreto che aboliva gli esami di settembre, è (a dir vero alquanto pomposamente) intitolato


L’istituzione
di corsi di recupero in sostituzione
degli esami di riparazione
considerata entro i limiti della semplice ragione


«Le considerazioni che seguono riguardano i corsi di recupero istituiti in forza della legge che dispone l’abolizione degli esami di riparazione negli istituti di istruzione secondaria di secondo grado.
Non mi occuperò degli esami di riparazione in quanto tali, se sia più opportuno e didatticamente prficuo conservarli o abolirli; e neppure mi porrò il problema della validità e dell’utilità effettiva dei corsi di recupero e di sostegno che di quegli esami prendono il posto: insomma mi asterrò dal trattare l’aspetto specificamente didattico di tutta la questione. Mi limiterò ad osservare un fenomeno del tutto particolare: la gratuità (per lo studente) di detti corsi di recupero e di sostegno. E mi studierò di rispondere alla domanda: è ragionevole (oltre che giuridicamente fondato) che – una volta aboliti gli esami di riparazione – vengano istituiti corsi di recupero gratuiti per gli studenti della scuola secondaria di secondo grado? Ovvero: è ragionevole che sia lo Stato a finanziare i corsi di recupero sostitutivi degli esami di riparazione?
Ritengo che a tali domande si debba rispondere “NO” , per le semplici ragioni che qui sotto vado ad esporre.
Occorre considerare innanzitutto che lo stato di impreparazione di uno studente può essere causato essenzialmente da due fatti:
1. comprovata incapacità professionale del docente;
2. cattiva volontà e/o incapacità dello studente.
Consideriamo la prima eventualità e poniamo il caso di un docente manifestamente incapace il quale si disponga a tenere un corso di recupero ad uno studente della sua stessa classe. Avremo in questo caso due possibilità:
a. il docente riceve dalla scuola, in aggiunta all’ordinario stipendio, un compenso straordinario commisurato all’entità del corso di recupero;
b. il docente tiene il corso di recupero senza ricevere alcun compenso.
Se vale l’ipotesi “a” siamo in presenza di un qualche cosa di grottesco: non si vede infatti perché mai un docente incapace dovrebbe ricevere dallo Stato uno speciale ulteriore emolumento per insegnare (male, ovviamente: è un incapace) fuori del tempo ordinario di lezione (pomeriggi, stagioni di vacanza) ciò che non è in grado di insegnare durante detto tempo ordinario. La via da percorrere sarà invero ben altra: il docente incapace dovrà piuttosto risarcire lo studente per il tempo che gli ha fatto perdere. Innanzitutto dovrà essere rimosso dall’insegnamento (ovvero sospeso e mandato a riqualificarsi a sue spese) e poi dovrà essere costretto a pagare di tasca propria le spese per il corso di recupero che verrà allestito allo scopo di consentire allo studente di colmare le sue lacune. Detto corso di recupero dovrà poi naturalmente – e necessariamente – essere tenuto da altro docente, di provata competenza.
Anche l’ipotesi “b” si configura come grottesca e paradossale: affidare il corso di recupero ad un docente di comprovata inettitudine non comporterebbe alcun vantaggio per lo studente (che verrebbe così ad usufruire per ben due volte di una prestazione scadente) e non metterebbe il docente neghittoso di fronte alle sue responsabilità (egli infatti potrebbe pensare: “io sono un buono a nulla; ma un buono a nulla di lusso: se faccio male il mio lavoro, il massimo che mi può capitare è di doverlo rifare una seconda volta. Sempre male, s’intende”).
Consideriamo ora la seconda eventualità: lo stato di impreparazione dello studente è causato essenzialmente da cattiva volontà o incapacità dello studente stesso. Qui non si vede proprio donde scaturisca – per lo studente – il diritto di ricevere gratuitamente fuori del tempo ordinario di lezione (pomeriggi, stagioni di vacanza) quello stesso insegnamento che ha rifiutato (o si è dimostrato incapace di accogliere) nel corso dell’attività didattica ordinaria.
