Luigi Berlinguer.

Intervento al convegno “Ulivo e Scuola”
(Modena 24.2.2006).

da Tuttoscuola, 12/3/2007

 

E’ una vecchia idea della sinistra quella di una scuola equa, non funzionale alla riproduzione delle iniquità sociali. Oggi siamo più avanti, quando affermiamo che la scuola debba, al contrario, funzionare da riequilibrio delle gerarchie sociali date, da sostegno per evitare marginalizzazioni sociali. E si va ancora più avanti quando precisiamo che proprio a questo scopo l’espansione numerica, la scuola per tutti, non basta: o si offre un servizio educativo di qualità per tutti o si ritorna a riprodurre indirettamente la discriminazione sociale. Se – cioè – si allarga l’istruzione ai più, a tutti, ma se ne abbassa contemporaneamente la qualità, a soffrirne saranno soprattutto i ceti più deboli, incapaci di supplire con risorse proprie alle deficienze del servizio. Quindi, oggi il nostro assunto è: education equa e di qualità. Assunto tipicamente nostro, ma ormai della migliore letteratura economica, dello stesso Mario Draghi, di tanti.

L’equità e la qualità hanno quindi, per noi, innanzitutto, una motivazione etica, etico-politica. Il sapere, da semplice diritto è per noi ora assunto al rango di diritto fondamentale, che è cosa ben più rilevante, perché costitutiva della stessa democrazia, non solo sociale ma politica. In una società della conoscenza il sapere è fattore sociale strutturale costitutivo della moderna economia. Esso è pertanto anche fonte di enormi potenzialità per tutti, ma anche possibile causa di feroci discriminazioni ed esclusioni sociali per chi non lo possiede adeguatamente. Di qui il diritto fondamentale, di qui la sua intensa eticità. Quanto basta, per noi, per fondare le nostre priorità politiche.

Esse non hanno però, solamente, una motivazione etica, di civiltà. Ne hanno anche altre, e importanti, dettate appunto dalle esigenze di quella stessa società della conoscenza, che sviluppa un rilevante bisogno di sapere, di una sua presenza sociale diffusa, del ruolo di professioni e mestieri qualificati come motori di innovazione e sviluppo. Si conviene oramai che il rendimento sociale dell’istruzione sia superiore al rendimento privato del singolo, che esso sia fattore di crescita endogena, fonte primaria di accumulazione. E’ quindi nell’interesse di tutti sviluppare la conoscenza. E lo è in particolare perché si è dimostrato che dove l’equità è perseguita con serietà non demagogica, effettivamente, curando l’inclusione accuratamente ed efficacemente, essa contribuisce ad elevare la qualità complessiva della scuola. Contrariamente al luogo comune che allargare significa abbassare, produrre lassismo e scarsa serietà, gli esempi finlandesi, svedesi, coreani dimostrano l’esatto contrario. Ma tant’è: i nostri soloni ed opinion makers blaterano in proposito non so se più per spirito reazionario che per ignoranza.

Ad ogni modo, la vera grande novità degli ultimi decenni in tema di education è la percentuale di ragazzi che raggiungono il diploma di scuola secondaria. Si marcia verso il 90% della leva d’età, quasi tutti in Italia, per quanto arrancando e con una scuola non adatta a sostenere questa straordinaria rivoluzione, siamo al 75%.

Questo è l’assunto, e questo è il fenomeno in atto. Per una forza politica come la nostra – l’Ulivo – non basta però enunciare. Occorre fare, marciare risolutamente nella direzione indicata. E’ essenziale pertanto il come, il che fare. Voglio partire però da una constatazione preliminare: per organizzare l’apprendimento occorre conoscere a chi esso è diretto, come pensa e a che cosa aspira l’interlocutore, in che modo egli reagisce a stimoli e prescrizioni. In altri termini qual è oggi la cultura giovanile. Le politiche scolastiche fondate sulle esigenze degli educatori e non sui bisogni culturali degli educandi sono suicide, più che stupide, non raggiungono il risultato. Un educatore che non capisce questo sarà bene che si ritiri. Non si fa che sentire il ritornello che i bambini ed i ragazzi, al mattino sono distratti, ancora assordati dal bombardamento subito nel pomeriggio precedente, quando non arrivano ad essere violenti o insolenti.

