Il gesto violento nella scuola.
Una lenta erosione coinvolge l'autorità
dell'insegnamento Michele Serra, la Repubblica, 13/3/2007
Il discorso sulla scuola incute soggezione come pochi altri, tanto delicato e intricato è il rapporto tra la responsabilità degli adulti e la caotica fatica di chi sta crescendo, e crescendo sbanda e impara, sbaglia e riparte. Però vedo, come tutti, che uno dei due attori di questo rapporto – gli adulti – è come se avesse smarrito il copione, e non sapesse bene che dire e che fare. E quando leggo penose storie come quella dei genitori pugliesi che pestano a sangue un povero preside che ha osato anteporre qualche buona regola (telefonino spento a scuola) a qualche pessima usanza, mi vengono pensieri foschi sullo stato mentale dei grandi, che sono perfino più piccoli dei piccoli quando si tratti di stabilire che A viene prima di B, non dopo. Quando a scuola ci andavo io (anni Sessanta e Settanta) il rapporto tra famiglie e professori era scontatamente solidale. Il colloquio tra madri (più raramente padri) e docenti era, per ogni studente, un incubo rituale e una sentenza scontata: il mondo adulto era strutturato attorno a un pacchetto di regole (la disciplina, il merito e il demerito, perfino la durezza delle selezione) che governava saldamente i diversi ruoli – genitori, professori, studenti. Poi gli sconquassi sociali hanno facilmente e anche giustamente avuto la meglio sulla devozione quasi bigotta al "merito", smascherato come alibi di classe (don Milani) e ripudiato come scorciatoia pedagogica: la fatica di educare, e perfino di dare un'istruzione, non può esaurirsi nel vaglio dei bravi e dei meno bravi. Ma al posto di quel vecchio sistema classista e funzionale, di quegli automatismi ipocriti ma efficienti, siamo riusciti a metterci qualcosa di sensato, che sia intelligibile ai ragazzi come agli adulti? A me pare di no. La presenza dei genitori a scuola, santificata con ottimi propositi e incerti esiti dai decreti delegati, è in genere una gnagnera petulante e assolutoria nei confronti dei figli, le cui madri e i cui padri vedono spesso nel professore un giudice maldestro e poco autorevole. Alla tradizionale complicità tra famiglia e scuola, si è via via sostituito un contenzioso imbarazzato e imbarazzante, che vede da una parte docenti minati nella loro autorità (e nelle loro tasche, e nel loro prestigio sociale), dall'altra genitori nevroticamente protettivi. Si può dire, e va detto, che è una enorme responsabilità politica delle classi di governo degli ultimi decenni avere assistito senza reagire al progressivo deperimento sociale ed economico del ruolo, delicatissimo, dei docenti: in un paese arricchito vorticosamente, e deperito culturalmente, è inevitabile che scatti, in molti genitori, una sorta di complesso di superiorità sociale nei confronti di professori visti come impiegati dello Stato malpagati. Se era desolante, una volta, vedere genitori di basso censo presentarsi davanti ai professori a testa bassa, convinti comunque di non essere all'altezza, non lo è meno, oggi, vedere certi buzzurri pretenziosi che affrontano i prof al solo scopo di controllare che il loro figliolo non debba patire qualche affronto da un'autorità inferiore... Ma in aggiunta a questo, pesa anche la congiunzione fatale tra il nuovo lassismo educativo (lì sì che si può dire "relativismo etico": e vale per le famiglie tanto quanto per la scuola) e l'antica piaga del familismo italiano. L'iperprottetività nei confronti dei figli scolari si sposa al disprezzo per lo Stato, che sempre più spesso non viene più visto come un dispensatore di regole, ma come un impiccio, o una intrusione ostile. Naturalmente il bullismo dei genitori, vedi il caso pugliese, è un caso estremo. Ma basta frequentare lo sport giovanile (il calcio soprattutto) per scoprire ovunque padri e madri che pur di vedere i figli prevalere dimenticano in un istante etica e regole, educazione e cultura sportiva. A bordo campo, nei mille campetti dello sport giovanile, pullulano padri ossessi che inveiscono contro gli arbitri e gli avversari, certi come sono che solo il trionfo del loro pupillo possa dare un significato alla pratica dell'agonismo. La famiglia, della quale si parla e straparla caricandola di ogni virtù ma anche di ogni peso, va gonfiandosi di responsabilità che in una società moderna dovrebbero essere spalmate anche altrove, nella scuola di Stato soprattutto, nella scuola di Stato prima di tutto. (E stendiamo un velo pietoso sui danni ferali, finanziari e non, inflitti alla scuola pubblica per inseguire l'obiettivo ideologico della "parità" con gli istituti privati).
Esiste perfino uno
specifico professionale, in chi esercita la pedagogia come mestiere,
che non può essere surrogato dai genitori, e dovrebbe essere
inviolabile: quando un figlio va a scuola, vuol dire che lo si
consegna a un sistema di regole, di comportamenti e di socialità che è
diverso e autonomo rispetto alla famiglia. Nella vecchia scuola
italiana, con tutti i suoi limiti, questo principio era così scontato
che era rarissimo che un genitore mettesse in discussione il giudizio
di un professore (anche quando, magari, sarebbe stato necessario...).
Il famigerato e temutissimo colloquio tra genitori e prof cadeva una o
due volte l'anno: per il resto noi studenti avevamo la netta
impressione che i genitori fossero distratti o assenti, salvo poi
temerne le reazioni presentando la pagella. In realtà, era allora
scontato che la scuola prendesse in consegna i ragazzi e li passasse
al vaglio in perfetta autonomia. |