Io sostengo che in questo caso un docente capace e competente – oltre che rispettoso di sé medesimo – ha il sacrosanto diritto (vale a dire, in sostanza, quasi il dovere) di sottrarsi all’onere di tenere corsi di recupero. Ma se proprio vuole sobbarcarsi quell’onere, allora deve essere chiaro che le spese del corso non le deve sostenere lo Stato, sebbene lo studente stesso: il corso di recupero deve considerarsi, in certo qual modo, come una sorta di “lezione privata intramuraria”
Il ragionamento è press’a poco il seguente: “Io sono un docente capace e competente: offro pertanto una ‘prestazione’ di buona qualità. Viceversa tu studente – per oggettiva incapacità di apprendere o per mancanza di impegno nello studio – offri una ‘prestazione’ insoddisfacente. Allora io docente – in via del tutto eccezionale – sono disposto a sottrarre un po’ di tempo ai miei studi privati, per consentirti di recuperare il tempo perduto e di colmare le tue lacune. Sia ben chiaro che il tempo che io oggi spendo per tenere il corso di recupero (un’ora, due ore), avevo in animo di dedicarlo allo studio della poesia bizantina (ovvero avevo intenzione di ingolfarmi nella rilettura della ‘Ricreazione del Savio’ del padre Daniello Bartoli). Sono disposto a rinunciare – in via del tutto eccezionale – a queste mie sacrosante esigenze di studio per riesporre a te studente una lezione che non hai voluto (per cattiva volontà) o potuto (per incapacità) apprendere nel corso dell’attività didattica ordinaria. E’ evidente che un siffatto sacrificio comporta che mi sia corrisposta una somma di denaro a titolo di risarcimento almeno parziale. Ma il prezzo di tale risarcimento non è giusto che lo paghi la collettività; devi pagarlo tu, studente, di tasca tua. Sei proprio tu che mi devi risarcire: io, infatti, per venirti incontro, sottraggo allo studio un’ora di tempo prezioso.
Naturalmente tutto questo ragionamento si regge solo se i docenti considerano la propria professione un’arte liberale e non una mansione impiegatizia in cui ad una certa quantità di lavoro (facilmente misurabile) corrisponde, in modo del tutto meccanico, una certa quantità di denaro (misurabile in modo altrettanto facile).
[Aggiungiamo tra parentesi: sarebbe buona cosa che i docenti si dichiarassero una volta per tutte – e fattivamente – indisponibili agli insulti e ai ricatti morali, specie se di provenienza ministeriale. Mi riferisco a quanto ebbe a dichiarare, tempo addietro, il ministro della Pubblica Istruzione Giancarlo Lombardi, parlando nell’aula magna dell’Università statale di Milano. Il ministro disse che nella scuola “… ci sono anche degli irresponsabili. Un esempio? Al Liceo Mamiani di Roma solo 7 docenti su 97 hanno accettato di fare i corsi di recupero: queste posizioni sono inaccettabili” (cfr. articolo di Augusto Pozzoli La scuola, ingovernabile da Roma, sul Corriere della Sera di sabato 11 marzo 1995, pag. 13). Affermazioni bastevolmente gravi, come ognun vede. Si può replicare che è vero tutto il contrario, essendo in verità inaccettabile che si vadano tacciando di irresponsabilità (trasmodando del tutto indebitamente nel giudizio morale) quei docenti i quali si limitano ad avvalersi della facoltà – riconosciuta dalla vigente normativa – di non prendere parte ad una attività di cui non condividono lo spirito e le finalità (e ciò per motivi degni di essere ritenuti nobilissimi fino a prova contraria: nessuno è autorizzato a pensare che quei docenti si vogliano sottrarre ai corsi di recupero per pura pigrizia, per torva malevolenza nei confronti degli studenti, ovvero per lucrare furbescamente con le lezioni private; così come nessuno sarebbe autorizzato ad accusare a cuor leggero l’ostetrico obiettore di coscienza di volersi procacciare guadagni illeciti praticando aborti clandestini)].
Nessuno dunque – naturalmente – vuole impedire in alcun modo allo studente di recuperare il tempo perduto e di colmare le sue lacune. Ma ripetiamo: dovrà essere lo studente stesso a sobbarcarsi i costi economici dell’operazione. In altri termini: si istituisca pure un corso di recupero presso la struttura scolastica abitualmente frequentata dallo studente incapace o immeritevole, ma sia poi lo stesso studente a pagare le spese per detto corso di recupero.