Non è questa la sede per approfondire un tale argomento. Mi fermo alla considerazione che esiste oggi un doppio ambiente di apprendimento, e – soprattutto – che si sono ormai sviluppate enormemente le attività non formalizzate rispetto a quella più propriamente istituzionale. I media, la TV, il cinema, gli amici, la vita sociale, la stessa famiglia (ancorché in ribasso) hanno oggi un’influenza sui giovani più rilevante rispetto alla scuola. E che cosa fa, come reagisce quest’ultima, di fronte a questo dato; che cosa dicono i luoghi comuni bacchettoni in proposito? La TV è cattiva maestra, l’immagine uccide il libro e quindi la cultura, i calcolatori stritolano le tabelline, gli SMS cancellano la sintassi etc. Facili conclusioni, anche comode. Non si vede in esse uno sforzo, una luce, una curiosità di capire che cosa sta succedendo nel mondo, nella mente dei nostri bambini, nei nuovi assetti cognitivi. Non si può reagire così. Dobbiamo energicamente combattere questa cultura bacchettona, ignorante nei confronti del nuovo.

La nostra scuola, lasciatemi dire (lo so è un po’ forte), è in questo uggiosa e vecchia. Non è educatrice rispetto alle sfide del futuro. Subisce, ignora, rifiuta, disprezza le novità culturali. Come quando rifiuta cubismo e astrattismo perché accetta unicamente il figurativismo, nega la musica elettronica perché il suo gusto è fermo al solo romanticismo (peraltro straordinario!). Sono mille gli esempi di questa mentalità chiusa. Il compito dell’education è quello di cambiare la vecchia impostazione culturale, sconfiggere i nostalgici e i laudatores temporis acti, aprirsi alle novità: questa è la grande spinta che ci viene dalle nuove generazioni, che può rilanciare un paese che vive ora nell’amarezza e nella recriminazione costante, guidata da una politica pettegola e stereotipata, ideologizzata al massimo. L’education scolastica deve misurarsi con tutti gli stimoli che vengono dalle centrali informative informali, sfruttarli, utilizzarne l’apporto, trasformarli in “conoscenze situate” per aumentare e migliorare il proprio rendimento complessivo, la propria capacità di stimolare interessi e curiosità intellettuali infantili e giovanili. Occorre un rapporto corretto fra i due ambienti di apprendimento, non una reciproca ignoranza fra di loro. Vorrei fare qualche esempio, a proposito delle nuove abilità cognitive dei bambini e dei ragazzi, sviluppatesi tutte al di fuori della scuola (bestemmia!). Alcuni studiosi le hanno ampiamente esaminate, e sono in grado di aiutarci a utilizzarle ai fini educativi. Le abilità di manipolazione fine con tutte le dita della mano, il coordinamento visu-motorio, la destrezza manipolativa (pensate a quante nuove professioni qualificate e moderne esse possono rivelarsi utili…).Oppure il loro “pensiero visivo”, che li rende capaci di lavorare mentalmente per immagini, di trasformare concetti verbali in schemi e figure, di passare dall’oralità a nuove scritture, in processi suggestivi di cambiamento antropologico cognitivo che devono essere necessariamente conosciuti da un’istituzione educativa. Oppure ancora quello che viene chiamato il loro “controllo attentivo-spaziale”, l’attenzione periferica e così via. Da ultimo, si è venuta progressivamente riducendo la forbice tra sapere e fare, fra intellettualità e manualità, che ha a lungo costituito una frontiera discriminatoria anche sociale, oltre che culturale. La fisicità, l’operatività, vanno rappresentando sempre più una componente essenziale dell’intellettualità, della cultura. Non si può continuare ad esorcizzare la prevalenza del pensiero visivo, del “concreto”, conservare nella scuola il monopolio dei linguaggi verbali, considerare incolti e decretare ancora l’ostracismo a quelli non verbali, ignorare che “nell’età della pietra l’uomo cantava prima di parlare”. E’ da ignoranti trascurare l’esistenza a fianco all’alfabeto, dei numeri, delle note, delle immagini! Eppure il nostro mondo contemporaneo è più bello di quello del passato, perché la vita si è allungata, le pestilenze debellate, la schiavitù abolita, la donna rispettata e valorizzata, la tirannia combattuta; ma anche perché l’insieme dei 4 codici espressivi arricchisce il sapere, la cultura, l’arte, l’intreccio dei linguaggi. La vita. La civiltà. La scuola che non parte da qui, che è estranea a tutto questo, si capisce perché è uggiosa, non conquista, perde qualità. Gli strumenti, le stagioni della crescita culturale dell’umanità scandiscono le fasi in cui le scritture sono venute cambiando. Alle vecchie strumentazioni – bellissime, preziosissime, gioielli – se ne sono sostituite di nuove, apparentemente più volgari – perché semplici - e meno eleganti. Possiamo considerare Gutemberg, Bodoni, con la loro stampa, dei barbari al cospetto dei manoscritti, degli incuneaboli, dei meravigliosi codici miniati, affascinanti tesori di qualità insuperabile, e tuttavia ormai strumenti aristocratici di esclusione e quindi di iniquità? Multa paucis, certo, a fronte però di un’esigenza di multa multis. Così pure la grande stagione del’ Encyclopédie , che aprì la strada alla democrazia politica liberale, ad un grande impianto di libertà e di sviluppo del sapere. Oggi la nuove tecnologie dell’informazione-comunicazione si presentano aridamente assai meno affascinanti di un bel libro, non possono certo sostituirlo integralmente ma stanno offrendo straordinarie potenzialità di sviluppo dell’accesso all’informazione, ma anche al sapere. E sono insieme oggetto necessario di studio dei loro codici fondativi, delle diverse potenzialità, delle conseguenze di lingua e di assetto organizzativo di cui non conosciamo che poco del futuro che ci riservano. Le tecnologie ci obbligano oggi a riprogettare non solo le procedure, ma la stessa didattica. Certamente oggi la dimensione mondiale irrompe dentro le nostre piccole aule chiuse, con tutto quello che ciò può significare di sapere, di conoscenza, di rapporti, di flessibilità organizzativa. La stessa comunità educante scolastica cambia natura. Non va certo perduto il valore del collettivo fisicamente contestuale, del rapporto diretto con il docente, del valore formativo, affettivo ed etico del compagno di classe. Ma non ci si può fermare a questo. La comunità educante si allarga, e rimodella, intanto con la flessibilità, l’organico funzionale, i moduli diversificati anche per discilpline diverse; per giungere fino alla dimensione mondo, a internet, ad estendere rapporti e collaborazioni, lingue, curiosità, ad orizzonti ieri impossibili. Oltre a salvarci dalla solitudine e dall’abbandono che stanno oggi condannando le scuolette di montagna…
In una riunione come questa, di fronte all’esplodere di tali novità, abbiamo il compito di ridisegnare la stessa mission dell’education. Nella società della conoscenza. E’ la grande occasione per il Partito democratico, e lo stesso PD è la grande opportunità per la scuola, per rielaborare una teoria educativa su basi unitarie. Le forze progressiste si sono divise nel passato su questo tema, sono caduti i governi, si è esasperata la divisione ideologica, non si è riusciti a partire da un’analisi del reale guardando ai nuovi processi sociali e culturali e alla nuova domanda giovanile. Oggi il Partito democratico deve partire dalla società della conoscenza, dai suoi bisogni, alle sue potenzialità. Guardando avanti.

