Linea di confine.

Mario Pirani la Repubblica, 19/3/2007

 

Tanti anni fa, quando Scalfari m'incitò a tenere questa rubrica, avevo immaginato di chiamarla «le guerre di Macombo», riferendomi al mitico luogo, posto da Garcìa Màrquez a sfondo di «Cent'anni di solitudine», dove il colonnello Aureliano Buendìa «combatté diciassette guerre e le perse tutte». Infine ripiegai, più saggiamente, su «Linea di confine», il che non mi esentava da infinite sconfitte, ma avrebbe almeno lasciato aperta la porta a qualche onorevole pareggio e, talvolta, a una rarissima o, magari, dimezzata vittoria. Per questo oggi oso abbandonarmi ad un momento di soddisfazione, ancorché parziale, per la decisione del ministro della Pubblica Istruzione di proibire l'accensione dei cellulari durante le ore di lezione. Sono anni che da queste colonne lo chiedevo a nome di legioni di insegnanti che lamentavano l'impotenza cui erano condannati dalla perversa alleanza tra alunni, genitori e un gran numero di presidi, timorosi di perdere iscritti se si spargeva la voce di un istituto in fama di severità. I ministri, compreso, fino all'altro giorno, il buon Fioroni, da un lato si trinceravano dietro la conclamata, quanto spesso perversa, "autonomia scolastica", fingendo che ogni scuola, anzi ogni professore, purché "autorevole", fosse già in grado di reprimere il fastidioso trillo qualora lo ritenesse necessario; dall'altra, avanzavano una presunta carenza legislativa, quasi si trattasse di una libertà costituzionale in gioco e non di una logica direttiva amministrativa, rientrante nei poteri normativi di un ministro che si rispetti nei riguardi del buon funzionamento degli organismi (in questo caso le scuole) sottoposte al suo potere di indirizzo e controllo. Se, invece, davvero ci fosse sempre bisogno di una legge questo sancirebbe il degrado istituzionale di un paese in cui ogni atto di buon governo amministrativo non può essere preso se non in base ad una continua, caotica e sovrapposta legiferazione: così, se domani prendesse piede l'uso di venire a scuola con un coltello a serramanico (di quelli consentiti a un cacciatore), si dovrebbe affidare il contenzioso ad un "tavolo" di volenterosi o invocare una apposita legge.

Orbene, tornando alla benvenuta direttiva di Fioroni che, credo, tutti salutino con soddisfazione (anche se qualche mugugno è già apparso), mi permetto di far presente anche la parte mezzo vuota del bicchiere. E, cioè, il divieto di attivazione durante le lezioni ma non la proibizione pura e semplice di portare il cellulare a scuola (magari depositandolo all'ingresso in apposite bacheche con lucchetto). Ancor più negativa è l'autorizzazione ad usarlo durante gli intervalli e la ricreazione, allorquando più facilmente il telefonino, ormai atto a fotografare e riprendere, può trasformarsi in arma impropria per atti di bullismo, di violenza sessuale, di pornografia consenziente da mandare in rete. Il terzo aspetto carente è il rinvio all'"autonomia dei singoli istituti" per la fissazione delle norme applicative del principio fissato, mentre il ministero della PI si limiterà «a pubblicare sul proprio sito alcuni modelli di riferimento». Tenendo conto che il potere nel quadro della perversa autonomia è stato in gran parte affidato ai consigli di istituto, presieduti sempre da un genitore, e composti da una maggioranza composta da studenti e genitori (cui si aggrega il preside e il rappresentante di bidelli e segretari), con gli insegnanti in minoranza, deprivati in partenza della potestà decisionale, ne consegue che il «modello di riferimento» potrà essere piegato al familismo permissivo oggi imperante. Si dovrebbe, per contro, tornare ad un concetto di scuola come momento di relativo distacco del giovane dalla protezione famigliare, del dispiegarsi di un rapporto per lui inedito con una nuova figura predominante, l'insegnante, la cui autorevolezza non deve essere rimessa in gioco continuamente dall'intervento di mamma e papà, di confronto e di un avvicinamento al mondo esterno, fino allora spesso ignoto, dei compagni di classe.

In senso nettamente opposto ha operato, per contro, la torsione imposta dalle riforme catto-comuniste degli ultimi decenni. Da un lato hanno aperto uno spazio eccessivo ai genitori all'interno degli istituti, dall'altro, in nome dell'autonomia e della scuola-azienda, hanno imposto la centralità dell'alunno come cliente che ha sempre ragione e non deve essere frustrato da discipline formali e da obblighi formativi troppo pesanti. L'esito è risultato disastroso, tranne in qualche isola felice, come quel liceo di Avezzano di cui ha parlato sabato sulle nostre colonne Michele Smargiassi.