Quest’ultima argomentazione può parere semplicistica, o dettata da smanie punitive nei confronti degli studenti, o addirittura “reazionaria” o chissà che cos’altro. Crediamo invece che poggi su solida base giuridica, e precisamente su quanto proclamato dai primi tre commi dell’articolo 34 della Costituzione della Repubblica Italiana:
“La scuola è aperta a tutti.
L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.
I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.
Tali parole vengono a dire non solo che l’istruzione superiore non vuol essere né obbligatoria né gratuita, ma altresì che – fermo il diritto a tutti riconosciuto di accedere alle scuole secondarie superiori – il “diritto” propriamente detto di “raggiungere i gradi più alti degli studi” (condizione quest’ultima che implica di necessità il passaggio attraverso i gradi intermedi) viene riconosciuto invece solo ai “capaci e meritevoli”.
Sembra dunque che la nostra Costituzione presupponga che i cittadini (intesi in quanto componenti attuali o potenziali del sistema scolastico) possano essere raggruppati – riguardo ai caratteri: capacità, merito, possesso di beni di fortuna – nelle otto categorie che qui si elencano:

1. CAPACI MERITEVOLI RICCHI
2. CAPACI MERITEVOLI POVERI
3. CAPACI IMMERITEVOLI RICCHI
4. CAPACI IMMERITEVOLI POVERI
5. INCAPACI MERITEVOLI RICCHI
6. INCAPACI MERITEVOLI POVERI
7. INCAPACI IMMERITEVOLI RICCHI
8. INCAPACI IMMERITEVOLI POVERI

A tutti i componenti di tutte e otto queste categorie viene riconosciuto il diritto di accedere alla scuola (“la scuola è aperta a tutti”), così come d’altronde viene imposto l’obbligo di accedere, peraltro gratuitamente, all’istruzione inferiore, per un periodo di almeno otto anni (“l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”). Le cose cambiano quando si passa al terzo comma dell’articolo 34. Tale comma interessa esclusivamente coloro che appartengono alle categorie 1 e 2: i “capaci e meritevoli”, per l’appunto, siano essi ricchi o poveri. A tutti costoro viene espressamente riconosciuto il “diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. I membri delle altre sei categorie, propriamente, questo diritto non ce l’hanno.
L’ultimo comma dell’art. 34 precisa poi che “la Repubblica rende effettivo questo diritto <(si badi bene: questo diritto, non un altro diritto qualsivoglia: proprio il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi; un diritto che spetta ai capaci e meritevoli, quand’anche fossero privi di mezzi finanziari)> con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”.
Ne consegue che se uno studente di scuola secondaria superiore (scuola non dell’obbligo) ottiene – in chiusura di trimestre o quadrimestre ovvero allo scrutinio finale – risultati insufficienti in qualche disciplina, allora i casi sono due:
1. Lo studente – pur dotato di capacità bastevoli ad affrontare lo studio – non si è ad esso convenientemente applicato: studente capace ma non meritevole.
2. Lo studente si è costantemente e fortemente e lodevolmente impegnato nello studio, ma le sue capacità modeste gli hanno impedito di ottenere un grado di preparazione accettabile: studente, dunque, meritevole quanto si voglia, ma non capace.
In nessuno dei due casi lo Stato è tenuto a venire incontro a proprie spese alle difficoltà economiche che lo studente deve sormontare se vuole compiere studi ulteriori, che lo possano eventualmente portare a raggiungere quel minimo grado di preparazione che gli consenta di accedere alla classe successiva.
Insomma un provvedimento inteso ad istituire – nella scuola secondaria di secondo grado – corsi di recupero finanziati dallo Stato risulta non solo (e questo è un dato oggettivo) economicamente dispendioso per la collettività, ma addirittura pare confliggere con la lettera e con lo spirito della vigente Carta Costituzionale. La quale per l’appunto suggerisce che uno studente ha diritto ad un aiuto economico da parte dello Stato solo se con il suo essere e con il suo agire dimostra di poter soddisfare in modo accettabile ad entrambe le condizioni poste dall’art. 34: deve essere ad un tempo capace e meritevole.