Ed è guardando avanti, che vedo, per l’Italia il manifesto del riformismo nell’art. 3 capoverso della Costituzione: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Il riformismo – si sa – è spesso una prospettazione politica che mal si sintetizza evidenziando ideali che appassionano. Il riformismo generalmente è freddo. C’è sempre il rischio che esso si presenti come un percorso all’insegna dell’empiria o del compromesso. Invece tuttavia il vero riformismo può avere in sé una valenza ideale per il fatto che è l’unica politica che assicura effettivamente ai più deboli un riscatto vero, il successo dei loro legittimi bisogni. E’ solo in un’ottica riformista che può trovare attuazione la triade ideale più alta, più bella, più duratura della modernità: libertà, uguaglianza, solidarietà. E se il sapere per tutti, come diritto fondamentale, è la premessa di vera libertà ed uguaglianza nella società della conoscenza, è la vera giustizia sociale, l’art. 3 della Costituzione incarna mirabilmente questo diritto. Ed è nell’inciso “di fatto” la sua carica riformista. Nella prescrizione che vanno rimossi gli ostacoli che “limitano di fatto…”. Agli ideologhi, ai puri propagandisti, a coloro che si accontentano della sola declamazione dei diritti non interessa la “rimozione di fatto” non interessano cioè le misure concrete ma possibili, attuabili, graduali; né interessa che bisogna determinare convergenze di diverse culture e tradizioni come condizione effettuale del successo degli obiettivi di libertà ed uguaglianza. Agli ideologhi interessa solo prospettare, sventolare bandiere; non unire – anzi, dividere – spesso paghi di aver prospettato, talvolta felici di poter accusare qualcuno di essere contrario a libertà e uguaglianza. Al contrario, il riformismo progetta l’ideale ma lavora per “rinnovare di fatto” e per costruire. Come?

A me pare che nella scuola, nell’education l’art. 3 capoverso, per poter funzionare, postuli un cambiamento profondo del metodo didattico. Certo richiede misure economiche di sostegno ai meno abbienti, di riequilibrio territoriale e sociale, e così via. Ma soprattutto è indispensabile spostare il centro dell’Education sull’apprendimento, l’alunno, il suo protagonismo, la sua libertà. Lo so: è stato già detto, e più volte; ma è stato solo prospettato e declamato, oppure contrastato, senza tuttavia che si adottassero le misure per realizzarlo. E invece io ritengo che la strada maestra sia un cambiamento radicale dell’impianto didattico, che costituisce una innovazione culturale ……
Per citare alla rinfusa alcuni nomi, richiamo Dewey, Bruner, Gardner, E. Morin … La letteratura è prodiga di testi e di idee, ma la scuola italiana, specie secondaria, è sostanzialmente impermeabile… Troppo scontro ideologico, troppa amarezza, troppi condizionamenti del passato e della tradizione, sia dell’origine autoritaria dell’insegnamento, sia del gentilismo (o meglio dei suoi “nipotini”) che sopravvive in tante pieghe dell’impianto educativo.

La scuola è culturalmente autoritaria, anche se ha perso gran parte della sua forza impositiva. E’ più giudicante che docente, perché affida il suo risultato più alle “interrogazioni” e agli esami che al sostegno dell’apprendimento. Ritornano ancora nostalgie regressive o centralistiche, tentativi di restaurazione più autoritaria, per lo più impotenti a causa del mutato quadro sociale e istituzionale. Ma l’impianto resta dall’alto verso il basso. Laddove – al contrario – l’apprendimento, attività altamente motivazionale, ha bisogno di stimoli, sollecitazioni, per destare curiosità, interessi intellettuali, perfino emozioni. In fondo questo è il vero senso della centralità dello studente e dell’apprendimento.

Un aspetto è la fisicità, la finalizzazione, il senso di ciò che si apprende e di come si apprende; la riduzione della forbice fra fare e sapere, per i licei e per i professionali; il rapporto fra fisicità e riflessione. L’altro aspetto è la sintesi fra intelligenza emotiva e intelligenza razionale, per così dire fra emisfero destro e sinistro del cervello. E’ cultura solo quella che parte dalla teoria e si esprime in prevalenza con linguaggi verbali? E non lo è un’esecuzione - con le mani, quasi necessariamente – al pianoforte? Non lo è un esperimento di fisica in laboratorio? Certo che lo sono.

Non voglio dire con questo che l’esperimento esaurisce il processo cognitivo, esso deve necessariamente portare alle strutture razionali del pensiero, a concetti, a forme di astrazione, senza le quali non c’è cultura. Nego però che ci si possa limitare solo a questo, e che si parta da questa, perché ciò estranea o espelle i più. Va invece sollecitato il piacere della scoperta dei misteri della natura attraverso il loro farsi, e l’astrazione che ne deriva. Per attuare l’art. 3 capoverso della Costituzione, rimuovere gli ostacoli nei fatti, per tutti, occorre che il sapere, la cultura siano per chi apprende non un precotto (né tanto meno una penitenza) ma una conquista, fatta in buona misura di sé, anche con le proprie mani. E che si moltiplicano le occasioni in cui si producono eccezioni, si, sissignore, emozioni, dentro la scuola, e più ancora la sollecitazione delle creatività che in forme diverse è in ognuno. Soprattutto creatività artistica, e sopra – soprattutto con la musica per tutti.

La crescita dei saperi non deve essere “deduttiva”, ma progressiva, come un cammino, lungo certamente, e in leggera salita all’inizio, per poi inerpicarsi nelle difficoltà, nelle complessità, nelle specialità che crescono di continuo, e con esse l’impegno e la fatica: Ma sempre all’insegna della curiosità e dell’emozione. Non serve, è dannoso invece erigere, fin dal principio, un muro, un ostacolo, una dura difficoltà iniziale, perché essa sarebbe selettiva, espellerebbe disamorerebbe invece che incoraggiare. Lo stesso carico di impegno va introdotto progressivamente, e così se ne avvantaggerà la qualità complessiva, e con essa l’inclusione.