A questo punto potrebbe sorgere spontanea un’obiezione: “capacità e merito non sono entità immutabili, definite una volta per tutte ; sono anzi grandezze che possono variamente configurarsi a seconda delle situazioni storiche, economiche, sociali”. Ciò è ben vero: per esempio uno studente che oggi possa essere definito meritevole non sarà certo in tutto e per tutto indistinguibile rispetto al suo parimenti meritevole nonno, la cui esperienza di studente si è svolta in tutt’altra situazione, cinquant’anni or sono. Ma allora chi potrà autorevolmente affermare, di uno studente: “questo giovane è capace e meritevole”? La risposta è ovvia: la scuola, i docenti.

Naturalmente incorrerebbe in errore gravissimo chi andasse sostenendo che la scuola ha solo il compito di stabilire chi è capace e meritevole. La scuola ha invero moltissimi altri compiti, a tutti noti: ma sicuramente ha anche il compito (e dunque la responsabilità gravissima) di indicare alla società tutta i giovani capaci e meritevoli. Che sono poi per l’appunto i giovani ai quali è espressamente riconosciuto “il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.
Si badi bene: io non sto dicendo bisogna bocciare bisogna promuovere bisogna essere lassisti bisogna essere rigorosi. Sto semplicemente dicendo che i docenti della scuola secondaria superiore devono ricordare che tra i loro compiti vi è anche quello di additare alla collettività tutta gli alunni capaci e meritevoli. Se la scuola si sottrae a questo compito (ingrato quanto si voglia, ma nobilissimo), questo compito di selezione (tale, disgraziatamente, la parola giusta) verrà esercitato da altri, e in modi del tutto abusivi, niente affatto ragionevoli e giusti. In altre parole, il compito di selezionare i giovani destinati a “raggiungere i gradi più alti degli studi”, se lo assumerà l’Università, che lo svolgerà servendosi del nefando istituto del numero chiuso, o, come eufemisticamente si voglia dire, del numero programmato.

Io proclamo la sostanziale incostituzionalità di tale nefando istituto. Esso invero contribuisce fattivamente a cambiare la natura dell’esame di maturità, negando a tale augusto istituto una tra le sue prerogative principali: quella di costituire di per sé titolo d’ammissione all’Università.
L’esame di maturità non vuole essere ridotto al rango di esame d’ammissione all’esame d’ammissione all’Università. L’esame di maturità non è cosa da nulla: è esame di Stato: “E’ prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale” (art. 33, comma quinto, della vigente Costituzione). Io dico che per uno studente aver superato l’esame di Maturità deve di per sé significare possibilità riconosciuta di accesso agli studi universitari. Ripeto: uno studente che abbia superato l’esame di maturità è da considerarsi dotato del diritto di accedere agli studi universitari. Tale capacità (giuridica) di accedere agli studi universitari – naturalmente – non implica in alcun modo il diritto di arrivare alla laurea, e anzi l’Università, dal canto suo, avrà – del pari naturalmente – tutto il diritto (vale a dire, in sostanza, quasi il dovere) di essere rigorosa e severa con lo studente in questione, mettendolo a dura prova, diuturnamente (soli i “capaci e meritevoli … hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”). Ma l’Università non può e non deve chiudere la porta in faccia a uno studente che abbia superato l’esame di maturità.
Si dirà che l’Università è costretta a ricorrere all’istituto del numero chiuso per il semplice fatto che la scuola media superiore concede il diploma di maturità a troppi giovani, moltissimi dei quali non saranno poi per nulla in grado di affrontare lo studio universitario. Naturalmente io non sono qui a negare la verità di quest’ultima osservazione: sarà ben vero che conseguono la maturità anche tanti studenti per nulla brillanti (per usare un eufemismo). Ma non sarà certo il ricorso all’istituto del numero chiuso a migliorare la qualità dell’istruzione media superiore. Né d’altronde è tollerabile l’idea che l’Università si possa andare vieppiù configurando come una cittadella assediata da orde di fuoricasta, rassegnata ad accogliere entro le proprie mura non già i migliori, ma i meno peggiori (e chi non è colpito da sconforto profondo, al vedere che è giocoforza contentarsi del “meno peggio”?)».