Anche con questo intendimento facemmo la riforma dei cicli nella scuola e nell’università. Spero che qualcuno si accorga ora che grande riforma essa era. Per questo stesso obiettivo approvammo l’autonomia scolastica. Infatti, se vogliamo equità e qualità bisogna andare avanti risolutamente con l’autonomia. Parlo soprattutto di quell’aspetto dell’autonomia che favorisce l’apprendimento. Autonomia dei curricoli, per lo studente innanzitutto. E cioè flessibilità curricolare, opposta ai programmi ministeriali, che trasforma la diversità in ricchezza, contro le gerarchie disciplinari, il monolitismo culturale. La sollecitazione, cioè, delle vocazioni da incoraggiare con relativa libertà, tutte dentro la scuola. Autonomia che ricerchi la capacità di destare emozioni e gratificazioni dovute al proprio successo nello studio; che insegni a mirare al risultato da conseguire con lo studio.

Un simile impianto didattico, se abitua l’alunno a costruirsi un risultato proprio, facilita la possibilità di meglio verificare l’avvenuto conseguimento. Perché non c’è autonomia seria senza valutazione del risultato. Anzi, più che di valutazione io parlerei di assessment, cioè di verifica - se possiamo tradurre così. Equità e assessment sono due facce della stessa medaglia. Assessment non è punitivo, come l’idea di valutazione: richiama invece la responsabilità. Richiama la ricerca didattica, la verifica costante del suo successo. E’ fortemente interata con il monitoraggio, che non giunge tardivamente solo alla fine del processo educativo, ma interviene costantemente, e specie nei momenti delicati dell’apprendimento, quando dovrebbe, potrebbe essere necessario ma anche efficace intervenire, verificare, sostenere chi ritarda o è in difficoltà. L’esperienza finlandese in proposito, di un rapporto stretto fra equità ed assessment, è illuminante, eccezionale. Consente tra l’altro un valido intreccio fra valutazione ed autovalutazione, insegnando ed abituando così i singoli ed il sistema ad autocontrollarsi ed a migliorarsi così, costantemente.

Naturalmente, tutto ciò – cambiando la didattica – cambia anche la docimologia, i sistemi tecnici di valutazione scolastica, lo stesso regime degli esami. Ma ci mostra la validità di una convinzione che ho maturato da qualche tempo: oggi la politica scolastica si fa soprattutto e innanzitutto con i contenuti e metodi, e dando priorità all’assessment, alla valutazione. Bisogna cominciare da lì. Prima di costruire nuove architetture, nuovi sistemi, bisogna far muovere tutte le attività di assessment, che sono una formidabile arma di politica scolastica.

Equità, qualità, articolo 3 capoverso, riformismo sono così riassumibili nell’obiettivo del DSE, diritto al successo educativo per ognuno. E’ questo il manifesto dell’Ulivo per la scuola. Ripeto: per assicurarlo, per cambiare la didattica, occorre introdurre nella scuola l’emozione, il suono, il canto, la più naturale ed intensa delle espressività umane. E insieme, per sollecitare le strutture razionali del pensiero, bisogna fondare l’apprendimento scientifico sulla sperimentalità laboratoriale, nel metodo scientifico-sperimentale, sul senso da attribuire al proprio itinerario nei segreti della scienza, sui percorsi per giungere alla modellistica capace di interpretare il mondo. E contagiare di questa tutte le discipline scolastiche.

Siamo indietro, terribilmente indietro. Nel paese che per primo ha dato un nome alle note, inventato gli strumenti più belli, nel paese di Leonardo, di Galileo, di Enrico Fermi, siamo Calimero, mentre in altri paesi e continenti si cammina con velocità sorprendenti. Un solo dato per non tediare: nel prossimo decennio il 90% dei fisici, chimici, ingegneri sarà asiatico e lavorerà in Asia. Un paese povero di materie prime e materiali, e di manodopera a basso costo, come il nostro, ha solo l’ingegno dei suoi figli. Ma se non mettiamo a frutto neanche quello rischiamo di declinare, impoverirci, sparire,

La risposta è soprattutto nelle mani della scuola e degli insegnanti. Una riconversione così profonda dei contenuti e dei metodi la possono produrre solo loro, gli insegnanti. Il paese a questo li chiama. La politica deve aiutarli nel compito, ma il ruolo primo è loro. Chiamiamoli appunto a supplire a quanto non è stato loro richiesto nel passato, né insegnato. E quindi ad una grande opera di riconversione professionale, che parte da loro, dal proprio vissuto come docenti, dall’esperienza, dalla ricerca didattica propria e centro del cambiamento. Il paese saprà riconoscere così il ruolo sociale determinante nella società della conoscenza.